La quaestio iuris della natura, assoluta o relativa, della presunzione di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria contenuta nell’art. 275, comma 3, c.p.p. con riferimento al reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa è stata affrontata recentemente dalla Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, con sentenza del 17 gennaio 2014, emessa su ricorso della Procura della Repubblica di Napoli avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Napoli, Sezione Riesame nei confronti dell’ex parlamentare Nicola Cosentino.
I nodi centrali, tra loro “intrecciati”, erano due: 1) se il concorso esterno in associazione mafiosa fosse assimilabile, quanto al regime cautelare, alla partecipazione ad associazione mafiosa, oppure ai reati comuni aggravati dall’art. 7 L. 203/1991, rispetto ai quali la Corte Costituzionale con sentenza n. 57 del 2013 ha ammesso la possibilità di applicare misure coercitive diverse dalla custodia in carcere; 2) in caso negativo, come valutare la sussistenza e (nel prosieguo della vicenda cautelare) la persistenza o meno delle esigenze cautelari in casi di concorso esterno.
Va ricordato che con la pronuncia citata la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. nella parte in cui, “nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.
La Cassazione si era già pronunciata proprio in relazione alla vicenda processuale dell’ex parlamentare con sentenza del 27 giugno 2013 nella quale, premesso che “la presunzione assoluta di pericolosità circa la sussistenza delle esigenze cautelari trovava applicazione anche per il concorso esterno in associazione mafiosa, secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. VI, 8 luglio 2011, n. 27685, Mancini; Sez. VI, 21 ottobre 2010, n. 42922, Lo Cicero; Sez. II, 18 novembre 2004, n, 48444, Cozza; Sez. VI, 20 ottobre 1995, n. 3722, Masselli) e da ultimo riconosciuto, indirettamente, anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 57/2013”, si chiarivano quali dovessero essere gli elementi idonei a superare la presunzione di pericolosità con riferimento alle diverse posizioni dell’indagato per reato associativo di tipo mafioso e per concorso esterno nel reato associativo.
Rilevava al riguardo la Corte che, se la presunzione di pericolosità sociale a norma dell'art. 275 comma 3 cod. proc. pen., nei confronti di un indagato per il reato associativo di tipo mafioso impone la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che risulti dimostrato che l'associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l'organizzazione criminosa ovvero sussistano elementi concreti e specifici di un significativo allontanamento dall’associazione, diversa è la valutazione che deve essere compiuta nell'ambito operativo della presunzione con riferimento alla posizione del concorrente esterno nel reato associativo mafioso, in cui non vi è un’affectio societatis da rescindere. In tale ultima ipotesi, in cui l’indagato resta estraneo all'organizzazione, gli elementi idonei a superare la presunzione di pericolosità non coincidono con la rescissione definitiva del vincolo associativo, ma comportano una prognosi in ordine alla "ripetibilità o meno della situazione che ha dato luogo al contributo dell'extraneus alla vita della consorteria".
Il principio è stato ribadito dalla Seconda Sezione nella sentenza n. 2242/2014 dell’11.12.2013-20.1.2014 (ric. Riela) su ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Catania in sede di appello del 19.7.2013. La Corte ha condiviso il ragionamento svolto dal tribunale per cui non si potessero “estendere” in via interpretativa al concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa gli effetti della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 275 comma 3 c.p.p. (e dunque la “nuova” presunzione relativa) concernente i delitti aggravati ex art. 7 D.L. 152/1991.
Osservava il collegio territoriale che la questione giuridica proposta dal ricorrente era stata già (sia pure incidentalmente) risolta dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 57 del 2013, nel senso della non equiparabilità della posizione di chi commetta un reato comune aggravato dall’art. 7 D.L. cit. e di chi concorra, sebbene dall’esterno, nell’associazione mafiosa. Ed argomentava come la decisione della Consulta fosse certamente ragionevole, e ciò in relazione all’intrinseca natura del reato di concorso esterno, in cui l’agente fornisce un contributo concreto, specifico, volontario e consapevole che costituisca condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (Sezioni Unite n. 33748 del 12.07.2005). Identico percorso argomentativo ha seguito la Cassazione nella sentenza che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale posta nei medesimi termini della difesa Riela (sez. II, 26.3.2014).
Nel medesimo solco interpretativo si è posta la I Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza n. 2946 del 17.10.2013, Palumbo, nella cui motivazione, partendo dalla definizione del concorrente esterno quale “soggetto che assicura, con condotta causalmente orientata, il raggiungimento dei fini cui mira il sodalizio criminoso”, attraverso l’esaltazione del “materiale effetto di stabilizzazione del suo rapporto con il clan” si è pervenuti alla piena assimilazione, ai fini cautelari, di tale figura con quella del soggetto partecipe.
Sull’argomento è tornata dunque la Corte di Cassazione nella sentenza del 17 gennaio 2014 nel caso Cosentino. Richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 57/2013, unitamente alle precedenti n. 231/2011 e 110/2012, con le quali il giudice delle leggi aveva circoscritto la compatibilità costituzionale della presunzione espressa nell'art.275, comma 3, cod .proc. pen. ai soli delitti di mafia (si vedano in particolare la sentenza n.231/2011 e la sentenza n. 110/2012), individuando la ratio giustificativa di tale presunzione «nella struttura stessa della fattispecie e nelle sue connotazioni criminologiche - legate alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice» (sentenza n. 231 del 2011), la Cassazione ha riproposto il punto 6 del “Considerato in diritto” della sentenza n. 57/2013: «La posizione dell'autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto "metodo mafioso" o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, si rivela non equiparabile a quella dell'associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale la presunzione delineata dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. risponde, come si è detto, a dati di esperienza generalizzati».
Ora, la conclusione che la previsione della norma processuale in esame è da intendersi nel senso della vigenza, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, di una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere appare logica e pienamente condivisibile, alla luce di quella che è stata l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale a partire dal 1995, anno in cui, con ordinanza n. 450, veniva dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, c.p.p., sul presupposto della “non irragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità legislativa”.
Se si ha riguardo alle declaratorie di (parziale) illegittimità costituzionale della norma in esame che si sono succedute nel tempo (delitti a sfondo sessuale -sentenza n. 265 del 2010-, omicidio volontario -sentenza n. 164 del 2011-, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti -sentenza n. 231 del 2011-, associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p. -sentenza n. 110 del 2012- alcune figure di favoreggiamento delle immigrazioni illegali -sentenza n. 331 del 2011-, delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 D.L. 152/1991 –sentenza n. 57 del 2013), e che hanno determinato la trasformazione della presunzione da assoluta in relativa, rendendola superabile attraverso l’acquisizione di «elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure» (sentenze n. 110 del 2012, n. 331, 231 e 164 del 2011, n. 265 del 2010), non si può che concludere per la ragionevolezza di un sistema che deroghi, quanto ai delitti di mafia in senso stretto, al regime cautelare ordinario.
La ratio, per l’associazione mafiosa, poggia sulla constatazione che «dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – connesse alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità)» (Corte cost. n. 265 del 2010).
Connotazioni analoghe caratterizzano la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa, siccome delineata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite. Partendo dalla definizione del concorrente esterno ad associazione di tipo mafioso quale “colui che, pur non inserito stabilmente nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, di natura materiale o morale, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale nella conservazione o nel rafforzamento delle capacità operative dell'associazione, e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima” (da ultimo, Sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013 - dep. 10/12/2013, Billizzi e altri, Rv. 258137), non si può che stigmatizzarne la condotta come pienamente espressiva dei connotati di illiceità previsti dall'art. 416 bis c.p..
I dati che accomunano il concorrente esterno al soggetto partecipe, attraverso la clausola generale di estensione delle condotte atipiche di cui all'art. 110 c.p. (in questi termini la sentenza Palumbo cit.), sono il contributo al raggiungimento dei fini ed il materiale effetto di stabilizzazione del suo rapporto con il clan. Elementi che, a ben vedere non sono individuabili nella condotta del soggetto che commetta un reato aggravato dal metodo mafioso (che può perfino prescindere da un effettivo collegamento a una consorteria mafiosa: si pensi a chi “emula” il metodo mafioso) o dalla finalità di agevolazione mafiosa, il quale esprime un disvalore limitato al singolo episodio incriminato.
Ad oggi quindi non potrà che essere applicata la misura cautelare della custodia in carcere, dovendosi escludere il ricorso a forme di limitazione della libertà personale intermedie e meno afflittive.
Sulla base di queste premesse la Cassazione ha ribadito che la sussistenza delle esigenze cautelari può essere superata valutando in via prognostica, ancorata concretamente ai dati fattuali emergenti dalle risultanze investigative acquisite, la ripetibilità della situazione che ha dato luogo al contributo dell'"extraneus" alla vita della consorteria, tenendo conto in questa prospettiva dell'attuale condotta di vita e della persistenza o meno di interessi comuni con il sodalizio mafioso senza necessità di provare la rescissione del vincolo, peraltro in tesi già insussistente (già Sez. VI, n. 27685 del 08/07/2011-14/07/2011, Mancini). Richiamando la precedente decisione sul caso Cosentino, ha tuttavia ribadito che tale valutazione deve essere riempita di contenuti concreti rivolti all’attualità e non riferiti solo al passato”, e che, pur non potendo prescindere da concreti riferimenti all’attualità, si svolga piuttosto “su un sentiero di contemporaneità, cioè di un arco di tempo significativo, anche prolungato, avente caratteri strutturali e legami di unitarietà in ordine al medesimo soggetto, ed in cui gli indici rivelatori della pericolosità si manifestino in maniera persistente, fino a concretizzare, al momento della decisione, la necessità dell’adozione, in ipotesi, della misura massima della restrizione della libertà personale”.
La Cassazione 17.1.2014, Cosentino, opera quindi un’approfondita disamina di come debba essere apprezzata la persistenza o meno delle esigenze cautelari (unica causa di possibile, e radicale, revisione del regime cautelare), rilevando con riferimento al politico concorrente esterno che – similmente a quanto affermato per i reati contro la P.A. – la dismissione di cariche o l’esaurimento dell'ufficio nell'esercizio del quale si era realizzata la condotta addebitata non sono decisivi, occorrendo verificare nel caso concreto se il rischio di ulteriori condotte illecite del tipo di quella contestata sia reso probabile da una "permanente posizione soggettiva dell'agente che gli consenta di continuare a mantenere, pur nell'ambito di funzioni o incarichi pubblici diversi, condotte antigiuridiche aventi lo stesso rilievo ed offensive della stessa categoria di beni e valori di appartenenza del reato commesso" (Sez. VI, 28.1.1997, Ortolano; Sez. VI, 16.12.2009 n. 1963, Rotondo). A giudizio della Corte il TL, laddove aveva escluso l’attualità delle esigenze cautelari richiamando “la massima di esperienza secondo cui le organizzazioni camorristico-mafiose non hanno interesse a servirsi di politici “bruciati”, ma sono solite individuare referenti politici “dal potere in ascesa”, in realtà si era fondata, piuttosto che su un’autentica massima di esperienza, su una congettura, e cioè un'ipotesi non fondata sull'id quod plerumque accidit.
Il TL non avrebbe dato il giusto peso agli elementi nuovi allegati dal PM come significativi del persistente radicamento del Cosentino nel territorio di provenienza e dell’attuale possibilità di coltivare comunque un ruolo politico di fatto rilevante, vista la estesa rete di collegamenti politico-amministrativi realizzati in Campania dall’epoca del suo ingresso politica (tra detti elementi, relativi agli anni 2010-marzo 2013: a) la conversazione ambientale captata in carcere nel 2011 nella quale uno degli esponenti apicali del clan dei casalesi, indirettamente imparentato con Cosentino, sollecitava un intervento del Cosentino finalizzato all’ottenimento del proprio trasferimento in un'altra casa circondariale a lui più gradita, scorrettamente svilito dal TL con la mancata verifica concernente l’esecuzione del trasferimento richiesto, omettendo di valorizzare un precedente analogo; b) le singolari circostanze concernenti la dismissione dell’ultima carica politica a seguito della mancata ricandidatura del Cosentino per le elezioni politiche dell’aprile 2013, decisa solo a poche ore dalla scadenza del termine per la presentazione delle candidature; c) l'atteggiamento di altro pregiudicato intraneo al clan dei casalesi che non dava credito alla presa di distanza rispetto al clan camorristico effettuata da Cosentino nel corso di un'udienza dibattimentale; d) la conversazione intercorsa nel 2011 nella quale è dato apprendere che due imprenditori si rivolgevano tramite un terzo a Cosentino per ottenere la nomina di un funzionario amministrativo loro gradito per essere agevolati nella realizzazione di lavori pubblici).
Tali elementi, letti insieme a quelli pregressi, imponevano, impongono e – in casi analoghi – imporranno di rivalutare l’intatta capacità di affidamento del gruppo criminale di riferimento rispetto all’adozione di possibili interventi favorevoli da parte dell’odierno imputato, a prescindere dalla emissione di provvedimenti restrittivi e della stessa contemporanea pendenza di un processo aperto nei suoi confronti ed anche a prescindere dalla titolarità formale di incarichi pubblici.
*Simona Ragazzi si è occupata soltanto della parte relativa al commento della sentenza 'Cosentino'