Magistratura democratica
Magistratura e società

Sotto l'ombrellone con Sara Malerba (e sprazzi di storia e cronaca di questo Paese)

di Riccardo De Vito
giudice del Tribunale di Nuoro

Recensione a Luigi Irdi, La parabola dell’anguilla. Una nuova inchiesta di Sara Malerba

Si avvicina agosto, con i suoi giorni sospesi, il nome ufficiale delle vacanze estive. Gli adulti hanno due possibilità per farne ancora un tempo di scoperte: viaggiare, chi ha tempo e tasca, oppure spostarsi tra le pagine dei libri. Ce ne sarebbe una terza: inanellare vecchi e nuovi film in un’arena estiva, in uno dei tanti fascinosi luoghi del cinema all’aperto. Sarebbe d’accordo Sara Malerba, pubblico ministero e cinefila appassionata di B-movies – se invertissimo l’ordine, siamo sicuri non si offenderebbe – che Luigi Irdi mette alla prova in una terza indagine dal titolo suggestivo e, a tutto vantaggio della trama gialla, non immediatamente decodificabile: La parabola dell’anguilla. Una nuova inchiesta di Sara Malerba (Nutrimenti, 2023).

Alla terza avventura, iniziamo a conoscere di più la protagonista: arriva “a malapena a un metro e sessanta”, ha “i capelli lisci e sottili senz’un’onda e il viso un po’ allungato, l’andatura troppo leggera per imporre una presenza”. Non siamo sicuri che gli altri personaggi, a partire dal fido maresciallo Berardi, la vedano così; forse la descrizione è solo una percezione della stessa Sara, il frutto di un’autocoscienza che rimuove, rinvia e sposta in un cassetto tutto ciò che non ha che fare con il lavoro di sostituto procuratore a Torre Piccola. Una procura sul mare, verrebbe da dire mimando Fred Bongusto, se non fosse che Torre Piccola è sì un luogo immaginario della costa laziale, ma anche un posto attraversato da problemi che hanno tutta la pesantezza del vero: “è una città di operai, portuali, immigrati sfruttati come bestie nelle cave di pietra, lavapiatti a cinquecento euro al mese nei ristoranti cinesi, rider a due euro a consegna, marittimi pakistani con le mani sanguinanti, qualche straccio di contrabbandiere, e una cinquantina di prostitute da banchina mezze tossiche, tutta povera gente che ha bisogno della protezione della giustizia”.

In questa realtà muove i passi la giovane magistrata, che stavolta arriva a mettere il naso in un convento, e nell’antico aranceto che vi si nasconde, per occuparsi della morte di una suora dal nome ricco di reminiscenze di storia antica: Sofonisba. Cosa non possono più guardare gli occhi di Sofonisba (il lettore capirà il perché del richiamo a questo organo di senso)? Si può rispondere senza spoilerare: un mondo in cui l’amore autentico è in lotta con le regole della religione, dei registri anagrafici, con la tossicità del patriarcato e dei suoi figli maltrattanti.

Tossicità è la parola giusta, perché in tutto il libro alita il puzzo del veleno della valle del Fiumarola, la pestilenza di un’industria mineraria che, per portare ricchezza a pochi, ha finito per gettare una seria ipoteca sulla possibilità di vivere in salute e per inoculare nella città limitrofa, Torre Piccola appunto, l’arrendevolezza a un circolo produttivo che inquina lavoratori e residenti.

L’immaginario, anche in questo caso, si carica di richiami all’Italia reale, a un ambiente oltraggiato da rifiuti interrati, discariche abusive, reflui contaminati, a un territorio costellato da siti di archeologia industriale che imprimono nella mente la fulmineità con cui alla promessa di felicità si è sostituita la minaccia di morte. La fantasia dello scrittore ci colloca sulla costa laziale ed è inevitabile che il ricordo corra alla Valle del Sacco. Nella narrazione di Irdi, a tratti lucidamente politica, c’è l’industria estrattiva dello zinco con i suoi micidiali scarichi, nella realtà del Sacco c’era la produzione del lindano con i suoi scarti killer; i nobili imprenditori di Torre Piccola, gli Altieri Gallegati, si sostituiscono ai padroni della città morandiana di Colleferro. La sostanza non cambia: veleno gabellato per progresso, comunità marchiate dal lutto.

 Non meraviglia più di tanto che questi drammi non siano in cima ai pensieri dei giudici di Magistratura Über Alles, Siamo Magistrati, Magistratura Emancipata – i nomi che l’ironia corrosiva dell’autore affibbia alle correnti –, presi più dalle beghe delle nomine che dalla conoscenza del tessuto sociale in cui operano. La scrittura, si sa, ruba alla vita e l’immagine che ne esce – può dispiacere quanto si vuole – è solo un filo caricaturale. Sperimentiamo, nella realtà, tempi in cui l’impegno sociale e culturale del magistrato torna a essere una colpa da sanzionare e nei quali la formazione del neo-magistrato assume a volte le forme di una bolla di liquido amniotico a tenuta stagna (divertenti, in proposito, le digressioni sulla Scuola Superiore).

Sara Malerba, però, delle nomine se ne infischia e anche della possibilità di conquistare il vertice della procura di Torre Piccola, di prendere il posto del pensionando Cantalamessa (altro nome che la dice lunga sull’equilibrio prudente di alcuni capi). Rimane inchiodata alla sua inchiesta, con tutti i tormenti che comporta alla coscienza: “A volte mi chiedo se questo dovere, questa ricerca dell’equilibrio del giudizio, non faccia di me una persona spenta, inaridita, tutta tesa a soffocare la forza del sentimento. Uno schifo di persona, insomma”. Sono pensieri, per fortuna, che attraversano davvero la mente dei magistrati, fanno argine all’ingresso del soggettivismo, non lasciano che i sentimenti della persona prendano il posto delle idee della legge. Si può lavorare mossi dal sacro fuoco, ma si deve essere disposti a metterlo sotto la cenere al momento opportuno. È quello che fa Sara, inseguita da un lavoro che, letteralmente, le si presenta anche a casa. Man mano – è normale sulla pagina, meno nella realtà – i nodi dell’inchiesta si sciolgono, la mente analitica prende il sopravvento sull’istinto e sulle predisposizioni d’animo e guida alla soluzione del caso.

Difficile dire di fronte a che tipo di giallo siamo. Certo, Sara Malerba non sembra appartenere alla scuola dei duri: non ha vizi, se non un po’ di Campari in più nello spritz e qualche goccia di sonnifero, non si muove in un mondo dove i confini tra legge e crimine sono mobili e smussati e nel quale le regole sono un freno alla ricerca della verità e il bene e il male si dividono equamente tra protagonista e antagonista. Non mancano, certamente, alcuni riflessi del noir, con cattivi che finiscono puniti da altri cattivi invece che dalla legge, spinte al crimine che nascono da moventi comprensibili e, anche, quel tanto di splatter che rimane la metafora dei valori in putrefazione. Quello che colpisce, tuttavia, è la capacità dell’autore di ridare linfa – anche grazie a una scrittura da romanzo page turner – a una detection story quasi classica, a un giallo illuminista dove pazienza, analisi e deduzione conducono a una soluzione che, se proprio non è consolatoria, almeno non lascia in bocca il fiele della frustrazione degli sforzi investigativi.

Insomma, sotto l’ombrellone o stesi sul divano, ci rimane quella gioia tutta particolare e intima che deriva dall’aver fatto anche noi la nostra inchiesta, dall’avervi preso parte. Usciti dalla lettura (stavo per dire: usciti dalla sala cinematografica), siamo contenti di aver messo qualche punto fermo. Non è poca cosa potersi prendere una vacanza così, una breve pausa dall’incertezza che logora le esistenze di tutti.

29/07/2023
Altri articoli di Riccardo De Vito
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.