Centossessantadue splendide foto in bianco e nero per raccontare la classe operaia e l’autunno caldo. Lo scenario, obbligato: Torino, perché a Torino c’era la più grande fabbrica d’Italia; Torino, perché la richiesta di mano d’opera fu in grado di attrarre lavoratori da ogni angolo d’Italia, creando così un melting pot fra arrivati e autoctoni che si ritrovarono insieme nelle mansioni da svolgere in fabbrica e nelle rivendicazioni da rivolgere alla proprietà; Torino, perché qui l’autunno caldo era cominciato a luglio: con gli scontri di Corso Traiano che, in occasione di uno sciopero per il diritto alla casa, dette sfogo alla rabbia del proletariato meridionale; evidenziando, per la prima volta, in quell’occasione, una nuova e violenta radicalità che sorprese i vecchi operai piemontesi.
Questo bel libro interseca le foto di Mauro Vallinotto, storico fotoreporter delle lotte sociali di quegli anni, con gli scritti di due bravi giornalisti, Ettore Boffano e Salvatore Tropea, entrambi ex cronisti della Gazzetta del Popolo prima di approdare a La Repubblica, profondi conoscitori della realtà torinese, in grado di restituirci il contesto nel quale leggere le varie fotografie.
Boffano e Tropea individuano i momenti topici di questa identità proletaria torinese: la vita in fabbrica alla catena fordista con ritmi implacabili e una fatica fisica irriducibile; lo spostamento scandito dagli orari dei turni, da cui dipendeva l’intera vita della città; le ferie di agosto che significavano la città deserta; la vita fuori dalla fabbrica degli operai immigrati, con i loro mercati, le loro abitudini, le loro povertà; l’ambizione dei dirigenti della fabbrica a riempire il tempo fuori dal lavoro con un welfare privato massificante e inedito.
Sono questi gli ingredienti della miscela esplosiva che, facendo incontrare nuovi operai e i giovani del ‘68, alimenterà gli scontri di corso Traiano. E, pochi mesi dopo, approderà dentro la fabbrica, con forme di lotta (i cortei interni, le violenze ai capi, i picchetti duri di massa) fino ad un anno prima inimmaginabili.
Niente è più espressivo di una foto: quelle dei mezzi di trasporto (treni, tram, biciclette) usati dagli operai per andare in fabbrica con qualunque tempo, anche sotto la neve; quelle dell’attesa del mezzo (le sale ferroviarie in cui dormire dopo il turno); quelle delle abitazioni occupate dagli operai meridionali, dove la povertà assoluta si incarna nella miseria delle soffitte e nelle condizioni pietose in cui crescono i bambini; le foto del lavoro interne alla fabbrica che ritraggono gli operai in posizioni estremamente scomode e faticose oppure in pausa, mangiando dal barachin portato da casa o fumando una sigaretta.
Ma accanto a tutto questo va crescendo uno spirito che accomuna tutti gli operai e trova forma e forza nelle manifestazioni per le varie rivendicazioni: Torino ’69 diventa una fucina per le rivolte di piazza dove la singola richiesta è meno importante della consapevolezza di appartenere ad un’unica classe, operaia.
E la Fiat? Si atteggia come una buona mamma fornendo alle proprie maestranze una serie di servizi che accompagneranno tutta la famiglia del dipendente: le colonie estive e i regali per Natale per i bambini, la Scuola allievi Fiat, la mutua, la Juve in cui giocano calciatori di origine meridionale (primo fra tutti Pietro Anastasi che diventerà l’idolo delle tifoserie degli operai meridionali). Segretamente però la FIAT scheda i suoi dipendenti, annotando i loro orientamenti politici e forma un archivio che costituirà l’ossatura di uno storico processo che poi si arenerà a Napoli.
Questo atteggiamento della FIAT creò nei dipendenti un sentimento ambivalente: da un lato, la rivendicazione tenace e radicale dei propri diritti; dall’altro, una propria identificazione nell’istituzione FIAT, tanto da portare i propri figli a fare le fotografie della prima comunione davanti ai cancelli della fabbrica. Atteggiamento ambivalente che si ritrovò nel 2003 quando migliaia di operai si assieparono davanti al duomo di Torino in occasione dei funerali di Gianni Agnelli.
Tutte le fotografie sono belle ma in particolare quelle che fermano l’attimo di una manifestazione e quelle che riportano il contemporaneo fervore negli ambienti di scuola superiore e universitari (fervore nato nel ’67 con l’occupazione del Palazzo Campana): vi si coglie il segno del mutamento di fondo di tutta la società, orientata ora ad una apertura di orizzonti impensabile fino a poco prima. Da qui, da questo sentimento che riguarda l’intera società, nascerà l’ultimo sviluppo del centro sinistra con le riforme più significative: innanzi tutto la Statuto dei lavoratori (’70), poi il divorzio (’70), l’istituzione dei nidi pubblici (’71), la tutela delle lavoratrici madri per i permessi di maternità e il divieto di licenziamento in gravidanza (’71), l’obiezione di coscienza e il servizio civile (’72), il nuovo diritto di famiglia (’75), i consultori (’75), la riforma penitenziaria (’75), il servizio sanitario nazionale (’78), l’aborto (’78), la legge Basaglia (’78).
Tutte riforme fondamentali supportate da uno spirito nazionale diverso dal passato.
Altre riforme sarebbe stato possibile fare, se nella seconda metà degli anni ’70 non avesse preso piede il terrorismo che tutto fermò. Ma questa è un’altra storia.