Racconta Santina Mobiglia – la curatrice della mirabile biografia di Bianca Guidetti Serra – che Bianca non amava il titolo che Einaudi voleva dare al libro: “Bianca la rossa”. Perché la definizione “la rossa”, in quel binomio di opposti, editorialmente così efficace e fortunato, non rendeva giustizia alla ricchezza della sua personalità e alla complessità della sua storia.
Era, la sua, una preoccupazione giusta, se per “la rossa” s’intende semplicemente “donna comunista” o “passionaria”. Ma l’editore aveva ragione, se con quell’aggettivo si vuol invece richiamare la battaglia costante, di una ragazza del ‘900, per la giustizia e la libertà degli oppressi e la sua insofferenza verso ogni sopruso e prepotenza. Perché in queste poche parole si possono compendiare la vita, il pensiero e l’azione di Bianca.
La sua è la generazione dei giovani cresciuti negli anni ‘30 e che scoprirono l’antifascismo grazie ai comunisti. L’impronta di quella scelta viene nel ’38 con le leggi razziali (dirà: “le leggi razziali furono la mia vera introduzione alla politica”); tanto più che proprio pochi mesi prima c’era stato l’incontro con quel cenacolo di giovani ebrei, di cui faceva parte Primo Levi, che saranno gli amici di tutta la vita. E’ con quel gruppetto di amici che, la notte, nelle vie del centro di Torino, va a strappare i manifesti contro gli ebrei su cui campeggia la scritta Sono i nemici della Patria!: è la sua prima azione “militante”. Ma il loro è ancora, essenzialmente, un antifascismo culturale, in un certo senso, “di stile”, fatto di passeggiate in collina, serate al cinema, letture comuni e infinite discussioni sui libri letti.
L’impegno politico vero e proprio nasce dall’incontro con i comunisti. Bianca li scopre andando davanti ai cancelli del Lingotto durante lo sciopero del marzo ’43. Come accade a molti giovani nati a cavallo degli anni ’20, quello è il primo incontro con persone che ogni giorno rischiano la galera per una testimonianza antifascista concreta. Alessandro Galante Garrone, nato nel decennio precedente, parlando della “generazione di Giaime e Luigi Pintor, di Antonio Giolitti, di Paolo Spriano, di Antonio Natoli, di Franco Calamandrei, di Furio Diaz” e dei tanti “giovani intellettuali che, poco più che ventenni, aderirono al Pci durante la Resistenza”, rifletterà sul perché di quella scelta e la individuerà nel fatto che quei giovani “non avevano fatto in tempo” ad incontrare i vecchi maestri del liberalismo e, trovandosi ad essere adolescenti in pieni anni trenta, avevano respirato nella scuola, nell’università e in tutta la società, un’aria già diversa, più “opaca e stagnante”. Ma proprio perché cresciuti in questo clima, nel momento in cui caddero “definitivamente le suggestioni del fascismo” quei giovani “sposarono, quasi naturalmente, la causa comunista”. Proprio perché non si sentivano ancorati ad una precedente tradizione di opposizione, fu naturale che quei giovani fossero attratti “da quella parte che – grazie agli anni di rischiosa lotta clandestina e alla radicalità del verbo rivoluzionario – si presentava come la più organizzata e vigorosa del movimento antifascista in tutta Europa”.
E’ in questo passaggio di fase storica che Bianca – nella cui famiglia “non si discuteva di politica” - diventa comunista. Inizia passando le serate sulla macchina da scrivere a copiare testi di Marx, Engels, Stalin, Dimitrov, Togliatti. Partecipa alla Resistenza incrociando continuamente l’attività dei tanti amici di Giustizia e Libertà. Diventa dirigente del Pci: fonda i Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà che, dopo la Liberazione, confluiranno nell’Udi. Diventa responsabile della commissione femminile della Camera del Lavoro. Organizza scioperi delle operaie, per la parità salariale: “A pari lavoro, pari difficoltà di vita, perché impari retribuzione?”. Sempre lotte per l’eguaglianza. Ma sempre, sullo sfondo, il riferimento all’Urss, dove – le avevano insegnato – “gli operai erano al potere”; l’eroica guerra che i sovietici avevano combattuto contro il nazismo, pagando il maggior tributo di sangue; il mito della battaglia di Stalingrado.
Bianca vive, in quel periodo, completamente immersa nel paradosso della sinistra italiana degli anni ‘50.
Quei comunisti italiani, che proclamavano la loro fedeltà a regimi che avevano fatto strage dei diritti di libertà e che, da Stalin a Kruscev, erano sempre pronti ad allinearsi ai nuovi padroni del Cremlino; quei comunisti che – come avrebbe detto Vittorio Foa - quando vincevano, condannavano a “sparire di scena i loro alleati, gli stessi loro amici e compagni” non ortodossi e che, se fossero andati al potere, avrebbero probabilmente riservato amare sorprese ai tanti amici di Bianca, “azionisti” e eretici della sinistra; ebbene, proprio quei comunisti, con il loro partito di massa collocato all’opposizione, erano in Italia i protagonisti di uno straordinario impegno democratico: per una maggior giustizia sociale e il superamento delle tante norme illiberali che ancora resistevano nel nostro ordinamento. Ed erano loro, in Italia, i discriminati: a volte schedati e spiati anche nella loro vita privata, segregati nei reparti punitivi delle fabbriche se non licenziati in quanto comunisti, scomunicati da Pio XII, rudemente trattati da una giustizia penale fortemente connotata in senso classista.
Italo Calvino, iscritto al Pci e animatore della cellula “Giaime Pintor” della casa editrice Einaudi e che, dopo i fatti di Ungheria, uscirà dal partito seguendo Antonio Giolitti, rievocando quegli anni, dirà: “Noi comunisti italiani eravamo schizofrenici. Sì, credo che proprio questo è il termine esatto. Con una parte di noi eravamo e volevamo essere i testimoni della verità, i vendicatori dei torti subiti dai deboli e dagli oppressi, i difensori della giustizia contro ogni sopraffazione. Con un’altra parte di noi giustificavamo i torti, le sopraffazioni, la tirannide del partito, Stalin, in nome della Causa. Schizofrenici. Dissociati. Ricordo benissimo che quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo, mi sentivo profondamente a disagio, estraneo, ostile. Ma quando il treno mi riportava in Italia, quando ripassavo il confine, mi domandavo: ma qui, in Italia, in questa Italia, che cos’altro potrei essere se non comunista?”.
Ed ecco che arriva il ’56 ungherese: i carri armati contro gli operai. E a questo punto, Bianca decide che la schizofrenia deve finire: “mi convinsi che perseverare nella disciplina di partito fosse una forma di tradimento”. E quindi lo strappo: doloroso non solo per l’abbandono del partito ma ancor di più per le lacerazioni dei rapporti personali con persone care. Le pagine dell’autobiografia in cui racconta quelle cupe settimane del ’56 sono le più struggenti: l’uscita in lacrime dal congresso provinciale; i pomeriggi trascorsi in un cinema per poter piangere liberamente, senza esser vista da nessuno; i compagni con cui, a partire dalla Resistenza, si erano fatte tante lotte e che, all’improvviso, non ti salutano più.
Tornano in mente il “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler; il “Mistero napoletano” di Ermanno Rea; e “Una piccola pietra” di Emilio Guarnaschelli, con il giovane operaio che ha lasciato l’Italia fascista per l’Urss e, di fronte ai processi stalinisti, si ribella, andando così incontro al confino e alla fucilazione (“Dunque dovrei tacere, ma non ne sono capace”).
Come non diventare anticomunisti? Quante volte Bianca si sarà posta questa domanda. Ma ad impedirglielo ci sono le donne e gli uomini che nel partito, intorno al partito, Bianca ha conosciuto: ci sono lettere come quella di Vincenza Novello (la vedova del bracciante calabrese ucciso dalla polizia, conosciuta nel 1950 e poi ritrovata nel 1968 durante un altro processo a dei braccianti che avevano occupato le terre incolte).
Per fortuna che, nel Pci, ci sono le donne, capaci (non sempre, ma spesso) di mantenere fili di solidarietà personale che resistono alla “ragion di partito”. Per fortuna ci sono i vecchi amici di Giustizia e Libertà. Per fortuna c’è l’Udi; c’è il sindacato.
Per fortuna che c’è la professione di avvocato.
E’ grazie al suo lavoro di difensore che, proprio partendo da quella sconfitta bruciante del ’56, Bianca ci dà una grande lezione di ottimismo.
Sosteneva Zanardelli che, attraverso i suoi “vincoli invisibili” l’avvocatura si collega con l’ordinamento economico e sociale, da cui succhia la linfa più profonda per trasmetterla verso le istituzioni. In questo senso l’avvocato è un vero “mediatore sociale”.
Così sarà Bianca. Dopo il ’56 si definisce “militante senza partito”. In realtà è, in modo esemplare, avvocato militante: “Per parte mia mi ostinavo a non trasformare il dissenso in rancore, anche se molti dirigenti mi passavano accanto come fossi invisibile […] Ritrovai la forza di reagire gettandomi nell’attività professionale, decisa a dimostrare, a me stessa e agli altri, di poter proseguire nello stesso impegno civile e sociale in cui avevo creduto. Anche senza, e non necessariamente contro, il partito”.
Avvocato militante: che mette la sua preparazione tecnica al servizio di un impegno sociale e politico, con più fatica di quando era nel partito ma più liberamente; avvocato che dà ascolto e voce ai diritti offesi; dalla parte delle vite dure, fatte di lavori faticosi, delle vite del Mondo dei vinti di Nuto Revelli: “totalmente identificata con la causa da difendere”.
Insieme (ed intrecciata) alla sua attività professionale c’è quella politico-culturale: la fondazione del centro studi Piero Gobetti; il “circolo di cultura socialista”; il “circolo della Resistenza”, l’Udi; il “Giornale dei genitori”; i “Giuristi democratici”; Amnesty International; la “Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie”; la “Unione contro l’emarginazione sociale”. Basta questo elenco di associazioni per comprendere la vastità e l’intensità dell’impegno civile di Bianca. Intellettuale engagé, nel senso più ricco del termine.
Sono vite impegnate come quella di Bianca a preparare, tra gli anni ’50 e ’60, i mutamenti sociali e culturali che anticipano e preparano il rinnovamento legislativo che si avrà nel decennio successivo. Per questo, la sua straordinaria biografia spinge all’ottimismo. Perché ci insegna a “vedere i mali del presente senza nostalgie per il passato”. Perché ci ricorda che le mille battaglie culturali combattute, in posizione di minoranza, da donne e uomini come lei, alla fine non furono vane: a partire dalla fine degli anni ’60 faranno germinare la realizzazione dei diritti promessi in Costituzione e sino ad allora congelati. Bianca ci ha ricordato, tante volte, la fatica di quelle battaglie, portate avanti (nelle aule di giustizia e nella società) contro le tante leggi fasciste che abusivamente sopravvivevano nel nostro ordinamento; contro la giurisprudenza sulle “norme costituzionali non immediatamente precettive”; contro i divieti di manifestazione del pensiero contenuti nel TULPS. Ci raccontava di cosa significò, per chi quelle battaglie aveva combattuto, la sentenza n. 1 (del 14 giugno 1956) della Corte Costituzionale: che cancellava l’art. 113 TULPS (che vietava la diffusione di scritti e disegni “senza licenza dell’autorità locale di P.S.”). Commentando quella sentenza, Piero Calamandrei scrisse su La Stampa un articolo che si intitolava “La Costituzione si è mossa”. Fu il suo ultimo scritto.
Da quel momento, davvero, la Costituzione comincia a muoversi.
Il nuovo diritto di famiglia; il divorzio; lo Statuto dei lavoratori; l’abrogazione di reati come quello di adulterio e omicidio per causa d’onore; la legge sull’adozione speciale; la legislazione in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e di tutela della salute; il sistema sanitario nazionale: sono tutte riforme preparate da un movimento culturale profondo di cui Bianca sarà una delle voci più forti: una delle voci più importanti di quell’anello forte costituito dalle donne, dalla loro presenza nella società. Si pensi: Bianca nasce nel 1919, l’anno in cui la professione di avvocato viene aperta alle donne; lascia l’avvocatura negli anni in cui le donne sono ormai oltre la metà dei magistrati italiani.
Nell’autobiografia Bianca ci racconta questa sua lunga traversata per la conquista e la difesa dei diritti con un tono sereno, senza darsi troppa importanza. Un tono che ci fa tornare alla mente una pagina del Diario di Giorgio Agosti, del 16 dicembre 1960. In cui - al termine di una piacevole serata trascorsa con gli amici in casa Rieser, con Primo Levi che “legge un suo divertente racconto sulla censura” – Agosti chiude il suo commento scrivendo:“Mi piace anche, col suo tono bonario, che fa pensare a quello di Ada [Gobetti] (della gente che non si dà arie e che non dà troppo importanza alla propria missione nel mondo), la Guidetti Serra, a cui chiedo un articolo sulle carceri spagnole”.
Ecco: Bianca insegnava senza “darsi arie”. E sempre “senza darsi arie” Bianca ci ha consegnato anche riflessioni autocritiche sul suo mondo: su alcuni “miti” che la sua generazione “conservava ancora falsamente” e che “non riusciva a ripensare”. E, ancora, sui rapporti tra ’68 e violenza: sui rigurgiti serpeggianti nel movimento e di cui si alimenterà la scalata velleitaria al paradiso impossibile dei terroristi. Quei terroristi che Bianca difese, con sapienza e sofferenza, nelle aule di giustizia. Con la sapienza che le veniva dal suo essere, comunque, “dalla parte dell’imputato” senza però mai “cacciare di frodo”: trovando sempre il difficile equilibrio del rispetto della “doppia fedeltà” (al proprio assistito e allo Stato) che è il nucleo essenziale del ruolo dell’avvocato. Ma anche con sofferenza: perché – lei lo ebbe subito ben chiaro - con la loro disumana pratica delle armi i terroristi avevano soffocato e comunque reso più timido il movimento di espansione dei diritti iniziato negli anni ’50.
Un filo rosso accompagna tutta la sua vita e il suo impegno: il rispetto e la curiosità per la persona umana. Il rispetto e la curiosità che, da giovane, l’avevano immediatamente spinta ad aiutare gli amici ebrei colpiti dalle leggi razziali e che ispireranno tutte le sue difese: da quella di Adriano Rovoletto (il bandito della “banda Cavallero”) al processo per le “schedature Fiat”. Lo stesso rispetto e la stessa curiosità che la spingeranno alla sua ultima ricerca: quella sulle donne collaborazioniste durante il fascismo. Quel suo finale cercare di capire, di “riconoscere anche nei nemici delle persone” sono commoventi: perché ci raccontano del passato ma ci parlano dell’oggi e del domani.
Le sue ultime immagini pubbliche ce la mostrano mentre si muove, con passo incerto, in mezzo ai libri del suo studio, in cui aveva incontrato e alleviato tanto dolore, di imputati e parenti.
Noi vogliamo invece ricordarla con la cartolina che, nel febbraio 1944, Primo Levi era riuscito a gettare, alla stazione di Bolzano, dal vagone che lo stava portando ad Auschwitz. Quella cartolina era indirizzata a Bianca. Una mano pietosa l’aveva raccolta dal marciapiede, affrancata e spedita a Torino. C’era scritto: Cara Bianca, tutti in viaggio e alla maniera classica; saluta tutti; a voi la fiaccola. Ciao Bianca. Ti vogliamo bene.