Nella conclusione della mia prima Relazione al Parlamento – eravamo nel marzo 2017 – ho ricordato le parole con cui il Presidente della Repubblica, in un colloquio avuto con i giovani nell’anno precedente, li aveva inviatati alla lettura di alcuni testi. Tra essi aveva inserito un testo non semplice, dal titolo La crisi della civiltà, di Johan Huizinga. È stato scritto nel 1935, nell’epoca dei totalitarismi "espliciti" – è sempre bene aggiungere questo aggettivo, perché talvolta i totalitarismi si celano dietro politiche apparentemente di mediazione in taluni contesti geopolitici. Questo testo segnalava le minacce che stava vivendo allora l’Europa, ma manifestava al contempo fiducia nella prospettiva europea. Da qui, la citazione, duplice, di avvertimento e anche di stimolo positivo utilizzata dal Presidente nel suo invito alla lettura. Infatti, lo stesso testo è stato da Lui ripreso un anno fa, sempre rivolgendosi a studenti, in occasione del 30° anniversario del Trattato di Maastricht, proprio per lo sguardo positivo, in avanti, che l’autore, in quel momento drammatico, voleva mantenere saldo.
Così citai allora un brano del testo di Huizinga: «La storia non può profetizzare nulla, tranne una cosa: che nessuna grande trasformazione nei rapporti umani si avvera mai nella forma che gli uomini dell’età immediatamente precedente si sono immaginata. Sappiamo di sicuro che le cose vanno diversamente da come possiamo pensare. Nella risultante di un periodo c’è sempre una componente che, dopo, si capisce essere stata il nuovo, l’inatteso, l’inconcepibile a priori».
Trovo questa citazione adeguata ad aiutarci a indirizzare lo sguardo in avanti, per capire che anche nei momenti di evidente oscurità c’è la possibilità di un mutamento che riporti un segnale luminoso. La certezza di una luce possibile si salda a queste parole.
La citazione di allora, con le mie continue riprese negli anni di tale concetto ha il chiaro significato del mutamento da costruire nelle situazioni difficili, a partire però dalla capacità di guardare la complessità, di saperla riconoscere.
Questa capacità di costruire sul difficile, sapendolo guardare, “comprendendolo” – nel senso proprio, etimologico, del prenderlo nel suo insieme con i suoi aspetti tortuosi, aspri, e anche del prenderlo con noi – è, in generale, al centro del contributo che ogni persona e ogni organizzazione sociale devono dare sia per rispondere al dovere di «solidarietà» che l’articolo 2 della nostra Carta costituzionale richiama, sia per dare il proprio, pur piccolo, contributo, a quell’imperativo per la Repubblica di « rimuovere gli ostacoli» del successivo articolo. Perché tale compito della Repubblica non va letto solo come responsabilità dello Stato, visto come Leviatano, regolatore distante, ma anche come responsabilità dei singoli componenti della collettività che con mezzi diversi, inclusa la partecipazione politica consapevole, contribuiscono a tale adempimento.
Questo dover costruire sul difficile e questo compito di comprensione e di graduale ricerca di piccoli contributi non per la sua semplificazione, ma per la sua progressiva decodifica, sono ancora più imperativi per una Istituzione – quale quella che abbiamo tutti insieme contribuito a stabilire e consolidare in questi anni – il cui compito è proprio quello di vigilare sulle situazioni di esplicita difficoltà affinché queste non si riflettano nella minore tutela dei diritti di chi in esse si trovi immerso. Al contempo, di favorire ogni processo che possa aiutare alla loro maggiore effettività.
Allora, nella prima Relazione, conclusi dicendo – quasi un augurio – che «forse una nuova Istituzione può essere il nuovo che contribuisce a orientare e trasformare».
Dal punto di vista istituzionale quell’augurio si è attuato. Perché la prima trasformazione che è stata acquisita è la consapevolezza nell’opinione pubblica e nel quadro istituzionale del Paese, dell’esistenza di una Autorità di garanzia che su tali temi fonda la propria raison d’être e che considera questi stessi temi al centro della costruzione di una democrazia adulta, togliendoli da quell’area di complementarità minore o di attenzione specifica e volontaristica a cui molto spesso erano stati relegati. Ma non è soltanto il riconoscimento istituzionale a giustificare il nostro moderatamente positivo bilancio di questi anni; perché altri due elementi credo siano da considerare come rilevanti. Il primo è la conoscenza del nostro agire a livello diffuso tra coloro che si trovano in queste molteplici particolari situazioni, tra le persone a loro care, tra le persone che ne hanno la responsabilità amministrativa o che devono contribuire all’effettività della vigilanza. Il secondo è la considerazione da parte degli Organi di controllo sovranazionale della nostra esperienza come modello che può contribuire allo sviluppo di esperienze analoghe in altri Paesi; un modello indicativo di un’effettività "locale" delle funzioni di controllo e insieme di una modalità cooperativa nell’esercizio di questo compito.
Questa estensione verso la dimensione della salda conoscenza locale, puntuale, dei singoli casi, e verso l’altra apparentemente divergente dimensione della connessione in reti sovranazionali è possibile ora sulla base di quella credibilità che l’Ufficio nel suo complesso ha acquisito e che deve essere il punto di forza anche per il nuovo ciclo che si sta aprendo in questi giorni.
Se questi sono gli aspetti positivi del cammino percorso, occorre però anche interrogarsi sulle difficoltà che la situazione attuale presenta, anche in considerazione di una evoluzione internazionale che pone molto a rischio alcune affermazioni che si ritenevano definitivamente acquisite nel contesto globale.
È questo mutamento a interrogarci sulle Carte di impegni, sui diritti solennemente affermati e a ricordarne l’intrinseca debolezza, data dal loro sostanziale essere privi di un sistema di garanzie: i diritti affermati, senza i sistemi di garanzie a proteggerli, divengono mere enunciazioni. Troppe Carte internazionali, quantunque doverosamente chiare nel rifiuto e nella repressione delle forme di compressione diretta dei diritti da parte dell’autorità pubblica nei confronti dei componenti della propria collettività, sono timide o reticenti nell’impegnare la rappresentanza politica della collettività stessa ad azioni proattive che costituiscano le garanzie concrete di tali diritti. Qual è la pregnanza dell’affermazione del valore della vita se non si approvano indicazioni cogenti sulle politiche sociali degli Stati perché la parola «vita» non sia scissa dall’implicito aggettivo «dignitosa»?
Il rischio è in una progressivamente accentuata asimmetria tra le dichiarazioni, le enunciazioni e la concretezza vissuta.
Per questo, abbiamo riaffermato come assi prioritari, da cui far discendere tutti i diritti delle persone private della libertà personale l’assoluta tutela del diritto al riconoscimento della propria dignità e dell’altrettanto assoluta tutela della propria integrità fisica e psichica. Due principi che si declinano poi nelle diverse situazioni, sia nella dimensione di inaccettabilità di condizioni materiali irrispettose o dell’assenza di ogni significatività del tempo recluso, sia in quella dell’imperativo di potenziare in ogni persona il massimo dell’autonomia possibile e dell’assunzione di responsabilità del proprio agire.
Principi elementari che talvolta devono essere ricordati perché spesso un frettoloso approntamento di testi normativi, la cui assunzione d’urgenza sembra essere divenuta prassi frequente, rischia di lasciare degli impropri spazi di ambiguità interpretativa, mentre l’intervento sui diritti soggettivi richiederebbe invece l’assoluta tassatività della norma. Difficile, per esempio, misurarsi con locuzioni improprie quali i «locali idonei» in cui le persone irregolarmente presenti nel territorio e destinatarie di rimpatrio forzato possono essere provvisoriamente allocate. Difficile comprendere l’ampiezza applicativa di norme che utilizzano termini vaghi o attenuazioni del tipo «laddove possibile» quando devono indicare l’accesso all’esercizio di un diritto o un’informazione in una lingua comprensibile da fornire a una persona in particolare condizione di vulnerabilità.
La carenza di tassatività nella normazione ai vari livelli è un tema, non sempre colto adeguatamente e che invece determina molta incertezza applicativa, disomogeneità interpretativa e micro-conflittualità, fino a volte a rendere difficilmente descrivibile in modo omogeneo un sottosistema del nostro Paese, per esempio, lo stesso sistema detentivo.
La Relazione al Parlamento del 2021 è stata proprio dedicata – come filo conduttore delle riflessioni – al linguaggio delle norme, alla ricerca di un equilibrio tra il rigore logico linguistico della scienza giuridica e delle norme a cui richiamava Norberto Bobbio sin dal suo antico e noto saggio Scienza del diritto e analisi del linguaggio e la vaghezza di parole odierne che, pur regolano la massima potestà dello Stato – la privazione della libertà personale.
Occorre essere appropriati nel linguaggio. Ancor più quando si procede per decreto in peius sulla libertà delle persone, senza una riflessione parlamentare distesa.
Quale Garante nazionale non ho mai contestato il contenuto in sé dei provvedimenti – non è mio compito, salvo saperne indicare le conseguenze, anche numeriche, e soprattutto i possibili rischi di conflitto con impegni ratificati dal nostro Paese perché è compito di questa Istituzione non soltanto tutelare le persone ristrette, ma anche i diritti di chi in tali strutture opera e altresì tutelare il Paese da possibili censure in ambito internazionale. Questo è stato sempre l’agire del Garante nazionale e qui rivendico tutti i passi compiuti, anche quelli che hanno portato a evidenziare presso le Procure della Repubblica alcune posizioni assunte da chi aveva responsabilità settoriale pro-tempore di Governo. Questo proprio per il rispetto dovuto alle Istituzioni. Compito non facile, ma – ripeto – dettato proprio dal rispetto delle Istituzioni.
Come sappiamo, la particolare rilevanza che la Convenzione europea assegna a taluni suoi articoli – cioè ai diritti da essi affermati e ai conseguenti obblighi in capo agli Stati – è determinata dalla loro inderogabilità anche in situazioni di emergenza o di eccezione. In particolare, l’articolo 3 della Convenzione europea che vieta la tortura, le pene inumane, le pene degradanti e i trattamenti che abbiano analoga connotazione.
Troppo rapidamente talvolta questi termini si associano in una falsa sinonimia. Credo invece sia opportuno tenerli separati e vedere i casi in cui essi stessi possano sovrapporsi. Due premesse sono rilevanti. Innanzitutto che esiste una distinzione tra «tortura» e «trattamento inumano» o «trattamento degradante» o anche la commistione tra questi ultimi. La seconda è che la parola inglese – testo originale della Convenzione – inhuman ha nella prassi delle traduzioni nella nostra lingua due possibili termini diversi: «disumano» e «inumano». Termini che io credo siano invece concettualmente diversi. Perché il termine «disumano» rinvia a una specifica aggressione a caratteristiche proprie dell’umanità della persona, a suoi elementi essenziali, per esempio anche al non accesso al rispetto di bisogni primari; mentre il termine «inumano» indica l’assoluta non considerazione del destinatario come persona, il non ritenere il trattamento o la pena di cui è destinatario come una misura rivolta a una persona bensì come un’incombenza burocratica da eseguire nei confronti di qualcosa che è diverso dal concetto stesso di persona. La persona ridotta a mezzo – così Beccaria ricordava il principio essenziale per affermare l’inaccettabilità della tortura – o la persona ridotta a cosa – così talvolta vedo che si configurino alcuni comportamenti nei confronti di persone non più in grado o non in una posizione di agire autonomamente per i propri diritti.
Tenendo presente questa distinzione, io credo che un rischio grave della contemporaneità, anche mutuato dalla facilità con cui ci si abitua agli scenari di guerra e anche dalla tipicità del linguaggio che è adottato in questi contesti, sia quello di far degradare perfino quell’inaccettabile «disumanità» di taluni aspetti, nell’assolutezza della «inumanità». Lo scivolamento verso l’inumanità dei sistemi che sono sotto la nostra lente è il rischio grave che questa Autorità di garanzia deve saper vedere per mettere in atto tutti gli strumenti possibili per contrastarlo.
Perché in fondo tale scivolamento rappresenta il significato della nota affermazione di Hanna Arendt nel suo scritto su Le origini del totalitarismo, quando afferma che «non [è] la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto la sventura che può abbattersi su una società». Il primo diritto che l’umanità deve garantire è l’appartenenza a essa: questo è anche una sorta di grundlagen (principio fondamentale) per la nostra Istituzione di garanzia.
Preoccupa, infatti, l’estendersi della ormai anche terminologicamente accettata detenzione amministrativa. Un’estensione in forme improprie, claudicanti, ma comunque in grado di mutare i destini soggettivi delle persone; abbiamo cercato di intervenire sui requisiti che le strutture in cui si realizza devono rispettare, ma non ci siamo astenuti – e continueremo a non farlo – sulle frequenti forme di illegittimità che essa assume, dovute alla debolezza del suo impianto in termini di tutela giurisdizionale, di tutela sanitaria e di tutela di quella connotazione relazionale che la Costituzione individua come configurante il concetto stesso di persona. Elementi che sono stati più volte oggetto di note, Rapporti e pareri espressi dal Garante nazionale. A questi si aggiunge un elemento che accomuna questo tipo di detenzione a quella di ambito penale: la necessità di finalizzare comunque tali misure alla costruzione di una possibile ricomposizione nel consesso sociale, attraverso la ricerca di utilità per il benessere dei convenuti, come obiettivo primario. Un benessere, peraltro, non individualistico, ma personale e collettivo.
Ciò al fine di realizzare quella concordia, che in questi anni ho spesso ripreso come indicativa del rendere giustizia, consegnataci dall’immagine di “Buon governo” di Ambrogio Lorenzetti che pone la giustizia, seduta al centro con la bilancia che è però governata dalla sapienza e produttrice di concordia, attraverso due fili che si diramano dai suoi piatti. È la figura della concordia a comunicare poi con quelle dei rappresentanti del territorio.
In tale direzione si configura il compito di una costruzione culturale che ristabilisca un vocabolario di garanzie e di inclusione di ogni persona. Ritengo questo un dovere di ogni Istituzione che abbia a cuore la fisionomia democratica della collettività in cui opera.
Questa è stata la fisionomia che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha acquisito in questi quasi otto anni di lavoro, accanto a quella, prevalente, del proprio impegno alla osservazione autonoma, indipendente, pregnante dell’effettività dei diritti delle persone nei luoghi dove la loro libertà è ristretta.
Il compito dell’attenta analisi e della continua vigilanza, il compito del continuo sollecito alle Autorità responsabili per elevare gli standard di vita nei luoghi visitati, il compito della costante attenzione alle pieghe dei provvedimenti legislativi in corso di adozione e il compito di contribuire a una complessiva igiene linguistica attorno a questi temi come premessa di una cultura che sappia accogliere le diversità. Sono tutti questi i compiti che il Garante ha cercato di tenere insieme e che dovranno continuare a essere considerati come parti dello stesso impegno.
Lasciamo nel cammino un insieme di persone che tale unità ha profondamente capito e che saprà garantire anche nel cammino successivo. Certamente sapendo che nessun passo è mai uguale al precedente, nel percorrere una strada, ma che ciò che è importante è che venga tenuta sempre chiara la direzione lungo la quale ci si sta muovendo.
Senza timore, ben sapendo come scrisse Italo Calvino e come trovate riportato nel biglietto di saluto che ««il camminare presuppone sempre che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure qualcosa cambi in noi».
Le Amministrazioni della nostra democrazia – matura e solida nei suoi principi – sapranno sostenere tale impegno.
Per questo, dopo l’esecuzione dell’Inno che ci riunisce collettivamente, concluderemo questo saluto recandoci a rendere omaggio alle Fosse ardeatine ai resti di quelle persone che hanno visto la fine della propria privazione della libertà nella morte, nell’ essere stati trucidati, ma dal cui sacrificio si è fondata la nostra coscienza democratica. Anche di questa Istituzione che oggi conclude una sua prima tappa.