1. Tra tempo e luogo
Fino a pochi mesi fa si faceva un gran parlare del tempo nella giustizia.
Lo si misurava all’interno di un tema squisitamente tecnico come quello della prescrizione penale.
Poi l’argomento è stato fagocitato da pensieri ben più profondi che pure a vario titolo tornano a rievocare il tempo nella giustizia, ma in una sua dimensione più esistenziale. L’epidemia ha costretto a una vita sospesa nel vuoto, nel nulla e allora è apparso e appare necessario ripensare spazi vitali con una sua interruzione per aprire varchi che consentano alla giustizia stessa di rassicurare circa la sua sopravvivenza.
Tra i vari rimedi immaginati e in parte messi in campo vi è stato il collegamento da remoto, per certo strumento che consente la prosecuzione di un’attività in incontri virtuali al sicuro riparo da ogni rischio di contaminazione.
Ne è seguito un acceso dibattito all’esterno e all’interno della magistratura sulla plausibilità dell’udienza virtuale e sulle possibilità di incrementare l’utilizzo degli apparati offerti dalla più moderna tecnologia informatica. Gli scontri alzano la polvere, alimentano un pensiero indistinto. Dietro una coltre fuligginosa s’intravede il tempo, il suo incedere veloce, i cambiamenti che produce, ma ne sfuggono le chiavi di lettura.
Nel suo fluire incessante il tempo avanza con un continuo mutamento d’abito, alternando storia e futuro. Accade in un attimo.
È molto difficile che l’essere umano possa accorgersene, cogliere l’atto del travestimento, seppure, si trovi, per lo più inconsapevole, sull’onda che lo trasporta su spiagge inesplorate: lì c’è il futuro.
Avendone cavalcato prima l’onda, avrebbe, forse, potuto comprenderlo e sistemarlo meglio.
Non è accaduto oggi. Non accade quasi mai.
Accade, invece, che, al culmine dell’onda di transizione, passatisti e innovatori creino una tensione vuota, uno spazio rumoroso, nel quale non viene mai data ospitalità al ragionamento. Prende il sopravvento una vuota retorica fino all’indigestione con rigurgiti somministrati un po’ dovunque e formazione dell’ultimo strato “multideologico”, spalmato sul magma della confusione.
Si lascerà al caso o alla capacità di chi saprà imporre il proprio punto di vista il compito di modellare le forme del futuro. Ne difetterà, purtroppo, in mancanza di conoscenza e capacità di previsione, dunque, dell’elaborazione politica di un progetto, la saggezza.
L’elaborazione di un progetto presuppone la messa a fuoco di bisogni e obbiettivi, che, nella dimensione pubblica non sono di un soggetto o di una categoria particolare; appartengono, invece, a tutti, nel loro insieme di collettività.
Fattori collettivi sono, ad esempio, lo spazio e il tempo della giustizia, nei quali le funzioni dei soggetti che vi compaiono come protagonisti riflettono le esigenze di un sistema collettivo: il processo ne é strumento per l’ affermazione del diritto e dei diritti.
Il processo, fatto di una serie di regole, ha bisogno di un luogo di svolgimento.
Il luogo non è solo lo spazio, ossia l’involucro che lo delimita, ma anche la sua ubicazione nel territorio.
Una riflessione sulle possibilità di “dematerializzazione” di parte dell’attività giudiziaria molto probabilmente non dovrebbe trascurare la comprensione del significato del progressivo spostamento dei palazzi di giustizia nelle città e delle ideologie economico-politiche che lo hanno accompagnato.
Se in pieno clima liberale all’inizio del secolo scorso ancora si poteva guardare all’edificio destinato ad accogliere i tribunali come al “Tempio di giustizia”, è stata sufficiente l’evoluzione neo liberale[1] per decretarne non solo la perdita dell’aurea di sacralità, ma anche la marginalizzazione topografica.
In quasi tutte le città, oggi, i tribunali si collocano in zone periferiche, lontane dai centri di pulsione dinamica degli abitanti, dalle possibilità di loro immediata percezione, dalla stessa emozione, presumibilmente, del giusto e dell’ingiusto. La voce del monito all’osservanza delle regole pare flebile, quasi un’afonia: la lontananza ha decretato la sensazione dell’assenza.
Vi è stata una metamorfosi del tempo spontanea, silenziosa. La libertà, l’eguaglianza, il lavoro, l’utilità sociale ancor prima di parole, di significati e poi di principi affermati con le rivoluzioni liberali come fondamentali, sono bisogni veri, alla cui realizzazione in ogni democrazia liberale sarebbe stato funzionale l’impegno delle istituzioni.
Una sorta di tempesta, purtroppo, ha prodotto frangenti che hanno eroso, con perdurante forza modellatrice, le istituzioni tradizionali ormai pietrificate, finendo con il mutare il rapporto tra queste e l’individuo. E’ un percorso compiuto e ancora in costante evoluzione all’interno delle democrazie moderne, liquide e prive di passioni[2].
Probabilmente proprio in questo percorso si è smarrita la capacità di provare a costruire un progetto generale finalisticamente orientato a un obbiettivo legato a un bisogno collettivo, enunciato, ma solo figurativamente, nelle affermazioni, scritte o parlate, dei diritti.
E’ stata così possibile la marginalizzazione del palazzo di giustizia nell’indifferenza generale.
Marginalizzazione della giustizia e indifferenza generale, nella quale la prima si è prodotta, sono a loro volta gli effetti dei profondi cambiamenti avvenuti nelle democrazie moderne. L’ordinamento giuridico ha visto vanificato il suo spazio e si è persa la profondità semantica dell’armonia del rapporto tra organizzazione giuridica (ordnung) e territorio (ortung)[3].
Il progressivo affrancarsi del diritto dal territorio ha finito pure con lo sradicare i tronchi di delimitazione dello spazio dedicato alla giustizia.
Il tentativo di comprendere tali cambiamenti potrebbe essere d’aiuto a decifrare la crisi del contraddittorio e dell’oralità nel processo penale, del radicale mutamento della stessa ontologia della giustizia penale, dei suoi nuovi significati assunti e passivamente acquisiti negli ordinamenti di cultura democratica. In tale operazione si potrebbe provare a misurare le conseguenze dell’ introduzione, nella massima estensione possibile, della tecnologia informatica nella giustizia.
Cosa si rischia davvero nel passaggio dal luogo marginale allo spazio virtuale?
2. La lentezza della penna
I magistrati che hanno avuto occasione di operare negli iniziali anni ’80 (e che ora sono sul finire della corsa) ancora ricordano le sensazioni tattili della loro professione, l’impegno delle loro dita nell’immobilizzazione della penna da fare scorrere su fogli (“a scioglimento della riserva assunta nell’udienza del...”, “Fatto e svolgimento del processo...”, “Motivi della decisione...”), con ricami d’una scrittura arabesca e spesso incomprensibile. Il passaggio alla traduzione dattilografica affidata ai segretari delle cancellerie metteva in chiaro le parole copiate sulla carta con un mezzo meccanico. Le mani ricercavano i repertori per risalire alle interpretazioni di regole con le quali erano state già decise casistiche similari. Il repertorio rimandava ad altri testi, dove erano racchiuse le sentenze, accompagnate da ricche e approfondite annotazioni. Il librone veniva aperto, sfogliato, interpolato a matita, spesso sintetizzato su fogli d’appunti. Si formava uno spazio di decantazione, un tempo apparentemente vuoto nel quale prendeva gradatamente corpo la composizione di un pensiero, delle riflessioni, dell’interpretazione della norma, dell’illustrazione delle ragioni per le quali la decisione era stata proprio assunta in quel modo.
Vi era fatica intellettuale. Ogni caso era occasione per un lavoro di tipo artigianale, unico, in cui “il dire il diritto” (l’ iusdicere, appunto) era il collante o i chiodi di quel manufatto (non sempre, in sincerità, a regola d’arte).
In tale procedere ancora riecheggiava una certa maestosità degli spazi, dei palazzi, delle sale dell’udienza, nei quali avvocati, giudici e procuratori della repubblica si muovevano quali rampolli di una sorta di aristocrazia, della quale stentavano a mantenere i fasti, perché quegli spazi, quei palazzi, quelle sale presentavano ormai il logorio del tempo, che li aveva avvolti nella polvere. Pur nella loro fatiscenza avevano ancora la residua capacità di trasmettere al giudicabile (che fosse attore, convenuto, imputato, persona offesa) l’impressione di dovere rimanere a distanza di rispetto, potendo solo nutrire speranza nella benevolenza dei giuristi, giudici e avvocati, nelle cui mani era riposto il suo particolare destino.
Senza che nessuno se ne accorgesse, però, l’immagine simbolica della giustizia era già mutata. La giustizia si era spostata dal fasto delle sale alle più modeste stanze dei giudici. Il processo del lavoro aveva assegnato ai pretori di ricercare il punto d’equilibrio tra parti di forza diversa, lo stesso giudice istruttore civile cominciava a percepire l’importanza del fare giustizia nella sua stanza pur nella gestione di un rito più lasco, privo di rigide preclusioni, nel processo penale il principale protagonista era il giudice istruttore sul quale la Corte Costituzionale aveva a lungo lavorato per attenuarne le asperità inquisitorie e lo aveva portato sul binario dell’osservanza delle prime forme di contraddittorio. La maestà sovrana del diritto, in cui quest’ultimo è riposto nelle mani di giudici funzionari che si limitano a ripetere la voce del re, si era, ormai, evoluta nel passaggio all’idea della disciplina[4], che assegnava ancora al giudice una posizione di supremazia nel dirimere le controversie giuridiche, ma con un’ adesione più attenta alla tavola di principi costituzionali democratici e in contesti spaziali ormai sempre meno formalizzati e dai decori sempre meno ridondanti.
Ben saldo, tuttavia, rimaneva il senso dell’istituzione che risolveva la composizione del conflitto in un tempo di riflessione in cui il rumore del fatto si percepiva lontano. Ancora la sua forza levitante, depositaria del compito della ricostruzione storica, poteva continuare ad affermare, in chiave pacificatoria, la supremazia di una legge comune a tutte le parti e l’irrinunciabilità ai diritti fondamentali.
Dietro questa trasformazione vi era la cultura giuridica che, almeno in Italia, era andata formandosi a partire dagli anni ’60 e alla quale importante impulso era stato impresso dall’attivismo associativo più illuminato operante all’interno della magistratura.
L’impegno culturale era focalizzato sulla tendenziale attenzione alla qualità della risposta giudiziaria, alla modalità di accertamento, alla ricerca dei significati nelle norme giuridiche, allo scrupolo di non perdere di vista la coerenza dell’ordinamento, in cui la magistratura operava come corpo fisico, come istituzione, le cui facciate, ancora ben visibili e in salute, risultavano addobbate con i colori della Costituzione.
In questo stadio non si parlava ancora di efficienza. Che la giustizia fosse lenta era quasi percepito come fattore consustanziale. Che la giustizia non fosse accompagnata da ineccepibile organizzazione era profilo meno rilevante rispetto alla sua, per così dire, “trascendenza”[5].
Nel medesimo tempo, inevitabile contenitore dei mutamenti ideologici, andava, però, componendosi la formazione di un mondo senza apparenti frontiere, che, al disopra delle sovranità nazionali, iniziava il suo assorbimento nella fagocitazione di una rete globalizzata; vi si affacciavano nuove esigenze e si delineava, in un costante lavorio neoliberale, un nuovo volto di giustizia, la cui rotta in uno spazio infinito progressivamente la allontanava dalle spiagge dell’ iustissima tellus[6], perdendosene i punti di stabile riferimento.
La stessa istituzione veniva fortemente ridimensionata, con perdita della sua centralità a vantaggio dell’individuo; la giustizia finiva con l’assumere essa stessa le forme e i contenuti del mercato in cui i diritti sono un capitale che ciascuno potrà rivendicare, utilizzare, scambiare[7].
3. L’avvento dell’era informatica
Se ne colgono le avvisaglie sul finire degli anni ’80. I magistrati più alla moda acquistano i primi computer; negli uffici vengono impiantati, talvolta per una multipla condivisione, desk top di dimensioni pantagrueliche. Si sviluppa la raccolta informatica della giurisprudenza della cassazione e un farraginoso collegamento al CED (acronimo per Centro Elaborazione Dati), attraverso l’impostazione di lunghe stringhe per l’accesso, ne consente la ricerca.
Gradatamente si abbandona la ricerca fisica sui repertori e le riviste; la figura del rilegatore deve inventarsi nuovi mestieri per sopravvivere. L’uso dello strumento informatico diventa sempre più disinvolto per giudici e avvocati. Non solo è facilitato il reperimento dei precedenti, ma pure la motivazione può essere facilmente riportata nel corpo del proprio provvedimento, sempre più assimilabile a un prodotto industriale.
L’immagine del giudice intento a comporre con la sua biro lo schizzo del fatto e del diritto in una sentenza frutto del suo impegno d’artigiano comincia il suo declino. Nella medesima modalità opera l’avvocato, anch’egli condizionato da operazioni di collage nella composizione delle proprie memorie e comparse.
Nella stessa legge s’intravedono radicali mutamenti. Il codice di rito penale del 1930, pur ampiamente rimaneggiato e aggiornato con cospicui interventi della Corte Costituzionale, è definitivamente soppiantato con la riforma del 1989. Scompare la figura del giudice istruttore e del suo, pur addolcito, modello inquisitorio. Il pubblico ministero è una parte che opera su di un piano di parità con la difesa in un rito accusatorio, il cui metodo maieutico è costituito dal contraddittorio.
I giudici rimangono perplessi di fronte a un nuovo istituto che non comprendono: non accettano l’idea di ratificare un accordo sulla pena tra pubblico ministero e imputato, perché ne verrebbero lesi i principi di cui agli artt. 101 e 102 della Costituzione[8]; reclamano l’aiuto della Corte Costituzionale, che recupera la dignità della funzione dei rimettenti attribuendo al giudice il controllo non solo sulla legittimità dei presupposti formali, ma anche sulla congruità della pena[9], ormai non più esclusivo appannaggio del giudice: l’imputato può, se gli appaia conveniente, addirittura infliggersela da solo, scegliendone la misura.
Avvisaglie di mutamenti che operano sotto traccia; si inizia a sottrarre al giudice una porzione di potere decisorio. Si inventano modelli procedimentali nei quali il giudice viene chiamato a svolgere più che altro un’attività di tipo autorizzatorio. Sta cambiando qualcosa. Ne risente l’istituzione. Ormai l’approdo sul futuro è compiuto.
4. Esigenze produttive
La giustizia è un fattore economico. Dal suo andamento dipendono le sorti dei mercati. Essa stessa deve essere soppesata con gli stessi parametri. Contano i numeri delle entrate e delle uscite. I numeri costituiscono le chiavi per verificare se la giustizia abbia conseguito profitto, perché il suo profitto è fondamentale per il benessere commerciale. Ogni giudice e pubblico ministero sono gradatamente convinti dell’importanza di organizzare i propri ruoli. Tutto deve essere oggetto di ricognizione, di statistiche. S’inventano i flussi. L’angolo visuale dal quale il parapiglia organizzatorio prende avvio è quello della giustizia civile, la cui inefficienza non era più tollerabile; ma con i medesimi metri si misura la giustizia penale.
Tabelle dei giudicanti, documenti organizzativi, bilanci d’esercizio, programmi di gestione hanno bisogno di rappresentazioni grafiche, di calcoli. Per razionalizzare è necessario controllare l’enorme mole dei dati. Si inventano applicativi sempre più sofisticati. Alcuni non sono molto in linea con le norme processuali, altri si rivelano con il tempo poco attendibili. Progetti appena cominciati si abbandonano dopo una breve sperimentazione. Pochi gli addetti ai lavori che conoscono fino in fondo il funzionamento dei sistemi informatici; i funzionari con carente solerzia li aggiornano rendendo poco fruttuoso l’uso della macchina.
L’esigenza da cui tutto questo parte è autentica. L’obbiettivo di rendere ragionevole la durata della giustizia encomiabile. C’è, però, qualcosa che non torna.
Nella giustizia penale, ad esempio.
Occorre coniugare la “durata ragionevole del processo” e il “contraddittorio” tra le parti.
L’art. 111 della Costituzione crea un inscindibile e incontestabile binomio legando processo penale e contraddittorio, quale costante confronto dialettico tra le parti innanzi al giudice non solo nelle fantasie argomentative sui significati dei risultati acquisiti, ma anche, e soprattutto, nella catena di montaggio di quei risultati. Non sono operazioni di pochi minuti. Non è facile garantirne la ragionevole durata. Il metodo maieutico è irrinunciabile per pronunciare una responsabilità, infliggere una pena, limitare la libertà personale, ma è inesorabilmente lento. Il giudice assiste al suo complicato dipanarsi, a poco a poco componendo il proprio convincimento, ma le ore di una giornata trasposte nell’udienza, luogo rituale necessario (pur nella tolleranza di toghe sfilacciate e delle dimenticanze delle facciole) non bastano. Occorre rimandare a un altro giorno del calendario non necessariamente dello stesso anno.
Avevamo appena poco prima lasciato l’udienza del giudice pronti a riceverne la giustizia, rassegnati a vivere in un tempo sospeso, che facesse decantare il nostro diritto, ripulirlo delle scorie al lento setaccio della riflessione di chi doveva comporre la decisione dopo avere ascoltato le flemmatiche discussioni delle parti. L’udienza ora con il suo inevitabile contraddittorio si moltiplica all’infinito; per partenogenesi produce tante altre udienze, che diventano frazioni innumerevoli di un tempo, la cui durata è difficilmente ragionevole.
A tentare di porvi riparo è sufficiente escogitare le eccezioni. La regola è il contraddittorio a meno che il rito prescelto sia diverso dall’ordinario, a meno che lo stesso imputato presti il consenso a prove precostituite dal suo antagonista. Possono esservi anche i comportamenti pigri e, per calcoli di convenienza, adottati da rappresentanti delle parti rinunciatarie che preferiscono risolvere il contraddittorio in concordati probatori ratificati in dibattimenti, diversamente troppo dispendiosi, talvolta incompatibili con altri impegni della quotidianità.
Si inventano i riti alternativi, semplificati, a contraddittorio assente.
All’improvviso la velocità del mondo ha imposto di accorciare gli anni, i mesi, i giorni al punto di far supporre che due cattive decisioni dovevano preferirsi a una buona se non eccellente decisione assunta nel doppio del tempo. E’ una prima incongruenza: qual è il senso della giustizia se ci si rassegna all’idea che se ne può ottenere un risultato distorto, sbagliato, “ingiusto”?
Ottima cosa accorciare i tempi della giustizia, pessima cosa affidarla al diavolo pur di fare presto.
La frustrazione è massima, quando ci si accorge che nemmeno il diavolo in fin dei conti è poi molto più rapido.
Ma la strada dell’udienza è ancora più impervia e chi la sceglie ne sopporta le conseguenze; meglio trattare, mediare, accordarsi, tagliare, rinunciare ai propri diritti, pagare il prezzo delle proprie inosservanze. La giustizia, nel suo complesso, degrada a un’articolata organizzazione dei conflitti tra individui l’uno verso/contro l’altro, alla presenza di un arbitratore. Il rituale con i suoi simbolismi scompare. Ne risulta arduo il suo recupero in chiave moderna. Si perde l’istituzione non solo come luogo in cui si somministra la legge, ma pure come percezione del suo significato. Una realtà senza significato, in effetti non esiste; ne rimangono come sostanza gli individui che brandiscono alla cieca i diritti e cercano, quasi soli, una via d’uscita. Il giudice si limita a indicare percorsi, ad autorizzare una direzione, in luoghi periferici, talvolta angusti, talvolta in sotterranei a ricambio d’aria condizionato (freddissimo d’estate).
5. Il capitale investito
Vi è un’indistinta massa di affari che apparentemente (anzi, effettivamente) affossano la giustizia, ma dei quali, per sopravvivere, è sufficiente la movimentazione, i loro continui flussi in entrata e in uscita. Milioni di questioni pendenti, che valgono in quanto numeri non in quanto vicende umane. Occorrerà chiedersi da dove nascano quel milione e cinquecentomila di procedimenti penali pendenti alla fine del 2018; un milione e cinquecentomila di una particolare moneta pesante, che forse vale solo in quanto si sposti un po’ in aumento un po’ in diminuzione. Un milione e cinquecentomila che, ripartita tra i magistrati destinati a occuparsene, garantisce a loro un pesante fardello da gestire, con il semplice compito di tenerlo a bada, di portarlo al guinzaglio avanti e indietro, in attesa che cambi qualcosa. La domanda della giustizia è spropositata rispetto alle possibilità di uno smaltimento in modalità sostenibile. Lo segnala il programma di gestione di cui all'art. 37 del dl n. 98 del 2011. La domanda di giustizia penale si dice dipenda dall’obbligatorietà dell’azione penale. Manca il dato del rapporto tra querele e azioni procedibili d’ufficio; i numeri maledetti, però, ci segnalano la presenza sul territorio nazionale di 240.000 avvocati. In Francia, ad esempio, dove pare che i numeri delle pendenze siano inferiori, il numero degli avvocati sono meno di 50.000. Si tratta di mercati, di suk dalle più varie mercanzie, non tutte di qualità, tra le quali talvolta si rintracciano pietre preziose da salvaguardare, da ricercare pur nella fretta su cui agisce la pressione della moltitudine. Attenti che lì dentro, tra le mille cianfrusaglie, qualche diritto vero c’è.
Merita plauso che la magistratura italiana si organizzi, si impegni a guarire, sottoponendosi al costante controllo della febbre con il mercurio dei parametri Cepej del disposition time e del clearance rate. Se ne nota il miglioramento con percentuali, tuttavia, paragonabili ai punti di miglioramento del PIL; quando c’è il miglioramento è talmente poco rilevante che la massa indistinta degli affari pendenti rimane con rappresentazione numerica inesorabilmente elevata.
Un milione e cinquecentomila procedimenti penali pendenti come ogni moneta esprime un valore che, prima ancora di risultare pressoché impossibile contenere, probabilmente neppure conviene diminuisca a fronte del bacino economico che, comunque, alimenta.
I destini di coloro che hanno direttamente o indirettamente fatto ingresso nei tribunali si perdono in tanti corridoi paralleli, prodotti dalle eccezioni, dalle soluzioni alternative, illusoriamente accorciate.
Si ha l’impressione, talvolta, che, in fondo, un tale stato di cose sia intenzionale non semplicemente e innocentemente frutto di politiche inadeguate.
Difficile dare un volto al suggeritore; parrebbe che sotto la cenere sia stato covato il fuoco della metodica distruzione delle istituzioni. I cittadini sopravvivono facendone a meno e, come possono, regolano le loro vicende. Le ratificano innanzi al giudice/arbitratore relegato in periferia, nei pressi dello sfasciacarrozze.
Vi sono, però, momenti in cui si richiede il ritorno di una “giustizia” forte e implacabile, talmente autoritaria che possa fare a meno anche dei principi, che in realtà una giustizia davvero forte non dovrebbe mai declinare: si attenua il contraddittorio, se è d’impiccio, si procede ad accertamenti semplificati purché celeri. Non c’è tempo da perdere né sconti di pena sono praticabili innanzi al male assoluto, contro il quale si reclama il ritorno di una giustizia con tutti i suoi orpelli simbolici e se ne auspica la decisione più severa.
6. Il male assoluto
Del male assoluto non si ha una stabile definizione. Dipende dal momento e dalle emozioni che di volta in volta i fatti reali producono, dipende da quanto sia percepita l’insicurezza effetto di un panico, instillato, a ragione o ad arte.
A quell’insicurezza poi occorre fornire una risposta immediata, forte, decisa, anch’essa quasi parimenti cattiva del male contro il quale deve con prontezza agire, ab irato.
Su tali premesse, non è facile operare in-giustizia. Una metodica del catalogo in deroga, in cui si accolgono i casi che l’emotività popolare (spontanea o indotta) ha scelto, esige una regolamentazione deprivata dei principi costituzionali e delle norme dei codici a quelli conformi.
7. La straordinarietà delle videoconferenze
In tale scenario si inserisce la tecnica della videoconferenza di cui all’ art. 146 bis norme di attuazione al c.p.p., suscettibile di menomare l’oralità e l’immediatezza del contraddittorio; ne soffre, soprattutto, l’udienza come luogo comune in cui si possa consentire in contestualità una pluralità di sguardi.
Sembrerebbe evidente che debba essere destinata all’eccezione, ma in quanto tale non dovrebbe neppure costituire scandalo il suo utilizzo in periodo di pandemia, situazione talmente straordinaria da rendere plausibile la creazione di uno spazio virtuale in cui si ricostruisca l’udienza per sommatoria di collegamenti da remoto.
Non è, però, questo il punto. Il punto è di capire per quali ragioni la straordinarietà del collegamento da remoto possa indurre gravi preoccupazioni per l’attenuazione di un contradditorio ormai divenuto fatiscente non solo nei testi normativi in deroga, ma pure nelle prassi ordinarie di una giustizia resa periferica e tendenzialmente defraudata di significato istituzionale.
8. Impressioni
Probabilmente bisognerebbe focalizzarsi sulla necessità di riportare la giustizia nello spazio che le compete. Occorrerebbe convincersi che, pur in una dimensione di modernità lunare, la giustizia non possa rinunciare a un suo luogo istituzionale riconoscibile in quanto tale, nel quale cessino i rumori della contesa, si ricostruisca il loro percorso filologico, si ascoltino le contrapposte argomentazioni, si affermi il diritto.
E’ soltanto sulla soglia di quella porta che può fermarsi il caos, difficile da tenere fuori quando si trascini milioni d’affari che reclamerebbero di entrare tutti assieme in spazi simbolici, democratici e, inevitabilmente, ristretti. Il simultaneo loro ingresso assume un sapore demolitorio e di occupazione di quegli spazi, tra i quali la giustizia, in assenza di una stabile visione razionalizzatrice, diventa oggetto di strumentalizzazione in permanente confusione di riti, con improvviso oscuramento dei valori fondamentali e sottostanti. Le pratiche semplificative finiscono per fagocitare l’”udienza” e il suo significato.
Davvero difficile, rassettare gli ambienti all’ultimo momento, ristrutturarli in fretta per contenere il danno del caos che bussa alle porte.
Nella contestualità di inani sforzi organizzativi, dove, quale effetto perverso di una pervasiva cultura iperindividualista che ha contagiato le anime, scarseggia la leale collaborazione tra dirigenti, tra dirigenti e loro basi, tra figure apicali degli uffici giudiziari e avvocature, dove le istituzioni (anche quelle di autogoverno) sopravvivono distrutte dall’alcool di pratiche poco decorose, soprattutto da parte di coloro all’improvviso come accecati dalla sensazione di potere agire, nel proprio interesse, al di fuori degli ambiti consentiti, è possibile solo una tenue speranza, al momento appagata da ricostruzioni immaginifiche.
Un architetto avrebbe dovuto progettare un grande palazzo, con ambienti ampi e funzionali, ciascuno dedicato a una peculiare esigenza: quando si entri, a piano terreno, sulla destra un grande spiazzo al coperto sarà destinato alle soluzioni conciliative di banali contese; in fondo, vi saranno aree riservate ad arbitratori. Proseguendo al I piano sulla sinistra, vi saranno ambienti destinati alle statuizioni del diritto punitivo minore, in cui sia bandito il carcere come soluzione finale, quand’anche coerente con le finalità dell’art. 27 Costituzione. Lì i tempi del giudizio potrebbero essere brevi, i riti semplificati, le decisioni improntate a sanzioni innovative che consentano di recuperare la dignità del condannato con il suo impiego temporaneo ad attività d’utilità sociale. Ancor più in alto, sul II piano, ci sarà l’unico rito ordinario, l’unico giudizio prefigurabile in un ordinamento che vesta gli abiti delle garanzie. In quel piano saranno le aule delle udienze, luoghi di contradditorio argomentativo, di formazione, necessariamente lenta, dei fatti attraverso l’estenuante confronto tra le parti e le incursioni di un giudice attento, il quale, lontano dai clamori di coloro che all’esterno del palazzo mostrano cartelli di colpevolezza o d’innocenza, emetterà la sua decisione con gli strumenti dosimetrici rimessi alla sua sapienza. Ogni magistrato sarà dotato di sofisticati applicativi, che consentiranno l’organizzazione delle udienze, la conoscenza in tempo reale dei propri ruoli e delle indagini pendenti, ciascun pubblico ministero potrà seguire i dibattimenti dei processi di cui è stato titolare sin dalla fase investigativa; i dirigenti dei vari uffici si incontreranno in giardini comuni per progettare il miglioramento degli ambienti e della loro funzionalità. Nell’emergenza, in ogni situazione in cui non sarà possibile la presenza, sarà consentito un confronto su schermi a misura d’uomo e dalle ineccepibili qualità sonore.
Di fronte un palazzo di vetro accoglie donne e uomini di autogoverno.
La giustizia avrà il suo versante pratico con rassicurazione anche degli investitori stranieri, ma sulla base di valori (costituzionali?) messi in chiaro e recepiti nella regolamentazione delle contese.
In attesa d’incontrare un simile architetto, la polvere del quartiere di periferia a volte offusca la stessa visibilità del palazzo di giustizia.
[1] Per un’analisi del rapporto tra pensiero neoliberale e giustizia, v. A. Garapon, Lo Stato minimo, Raffaello Cortina Editore, 2012
[2] “La democrazia genera una massa indifferenziata di individui irrelati, atomisticamente chiusi nel perseguimento di un benessere mai appagante, caratterizzati dalla debolezza delle passioni e della volontà, estranei gli uni agli altri, pur nella generale somiglianza; individui infine disposti a rinunciare, per un bisogno di tutela e di ordine generato dalla propria solitudine e dal deficit di solidarietà, persino alla libertà, e inclini ad assoggettarsi al dispotismo di un potere apparentemente soft a cui vengono delegate ogni scelta e decisione” (Così, Elena Pulcini, L’individuo senza passioni, Bollati Boringhieri, 2011, soffermandosi sul pensiero di Tocqueville).
[3] Carl Schmitt, Stato, grande spazio, nomos, Adelphi, 2015.
[4] Per un’analisi delle diverse epoche che si succedono nel governo della giustizia (rituale, disciplinare, manageriale), v. M. Foucault, Nascita della biopolitica: Corso al College de France (1978-1979),. tr. it., Feltrinelli, 2005.
[5] Ivi, pg. 56.
[6] “O fortunatos nimium, sua si bona norint, agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis fundit humo facilem victum iustissima tellus”, Virgilio, Le Georgiche, Libro II, vs, 458-460.
[7] A. Garapon, Op. cit., pg. 32.
[8] I rimettenti lamentavano che l'intesa delle parti sulla misura della pena avrebbe privato il giudice di ogni sindacato sulla sua congruità e di ogni possibilità di esprimere un'effettiva motivazione, dato che questa sarebbe limitata alla c.d. “cornice di legittimità” e all'indicazione che vi è stata richiesta consensuale delle parti. Tale situazione sarebbe stata in conflitto con l'art. 101, primo comma, della Costituzione, perché il giudice, anziché essere soggetto soltanto alla legge, sarebbe stato sostanzialmente tenuto alla volontà delle parti, salvo che per il controllo di legittimità sulla definizione giuridica del fatto e sulle circostanze e spogliato del potere di commisurare la pena a causa di un potere discrezionale attribuito ad altri soggetti.
[9] Con sentenza n. 313/1990, la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 444, secondo comma, del codice di procedura penale 1988, nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione.