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Violenze al Beccaria: il dito o la luna?

di Marco Patarnello
sostituto procuratore generale presso la procura generale della Corte di cassazione

Dopo il pugno nello stomaco di quanto avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, i fatti dell’Istituto minorile Beccaria ci scioccano. Ma lo “scandalo” deve cedere il posto agli interrogativi: il malessere del carcere viene da lontano e rischia di portarci lontano.

1. Sulla vicenda dell’IPM Beccaria si è già detto molto in questi giorni. Ma molto si scriverà ancora, visto che il procedimento è appena all’inizio e deve avere ancora importanti approfondimenti e verifiche. É agevole intuire sin da ora che l’Autorità Giudiziaria si orienterà a chiedere conto del come si è potuti arrivare fin qui e quale contributo a questi accadimenti è stato fornito dalla catena di comando che ha caratterizzato l’Istituto in questi anni. 

Probabilmente ciò consentirà di allargare lo sguardo, per riconquistare una visione di insieme, non soltanto delle responsabilità personali, ma anche di quelle politiche e amministrative. 

A mio modo di vedere, infatti, il tema più interessante non sembra quello di cronaca. Vige senza dubbio anche in questo caso la presunzione di innocenza e non come tributo formale. Le responsabilità penali dei singoli avranno la loro valutazione nella sede giudiziaria, deputata a sciogliere i nodi che anche in una vicenda come questa non possono essere valutati sommariamente, se non per le esigenze di cronaca e di informazione. 

Non è fuori di luogo segnalare la delicatezza che ancora una volta emerge quando assume rilievo una fattispecie grave e complessa come quella del reato di tortura, non priva di scivolosità che certamente non ne giustificano l’eliminazione, ma con altrettanta certezza non consentono semplificazioni. 

 

2. Il dato saliente è che la violenza ai danni di soggetti detenuti si rivela un evento non più eccezionale, addirittura anche nei confronti di minori. La vicenda del Beccaria sembrerebbe essa stessa radicata su una situazione consolidatasi nel tempo. 

Molteplici fattori hanno portato a ciò che è emerso. 

Si intuisce, innanzitutto, una specifica sofferenza del settore minorile dell’esecuzione penale. Si tratta di un settore che dapprima è stato avviato ad essere il fiore all’occhiello di una visione che mette al centro il minore autore di reato, con le sue fragilità e le sue specificità e proiettata verso una specializzazione che intendeva assegnare al personale di polizia penitenziaria essenzialmente un ruolo di sicurezza esterna e non di intervento diretto sul piano trattamentale. Ma da molto tempo è stato abbandonato, lasciandolo scivolare verso una visione più generalista dell’esecuzione penale, a propria volta abbandonata a sé stessa. 

Vi è, poi, il tema dell’esecuzione penale in generale e del carcere in particolare, con tutta la propria crisi. 

 

3. Certo, non è attraverso le inchieste giudiziarie che comprenderemo quanto scenari come quello milanese o di Santa Maria Capua Vetere siano ricorrenti nel panorama italiano. Ciò che possiamo affermare senza la preoccupazione di essere smentiti è che la sofferenza in cui versa oggi il carcere non è affatto estranea al tema posto sul tappeto dall’inchiesta di questi giorni e che questa sofferenza viene da lontano. 

Che non sia affatto estranea al tema lo ha immediatamente espresso assai lucidamente l’ex cappellano dell’Istituto, don Gino Rigoldi sulle pagine dell’Avvenire del 23 aprile, opportunamente ripreso da Michele Serra su Repubblica del giorno successivo. Don Rigoldi conosce il Beccaria come pochi altri, avendoci trascorso molti anni ed anche a caldo ha tratteggiato con poche battute qual è il terreno di coltura di vicende come questa: assenza di educatori, di progetti formativi, di tempo impiegato utilmente e ancor prima di agenti penitenziari in numero sufficiente e adeguatamente formati, senza i quali saltano tutti i fronti coinvolti e si pongono le premesse per una fragile e precaria sicurezza. Alla radicale scarsezza numerica e all’impreparazione della polizia penitenziaria vanno ascritti -in termini innanzitutto di premessa necessaria- pressoché tutti i fronti citati. Senza agenti adeguati -per numero e formazione- non è possibile garantire la sicurezza, ma neppure gli investimenti educativi e di tutela della salute. Tutta la vita di un carcere ruota intorno a queste centrali figure professionali, senza le quali la vita intramuraria si ferma. Valga per tutto il ricordare che senza agenti non ci sono neppure le scorte per assicurare gli accertamenti medici e le visite specialistiche, né possono accedere volontari o formatori, se nessuno ne consente l’accesso e la sicurezza. E’ innanzitutto -non solo- per questo che oramai molti istituti di pena il pomeriggio sono vuoti e i detenuti sono rinchiusi nelle celle o comunque vagano senza un senso. 

 

4. Il tema può sembrare banale o frutto di semplice insipienza organizzativa e di programmazione, ma in realtà tradisce snodi politici assai più profondi. 

Il disinvestimento sul carcere e sul suo funzionamento viene da lontano e non può essere ascritto ad una sola matrice politica. L’intima convinzione che chi è detenuto non merita investimenti ed energie non è la sola chiave di lettura di questo stato di abbandono. Mentre negli ultimi 20 anni la cultura giuridica e politica si interrogava invano e senza risposte intorno alla necessità del carcere e della declinazione detentiva della pena, il carcere percorreva un piano inclinato che rischia oggi di renderlo un inferno, non solo per l’indifendibile soprannumero che lo caratterizza. Non sempre, non ovunque, ma troppo spesso e troppo diffusamente. Financo una realtà oggetto di attenzioni ed al centro della vita pubblica capitolina come Rebibbia Femminile -la cito perché la conosco- sconta una situazione difficile: molti progetti formativi e attività di volontariato naufragano sulla impossibilità logistica di accesso pomeridiano, per non parlare delle sempre più ricorrenti occasioni in cui le scorte non riescono ad assicurare l’effettuazione di esami e accertamenti sanitari, per non parlare dell’edilizia e della logistica. Né si può dire che l’IPM milanese si collochi “alla periferia dell’Impero”, lontano dalle attenzioni della stampa e delle Istituzioni; non a caso, il procedimento penale ha preso le mosse proprio dalla sensibilità delle istituzioni e segnatamente del Garante di Milano. Dunque, all’origine di queste vicende non c’è l’isolamento e la marginalità di uno specifico istituto di pena o la congiuntura negativa di personale di pessima qualità venuto casualmente a trovarsi tutto insieme presso uno specifico Istituto, sebbene la prolungata assenza di una direzione stabile abbia certamente contribuito. Che il tema non possa essere ridotto a quello delle “mele marce” emerge, del resto, con disarmante candore anche dalle prime indiscrezioni sugli interrogatori resi innanzi al gip: più di un soggetto coinvolto nelle violenze pare abbia dichiarato che l’arresto è stato un sollievo e che prova vergogna per ciò a cui pur ha fornito contributo; anche al netto di legittime giustificazioni difensive, non è frequente una narrazione di tal genere. 

 

5. Se tutto questo è vero, si rende indispensabile riprendere il controllo della situazione, con senso della realtà e con investimenti concreti, che siano frutto di una “visione” del carcere e della direzione che vogliamo imprimere all’esecuzione penale. 

Personalmente, trovo velleitaria -prima ancora che utopistica- la prospettiva di eliminare il carcere e non credo neppure che la strada possa essere quella di circoscriverne il perimetro ai soli detenuti per reati ostativi o comunque per delitti di eccezionale gravità, mettendo al centro dell’esecuzione penale la sola prospettiva “esterna” o territoriale. Non è questa l’occasione per approfondire -lontano da luoghi comuni- il significato ed il ruolo della pena, ma sul punto mi limito a porre un interrogativo: come si declina la funzione rieducativa della pena rispetto ad un soggetto già dotato di una sua identità e collocazione sociale, con un lavoro, solide risorse culturali ed un certo benessere economico, dotato di coordinate sociali concrete e consolidate perfettamente integrato nella società, con una famiglia ed una rete sociale, che ciò non ostante delinque? E come si declina rispetto a chi non ha avuto nulla di tutto questo e addirittura non conosce neppure la propria età esatta, né la lingua italiana o alcuna lingua comunemente usata e neppure altro modo di interagire col prossimo se non prendendo ciò che occorre dove trova? A quale società o a quale dinamica sociale si affida un soggetto che non aveva nulla e che non ha nulla? L’idea di carcere si interseca strettamente con l’idea di società.

Nel carcere lo stato svolge un ruolo ed ha una rara occasione di intervenire nella dinamica sociale, offrendo indicazione di regole, gerarchie di valori diverse, rispetto per gli altri e per sé stessi, occasioni di formazione e di crescita personale, opportunità lavorative. Non sono molte le occasioni e i luoghi in cui lo Stato svolge un ruolo di questo genere, tolta la scuola. 

Oppure può insegnare la vessazione ed il sopruso e accettare che su di esse si fondino le coordinate di vita al proprio interno.  

Già oggi l’esecuzione penale “esterna” occupa numericamente la parte di gran lunga prevalente dell’esecuzione penale e si rivela largamente inadeguata a gestire una mole di lavoro che ha raggiunto la cifra di circa 90mila misure extramurarie in corso, a fronte di circa 60mila soggetti detenuti[1]

Se il carcere fatica a promuovere e inverare la funzione rieducativa della pena, l’esperienza extramuraria non è meno in difficoltà, rispetto a questa funzione. Il rischio concreto è che l’esecuzione penale sia affidata esclusivamente alle buone intenzioni del soggetto condannato. Intenzioni che in assenza di qualsiasi intervento dello Stato non vi è ragione di ipotizzare diverse da quelle che hanno condotto il soggetto a dover eseguire una pena.

Per chi opera in carcere, dunque, i fatti del Beccaria - pur scioccanti - non sono un fulmine a ciel sereno, né sono privi di spiegazione, ma invece affondano le loro radici in un malessere che viene da lontano e che rischia di portare lontano. 


 
[1] A questi numeri va aggiunto quello dei c.c.d.d. “liberi sospesi”, vale a dire quei soggetti condannati in via definitiva in attesa di conoscere dai Tribunali di sorveglianza il proprio destino, ma certamente in larghissima parte destinati ad accrescere il numero di soggetti in “esecuzione penale esterna”; questo numero non è noto a chi scrive, ma solamente presso il Tribunale di sorveglianza di Roma si parla di circa diecimila posizioni, che saranno decise nei giro di diversi anni, dal momento che il sistema non funziona, ma che se fossero esaminate tempestivamente non potrebbero che completare il tracollo del sistema. 

11/05/2024
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