Magistratura democratica

Uffici inquirenti, autogoverno e ruolo politico del Csm: non è mai troppo tardi?

di Valeria Fazio

La Circolare sull’organizzazione delle Procure del Csm del 16 novembre 2017 rafforza i precedenti interventi dell’organo di autogoverno, diretti a disciplinare il potere organizzativo dei procuratori, ponendo vincoli a garanzia dell’autonomia professionale dei magistrati e della trasparenza della gestione. Si apprezza, tra l’altro, per una “forma” normativamente più solida, per la previsione del parere dei Consigli giudiziari sul programma organizzativo del procuratore, per l’estensione delle regole alle Procure generali.

Il dichiarato obiettivo del Consiglio di “recuperare le Procure alla giurisdizione” deve fare tuttavia i conti con l’intervenuta progressiva burocratizzazione di tali uffici, dovuta a più fattori, tra i quali l’aver privilegiato la produzione quantitativa. La nuova regola della Circolare, che finalmente dà rilievo anche agli esiti del dibattimento, e quindi alla qualità dell’esercizio dell’azione penale, unitamente alla capacità di partecipazione dei sostituti ed alla futura coerenza delle nomine fatte dal Consiglio con i valori espressi nella nuova Circolare saranno indispensabili per assicurare effettività all’auspicio.

1. La nuova circolare sulle Procure ed i suoi obiettivi

In un recente intervento sulla versione on line di questa Rivista[1] e nel suo appassionato intervento al plenum del Consiglio superiore Antonello Ardituro, co-relatore della pratica, prima ancora di affrontare i contenuti nella nuova Circolare, sottolinea che il lavoro preparatorio – gestito dalla Settima commissione secondo un metodo di ampia condivisione – ha finalmente centrato l’attenzione sulla questione delle Procure, riportandola al centro delle riflessioni dell’autogoverno e riattivando un meccanismo che per lungo tempo si era inceppato. Passa poi ad esaminare le innovazioni che ritiene più importanti. Preliminarmente, rivendica il rilievo della scelta di intervenire con una Circolare, e quindi con una “forma normativa”, anziché con strumenti di soft law (come era avvenuto per le risoluzioni del 2007 e del 2009). Quanto ai contenuti, sottolinea l’introduzione di uno “statuto” per i procuratori aggiunti; la previsione di un parere dei Consigli giudiziari sui criteri organizzativi predisposti dal procuratore; la procedimentalizzazione degli strumenti più significativi di dialogo e confronto tra sostituti e dirigente (formazione del progetto organizzativo, assenso, visto, revoca della assegnazione); l’estensione alle Procure generali della necessità di un progetto organizzativo, con previsione di criteri specifici per l’esercizio del potere di avocazione.

Ho citato con un qualche dettaglio l’intervento del consigliere Ardituro, perché esplicita con chiarezza sia l’importante investimento, in termini di impegno politico, fatto dalla Commissione consiliare, sia le aspettative che i promotori collegano all’innovazione normativa: la Circolare, in questa lettura, non costituisce un risultato raggiunto, ma piuttosto un “nuovo inizio” per l’autogoverno in tutte le sue articolazioni; rappresenta, cioè, uno strumento messo a disposizione dei Consigli giudiziari e prima ancora dei magistrati requirenti, per consentire loro di partecipare al “governo” delle Procure di primo e di secondo grado, e per reagire alle tentazioni di separatezza e burocratizzazione che, negli ultimi anni, hanno pericolosamente toccato questi uffici.

Ritengo che questo rischio di separatezza ed apatia costituisca il nodo centrale della questione.

La scelta del Csm di intervenire con un atto di natura precettiva, individuando una regolamentazione completa della Procura nelle poche “tracce normative” costituite dalle norme primarie, rappresenta indubbiamente uno sforzo generoso; il metodo utilizzato, che ha coinvolto nel dibattito della Settima commissione tutti i procuratori generali e molti procuratori della Repubblica, ha costituito una scelta saggia e prudente, utile per costruire una condivisione attorno all’ambizioso progetto di normazione secondaria: saranno più difficili reazioni di indifferenza o rigetto di fronte ad una serie di regole che davvero sono state discusse, criticate e modificate insieme ai destinatari delle stesse.

Ma è anche vero che i risultati della riforma – in termini di partecipazione dell’Ufficio alle scelte organizzative del procuratore, di trasparenza, razionalità e condivisione delle scelte, di parità di occasioni professionali per tutti i magistrati – dipenderanno soprattutto dalla vitalità che i destinatari delle garanzie sapranno imprimere agli strumenti disegnati dalla Circolare: in breve, potranno essere vincenti non le norme da sole, ma il bisogno e la capacità di autogoverno che i sostituti degli uffici di Procura (ed in seconda battuta i componenti dei Consigli giudiziari) sapranno esprimere e mettere in campo.

Saranno in grado, in magistrati inquirenti, di mettere a frutto le opportunità offerte dalla nuova Circolare? Riusciranno le diverse articolazioni dell’autogoverno a dialogare con la dirigenza delle Procure, diventandone un interlocutore autorevole? Nei dieci anni successivi alla riforma, quali cambiamenti sono maturati negli uffici inquirenti, per spiegare i rischi di separatezza e burocratizzazione che molti segnalano?

Tento, da osservatrice interna, di suggerire qualche risposta, sperando che voci più autorevoli, e capaci di una visione più completa, diano vita ad una analisi sulle Procure non convenzionale e, all’occorrenza, severa quanto serve.

Inizio dalla riforma del 2006 e dai primi interventi del Csm.

2. La riforma Castelli; le correzioni della legge n. 269/2006 (la cd. legge Mastella); la “resistenza” del Csm e le delibere del 2007 e del 2009

Il testo originario del d.lgs 106/2006 accentua marcatamente il carattere gerarchico dell’organizzazione delle Procure, attribuendo al procuratore una serie di qualità e poteri che ne fanno una sorta di monarca assoluto: è titolare esclusivo dell’azione penale, può formulare criteri generali per l’impostazione delle indagini in determinati settori; può trattare gli affari personalmente o delegarli ad un sostituto, cui può anche delegare il compimento di singoli atti; non è più vincolato dall’art. 3 del d.lgs 271/89 – norma che disponeva la tendenziale unicità del sostituto delle indagini e del dibattimento; non è più soggetto alla procedura tabellare. Insomma, il legislatore ipotizza un organizzatore solitario ed autosufficiente, che provvede alla gestione dell’ufficio con decisioni non condivise con alcuno; che non deve rendere conto in alcun modo al Csm delle proprie scelte; e che non trova nessun vincolo alla sua discrezionalità organizzativa.

Ricordo bene la viva preoccupazione dell’Anm e di tutta la magistratura che aveva accompagnato la riforma, ed il sollievo con cui era stato accolto il parere contenuto nella risoluzione urgente del Csm del 5.7.2006. Il documento segnalava profili di illegittimità, sollecitando un intervento normativo che restituisse al Consiglio competenze costituzionalmente previste; metteva in risalto le prevedibili ricadute negative della nuova disciplina sull’efficienza degli uffici; si riservava comunque di procedere ad una «articolata analisi dei provvedimenti organizzativi dei procuratori, al fine di valutarne razionalità e congruità», così rivendicando per sé un preciso ruolo di intervento, anche nel merito.

Il cambio di maggioranza politica ha successivamente consentito una variazione (molto parziale, ma rilevante) del testo normativo. A distanza di dieci anni mi pare di poter dire che quella nuova maggioranza politica, con quella limitata modifica, intendeva “sminare” il campo dei rapporti con la giurisdizione, togliendo di mezzo le previsioni più rozze, ma certamente non rinunciava all’intervenuta accentuazione della struttura verticistica delle Procure, mantenendo norme che riteneva idonee a rassicurare il ceto politico.

In effetti, la legge 269/2006 ha operato modifiche soprattutto terminologiche o di dettaglio: i procedimenti sono assegnati, e non più delegati al sostituto; la titolarità dell’azione penale è del solo procuratore, ma non si parla più di “esclusiva responsabilità” di questi; il sostituto cui è stata revocata una assegnazione può presentare osservazioni.

Tali modeste modifiche sono state tuttavia abilmente valorizzate dal Consiglio, che grazie anche ad una ricostruzione accurata del quadro normativo di riferimento, ne ha tratto una lettura ben “più attenuata” della riforma.

Il Csm, infatti, con una prima risoluzione del 12.7.2007, fissa alcuni “paletti” che rimarranno fermi fino ad oggi: riafferma l’esistenza di garanzie costituzionali a presidio della autonomia e della dignità professionale dei sostituti; rivendica per se stesso il ruolo di “vertice organizzativo” dell’ordine giudiziario, con conseguenti poteri di indirizzo nei confronti dei procuratori; si ritaglia un ruolo nella valutazione dei progetti organizzativi, di cui terrà conto anche ai fini della conferma nelle funzioni: il Consiglio, insomma, pone con una certa decisione dei contorni al potere discrezionale dei procuratori, e “fa la voce grossa”, ricordando loro i suoi poteri in fase di conferma.

Con la successiva risoluzione del 21 luglio 2009 il Consiglio continua l’opera di delimitazione dei poteri dei procuratori, attribuendosi il ruolo di “diffusore di buone prassi” (formula che entrerà nel “gergo” di molte successive risoluzioni), ed introducendo per la prima volta esplicitamente l’obiettivo di omogeneizzazione dei modelli organizzativi delle Procure: un obiettivo che, forse utile come grimaldello per intervenire su soluzioni ritenute incongrue, in realtà non merita a mio parere tutta quell’enfasi che il Csm vi ha riservato. Dico questo perché ho il timore che l’accento posto ormai da molti anni dal Consiglio sulla necessaria similitudine delle soluzioni organizzative, unitamente all’attenzione prestata normalmente dai procuratori ad una favorevole valutazione dei propri programmi da parte dell’organo di autogoverno in vista della futura carriera, abbia portato ad una sorta di conformismo organizzativo: un modello di organizzazione tutto centrato sulla quantità prodotta che, a mio parere, sta contribuendo all’erosione della valenza giurisdizionale del magistrato pubblico ministero. Ma di questo parlerò in seguito.

La delibera del 2009 meriterebbe una maggiore attenzione, in omaggio allo sforzo che compie per arginare la discrezionalità dei procuratori. Nell’economia di questo scritto, tuttavia, basta ricordare brevemente alcuni spunti, nuovi o accentuati rispetto alla delibera del 2007: si introduce per la prima volta l’idea che le regole organizzative possano indicare criteri di priorità; viene procedimentalizzato l’esame da parte dei Consigli giudiziari e del Csm del progetto (che si conclude con una mera “presa d’atto” che consente, tuttavia, richiesta di chiarimenti ed osservazioni critiche); viene individuato, in caso di revoca dell’assegnazione, un potere del Consiglio di «verifica dell’esistenza, ragionevolezza e congruità della motivazione»; viene ribadita l’esigenza che il progetto del procuratore sia contemporaneo del progetto tabellare dei Tribunali, spendendo una formula dai riflessi quasi emotivi («rivolge un vivo invito ai procuratori»): una calda raccomandazione, peraltro “irrobustita” dall’usuale richiamo alla futura procedura per la conferma.

Assoluta novità della risoluzione del 2009 è una rapida ma significativa attenzione dedicata alle procure generali, che il legislatore del 2006 non aveva per nulla considerato: evidentemente quest’ultimo non era interessato a modificare l’assetto di un ufficio che non faceva indagini …, ma certamente l’omissione creava una disparità irrazionale.

Infine, la delibera inaugura il collegamento tra il tema dell’organizzazione degli uffici di Procura ed i poteri/doveri di vigilanza del procuratore generale presso la Corte di appello, ricostruendo un circuito conoscitivo interno tra Procure di primo e di secondo grado (le quali ultime devono ricevere copia dei progetti organizzativi delle prime), al fine di verificare, come previsto dall’art. 6 d.lgs 106/2006, il «puntuale esercizio dei poteri di direzione controllo ed organizzazione degli uffici cui sono preposti».

3. Il Csm cede alla forza delle cose, disinteressandosi della gestione ordinaria delle procure?

Riproduco in forma di interrogativo il giudizio che è stato formulato, per sottolineare il “silenzio” del Consiglio sul tema delle Procure, dal relatore Ardituro, il quale ha osservando che il Csm si è limitato, negli ultimi anni, ad intervenire nei momenti patologici o di crisi; atteggiamento, questo, che avrebbe contribuito a far maturare una «mutazione del profilo del magistrato di Procura, sempre più demotivato dalla impossibilità di incidere sull’assetto organizzativo dell’ufficio e sulle scelte della dirigenza». In definitiva, l’assetto delle Procure sarebbe uscito per lungo tempo dal focus di attenzione dell’autogoverno: una disattenzione finalmente emendata dalla edizione della Circolare del 2017, un evento che consentirebbe al Consiglio di riappropriarsi del potere di fissare le regole portanti dell’ufficio inquirente, della sua organizzazione e dei suoi rapporti interni.

Recentemente, sempre sulla versione on line di questa Rivista, Giuseppe Cascini e Rita Sanlorenzo, nel loro articolo «Il ruolo politico del Csm»[2], hanno formulato osservazioni, sul tema del mutamento per così dire “ontologico” dei magistrati di Procura, che ritengo molto centrate, soprattutto laddove osservano che l’attenzione del Consiglio pare concentrata soprattutto sulle nomine e sulla carriera dei magistrati e che vi è il rischio di una «perdita verticale di indipendenza di una magistratura divisa all’interno da una competizione perenne e facilmente condizionabile sulla base delle ambizioni personali».

Condivido queste valutazioni e provo a suggerire ancora più esplicitamente una possibile lettura di ciò che è accaduto nelle Procure nei dieci anni di vigenza della riforma dell’ordinamento giudiziario, scusandomi fin d’ora per l’apoditticità delle mie osservazioni, dovuta allo spazio limitato. Intendo soltanto suggerire alcuni possibili collegamenti tra fatti diversi, proporre alcuni spunti sul “cosa è cambiato”, anche sulla base della esperienza in Consiglio giudiziario.

Non credo sia stata la pausa “normativa” da parte del Csm ad aver avuto un rilievo negativo così rilevante: la “perdita di presa” sugli uffici requirenti da parte del Consiglio mi pare originata non dalla carenza di ulteriori interventi di normazione secondaria (le due delibere del 2007 e del 2009 già contenevano una serie di indicazioni e principi sufficientemente articolati), ma da una trasformazione più profonda dei magistrati inquirenti e del loro lavoro. Provo a spiegarmi brevemente.

Le nuove regole sul passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa hanno di fatto limitato estremamente quel transito, in passato fisiologico, dall’una all’altra funzione, e con ciò reso più difficile la maturazione di esperienze e di professionalità naturalmente unitarie. Questo dato storico ha ovviamente reso molto stabile l’appartenenza dei magistrati alla categoria degli inquirenti (e dei giudicanti).

E, per gli inquirenti, a mio parere è sovente intervenuta, per molteplici ragioni, una sorta di “apatia” di fronte al potere dei procuratori: forse gli strumenti di garanzia approntati dal Csm con le due risoluzioni del 2007 e del 2009 erano deboli e di esito incerto; ma mi pare di poter aggiungere che proprio i destinatari delle regole di tutela non hanno azionato, se non raramente, la strumentazione elaborata dal Consiglio al fine di rendere effettiva la loro autonomia.

Rammento le valutazioni che, a proposito della “riforma Mastella”, alcuni colleghi esprimevano: la tutela della indipedenza professionale dei sostituti avrebbe dovuto puntare, per il futuro, sulla loro capacità di esprimere, all’interno degli uffici, una posizione unitaria, razionale e motivata, che potesse indurre il procuratore a partecipare le sue decisioni ed a rendere trasparente la sua gestione. È proprio così: anche i dirigenti più “potenti” non possono prescindere da un certo tasso di condivisione, perché le comunità di lavoro, tanto più le nostre formate da professionisti specializzati, non possono funzionare solo in base al principio di autorità; e perché la democrazia di una organizzazione non è mai un dato acquisito, ma costituisce il risultato di una presenza attiva, critica e capace di coagulare maggioranze.

Ora, a me pare che, per i motivi più diversi, sia diminuita questa capacità di fare politica giudiziaria all’interno degli uffici di Procura.

Certamente alcune ragioni stanno al di fuori della magistratura e riguardano in generale l’assetto della nostra società ed i suoi mutamenti.

Altre, a mio avviso, sono specifiche della concreta struttura degli uffici inquirenti e dei cambiamenti in questa intervenuti, ed hanno agito come moltiplicatori della tendenziale inerzia dei sostituti di fronte al potere organizzativo del procuratore.

Il primo dato è quello già citato da Cascini e Sanlorenzo: il carrierismo, che ha fornito a ciascun magistrato, anche piuttosto precocemente, una serie di ambizioni personali che rendono più difficile la solidarietà nel gruppo di lavoro e che, per converso, li inducono a spendere le proprie energie non nella partecipazione alla vita di ufficio, ma nella costruzione del curriculum.

E ciò, a mio parere, è tanto più vero per i magistrati che operano nelle Procure.

Il carico di lavoro, l’appartenenza ad un gruppo di lavoro ritenuto “prestigioso”, l’assegnazione del procedimento che dà visibilità, sono tutte variabili che dipendono fortemente dalle scelte del procuratore.

Ma anche la valutazione di professionalità periodica è, per il sostituto, una variabile ben più dipendente dal dirigente del suo ufficio, di quanto avvenga per i giudici: l’esperienza in Consiglio giudiziario evidenzia che il giudizio per il magistrato-giudice si costruisce in base alla lettura delle sentenze, ai dati sugli eventuali ritardi, ai numeri dei provvedimenti riformati in appello, tutti elementi che riscontrano la valutazione del presidente. Per il magistrato inquirente, invece, sovente i provvedimenti sono meno significativi; l’unico dato a disposizione, quello della produzione quantitativa, nulla dice sulla qualità e, in epoca di “Servizi di Definizione Affari Semplici” popolati da operatori di Polizia giudiziaria e vpo, neppure sulla diligenza. Sicché -in definitiva- il più rilevante elemento di giudizio è costituito appunto dal rapporto del Procuratore.

4. Il Csm e l’organizzazione delle Procure; l’analisi dei flussi

Ma c’è, a mio avviso, un’ulteriore fattore che contribuisce a spiegare la “perdita di terreno” del Consiglio superiore rispetto alla potestà organizzatoria dei procuratori e la conseguente burocratizzazione degli uffici. Questa ragione non sta nel “silenzio” del Csm, ma nel fatto che, quando ha parlato delle (ed alle) Procure, il Consiglio ha parlato sempre e solo di efficienza quantitativa: un approccio miope, che ha indotto gli uffici inquirenti a diventare, per certi aspetti, “produttori di numeri”, e sottratto ai sostituti il senso della loro appartenenza alla giurisdizione.

A mio parere si è trattato di una scelta che, nei fatti, ha privilegiato una prospettiva di politica delle istituzioni asfittica, che sarebbe importante correggere.

Certamente vi sono serie ragioni che hanno indotto il Csm a puntare l’attenzione sulla capacità di smaltimento delle sopravvenienze da parte degli uffici: la crisi di efficienza delle Procure presso le Preture e la riforma del giudice unico, con la conseguente unificazione delle Procure, hanno necessariamente posto l’accento sulla necessità di una efficace gestione delle pendenze come primo strumento per rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini.

Tuttavia, per troppo tempo l’organo di autogoverno ha ritenuto di misurare la bontà di una organizzazione ed il valore del suo dirigente esclusivamente dalla solerzia nello smaltire pendenze, insistendo sulle parole magiche “analisi dei flussi” e “buone pratiche” che, da sole, parevano soddisfare ogni esigenza di efficienza e di modernità.

E infatti. Sin dalla risoluzione del luglio 2007 il Csm, rivendicando a se’ la funzione di “vertice organizzativo” dell’ordine giudiziario, poneva al centro delle linee guida formulate per orientare l’azione dei procuratori, la «valorizzazione in primo luogo delle risultanze delle analisi dei flussi», come base di partenza per la confezione dei progetti organizzativi.

La risoluzione del 2009 con ancora maggiore forza indicava come strumento per assicurare una ragionevole durata del processo una «attenta, costante e particolareggiata analisi dei flussi e delle pendenze dei procedimenti».

Ma altrettanto e forse più incisivi – nell’orientare verso la quantità le modalità di lavoro delle Procure – hanno operato i criteri previsti ed utilizzati dal Csm per la selezione di direttivi e semidirettivi, criteri ora sanciti dal Tu sulla dirigenza: è evidente che le attitudini più efficaci ai fini della carriera sono quelle vincenti, rispetto a tutte le altre “doti” astrattamente necessarie.

Ed è significativo che il citato Tu definisca all’art. 8 le esperienze che “assumono rilievo” facendo riferimento ai «risultati conseguiti in relazione alla gestione degli affari, desumibili anche dall’indice di ricambio e di smaltimento» e che all’art. 18, elencando tra gli “indicatori specifici” lo svolgimento di funzioni direttive o semidirettive, precisi che tali funzioni vengono valutate «con riferimento ai concreti risultati ottenuti nella gestione dell’ufficio o del settore affidato al magistrato in valutazione, desunti dalla gestione dei flussi del lavoro e delle risorse».

Se, allora, è la “gestione dei flussi” che fa far carriera, aggiunti e procuratori, nonché aspiranti tali, si preoccuperanno tutti quanti soprattutto dello smaltimento delle quantità ed organizzeranno il proprio ufficio o la propria scrivania al fine di produrre quantità; mentre i risultati del dibattimento (e cioè la qualità dell’esercizio dell’azione penale) risulteranno marginali, sino a diventare indifferenti per tutta l’organizzazione di Procura.

Non credo che la mia valutazione sia troppo estrema: non mi risulta che, dopo anni di vigenza dell’art. 6 d.lgs 106/2006, sia mai stato chiesto dai procuratori generali, nell’espletamento del loro dovere di vigilanza, ai procuratori della Repubblica un qualche dato sull’esito dei procedimenti al dibattimento; né che un Consiglio giudiziario abbia ritenuto di dover conoscere questo dato, nel valutare un dirigente di Procura.

Insisto sulla rilevanza del dato costituito dall’esito dei procedimenti, perché sono convinta che l’analisi, riferita ad un intero ufficio ed estesa ad una congruo numero di anni, indichi delle tendenze molto significative; se le assoluzioni nel merito sono percentualmente assai elevate, e se sono cresciute negli ultimi anni, siamo di fronte ad un fatto, che fornisce elementi di valutazione importanti: dimostra che il risultato del lavoro giurisdizionale prodotto dall’ufficio di Procura non dipende dal livello professionale dei singoli sostituti, ma dall’organizzazione dell’ufficio decisa dal procuratore.

È infatti evidente che sussista una forte interdipendenza tra i moduli organizzativi adottati e la qualità del lavoro giudiziario svolto: sempre più di frequente nelle Procure vengono costituiti gruppi di lavoro (composti da operatori di pg e vpo), destinati allo “smaltimento veloce” di denunzie ripetitive e/o di procedimenti ritenuti non abbisognevoli di istruttoria; strutture che sfornano numeri elevati di decreti di citazione a giudizio, anche in materie non prioritarie; e tutto ciò, senza che sia stata rafforzata la professionalità dei componenti di tali gruppi, siano state dedicate risorse alla loro formazione, siano stati approntati validi meccanismi di controllo degli atti ad opera di sostituti o aggiunti che sottoscrivono le minute dei collaboratori.

Ne risultano procedimenti privi di qualsiasi istruttoria e nei quali non è mai stata fatta una prognosi adeguata sulla possibilità di pervenire in giudizio ad una condanna; procedimenti che talvolta – grazie alla velocità ed alla poca fatica con cui vengono prodotti- acquisiscono nei fatti una priorità assolutamente non giustificata: con la conseguenza che il dibattimento monocratico di primo grado per una percentuale rilevante viene utilizzato, a seguito delle scelte organizzative degli uffici inquirenti, per trattare fascicoli che avrebbero dovuto essere archiviati, con conseguente allungamento dei tempi complessivi in primo grado e con aumento dei rischi di prescrizione in appello.

Una sommaria ricerca di dati segnala che, per i giudizi monocratici provenienti da decreto di citazione a giudizio, è crescente, anno dopo anno, il numero delle assoluzioni nel merito, quasi sempre superiore al 50% e sovente al 60%; per converso, le richieste di archiviazione dei pubblici ministeri ai gip diminuiscono progressivamente, anno dopo anno, con riduzioni rilevate dal 55% al 39%; al contrario, e significativamente, i risultati dei giudizi collegiali appaiono più stabili e con percentuali assolutorie marcatamente inferiori; inoltre, nei procedimenti derivanti da decreto di citazione a giudizio, l’esito non viene mai impugnato dal pm, il quale normalmente non conosce neppure la sorte del “suo” esercizio dell’azione penale, essendo massivo l’utilizzo dei vpo, anche talvolta per materie specialistiche.

Questo fenomeno ha riflessi molto gravi non solo sul piano dell’efficienza dell’intera giurisdizione penale, della durata del giudizio monocratico di primo grado e dei costi per i cittadini e per l’erario, ma anche sul piano culturale.

È evidente che un ufficio che si cura, per una significativa quota del suo lavoro, soltanto di produrre citazioni a giudizio, senza procedere ad indagini e senza preoccuparsi della sufficienza delle prove, tradisce il ruolo di controllore della polizia giudiziaria e rinunzia alla propria appartenenza alla giurisdizione; l’attivazione dell’azione penale perde il suo valore di esercizio del potere giudiziario, per diventare l’atto burocratico finale di una produzione di massa, gestita sovente in sub-appalto. Viene meno l’impegno del sostituto nella valutazione e nella ricerca delle prove (anche a vantaggio dell’indagato) e nella prognosi richiesta dall’ art. 125 disp. att. cpp: tutte attività che costituiscono le ragioni essenziali della unitarietà delle nostre carriere.

Il distacco delle Procure da una visione complessiva della giurisdizione deriva dall’indifferenza, nei giudizi del Consiglio giudiziario e del Csm sull’operato dei procuratori, per gli esiti dibattimentali delle iniziative degli uffici inquirenti.

Le scelte organizzative del procuratore non sono più lette come uno strumento diretto ad assicurare un esercizio dell’azione penale attento a tutte le fasi del processo, e quindi a fare buon uso della (limitata) risorsa dibattimentale, e quindi ancora a garantire davvero i diritti dei cittadini, ma solo ad assicurare la fuoriuscita dalle Procure, in un modo “qualsiasi”, delle sopravvenienze.

Voglio a questo punto introdurre due precisazioni.

La prima: la fosca descrizione che ho appena proposto non riguarda certamente il tipo di gestione, da parte delle Procure, di tutti i procedimenti; sappiamo però che queste modalità di lavoro, che “convivono” con ottime indagini preliminari gestite diligentemente da sostituti professionali per fatti complessi, concernono comunque una percentuale rilevante di fascicoli.

La seconda: non intendo neppure mettere in discussione - quasi fossi una luddista - quelle modalità di lavoro che hanno consentito alle Procure di eliminare gran parte del loro arretrato e di aumentare la quantità di procedimenti trattati; certamente, però, una serie di aggiustamenti e miglioramenti sono possibili, per rimettere al centro dell’attenzione la qualità: dal garantire un “ritorno” all’ufficio di Procura dei dati sugli esiti dibattimentali, al monitoraggio degli stessi; ad una maggiore presenza dei sostituti nelle udienze per materia specialistiche o di una certa complessità; alla verifica seria della produzione dei gruppi “di smaltimento veloce”; alla formazione specifica di pg e vpo; all’effettivo rispetto dei criteri di priorità.

Detto questo, voglio tuttavia ribadire che c’è un rischio di deriva, se questo metodo di lavoro si stabilizza: se il sostituto, nel caso di indagini di media o limitata complessità, non ascolta la vittima del reato; se non legge le memorie difensive; se di fatto rinunzia alla prognosi sull’esito del dibattimento; se viene valutato dal suo dirigente e poi dal Consiglio giudiziario e dal Csm soprattutto sulla base dei numeri prodotti: perché mai questo magistrato dovrebbe continuare a far parte della stessa carriera dei giudici?

5. La Circolare del novembre 2016 ed il possibile recupero delle Procure alla giurisdizione

Ho proposto sino ad ora una lettura dell’esistente severa e senz’altro ho estremizzato (anche per ragioni di chiarezza) alcune caratteristiche negative. Penso peraltro che la Circolare sulle Procure del novembre 2017 costituisca un buon segnale, perché potrebbe segnare un cambio di passo ed offrire l’occasione per “recuperare”, come è già stato detto, gli uffici inquirenti alla pienezza della giurisdizione.

Nella parte iniziale del mio scritto ho ricordato sommariamente alcune importanti innovazioni della delibera. A queste aggiungo la nuova norma sulla “designazione” in udienza che, reintroducendo a livello di normativa secondaria la regola già prevista dall’art. 3 del d.lgs 271/1989, traccia dei vincoli organizzativi (la tendenziale identità del pm in indagini preliminari ed in udienza) motivati da una visione unitaria della giurisdizione e dall’esigenza del buon risultato al dibattimento; la disciplina della “rinunzia” all’assegnazione da parte del sostituto, con previsione di comunicazione al Csm del provvedimento motivato: una previsione che, all’evidenza, vuole fornire al Consiglio l’occasione di “guardare dentro” l’ufficio di Procura, nel caso in cui emergano sintomi di dissonanza.

Anche le norme dedicate alle Procure generali (artt. 19 e 20, che concernono l’attività di vigilanza) introducono profili nuovi.

L’art. 19 da specificità, a mio parere al fine di rafforzarla, alla previsione dell’art. 6 del d.lgs 106/2006, laddove riferisce il potere del procuratore generale di acquisire dati dalle Procure sugli «assetti organizzativi ed ordinamentali» degli stessi ed aggiunge il dovere dello stesso procuratore generale di «favorire soluzioni organizzative ed interpretative condivise».

L’art. 20 prevede che il procuratore generale presso la Cassazione, acquisite dai procuratori generali presso le Corte di appello le notizie ed i dati sulle Procure di primo grado, li elabori in un documento da trasmettere al Csm “per una presa d’atto”: se nelle ultime parole sta tutta l’attenzione dell’organo di autogoverno a non inserire “supervisioni” non previste dalla legge, certamente la trasmissione al Consiglio certifica la volontà di quest’ultimo di ribadire il suo ruolo di vertice organizzativo, e quindi di collettore di informazioni e valutazioni qualificate, provenienti da quel procuratore generale presso la Cassazione che le ha acquisite da tutti i procuratori generali dei distretti e, quindi, da tutte le Procure.

Ma la vera e, a mio parere, più energica novità della Circolare è contenuta nell’art. 3 1° comma, comma che vincola il procuratore della Repubblica, allo scopo di garantire la ragionevole durata del processo, a compiere «un’attenta e particolareggiata analisi dei flussi (…), nonché dei dati acquisiti dai presidenti dei tribunali sul ricorso ai riti speciali e sugli esiti delle diverse tipologie di giudizio», collegando così l’obiettivo (ragionevole durata del processo), di valenza costituzionale, ad una analisi degli esiti delle azioni penali esercitate e quindi della qualità della organizzazione di Procura e della giurisdizione prodotta nell’ufficio.

È la prima volta, credo, che il concetto di “esito” riferito all’ufficio inquirente entra nel vocabolario del Csm: queste due righe scalfiscono, finalmente, quello che era sino ad oggi un vero e proprio tabù del tutto immotivato: non vi è mai stato, infatti, un qualche ostacolo normativo alla valorizzazione dei risultati dell’azione penale (peraltro – nel caso di cui sto parlando – riferita non tanto al singolo magistrato, quanto all’intero ufficio): si pensi che l’art. 11, 2° c., legge 111/2007, prevede addirittura che, nelle valutazioni periodiche dei giudici, debbano essere presi in considerazione anche gli esiti delle impugnazioni dei loro provvedimenti.

Insomma, la Circolare supera quella sorta di barriera culturale che paradossalmente separava l’ufficio inquirente dai suoi risultati; risultati la cui scarsa qualità non può che danneggiare i cittadini, scalfire la credibilità della nostra istituzione e gravare sull’erario.

Ora può aprirsi una nuova sfida, che richiede alle Procure delle buone organizzazioni, bisognose della partecipazione di più componenti; l’ufficio inquirente dovrà confrontarsi con un obiettivo più ambizioso, ma anche più stimolante, rispetto alla mera esigenza di smaltire la sopravvenienza, ed il Consiglio e le Procure generali avranno un nuovo terreno su cui mettere alla prova la loro capacità di promotori di “buone prassi”, e di valutare in modo più rigoroso i dirigenti delle Procure.

In particolare, l’inaugurazione di questa nuova prospettiva da parte del Consiglio potrebbe suggerire ai procuratori generali presso le Corti di appello l’opportunità di procedere, d’intesa con i procuratori della Repubblica, all’analisi di una serie storica di dati acquisiti dai Tribunali, e di un confronto di questi dati con i modelli organizzativi dei singoli uffici, al fine di iniziare un lavoro approfondito, diretto ad individuare prassi organizzative davvero virtuose.

Questa “apertura” della Circolare sul versante degli esiti dei giudizi potrebbe introdurre positive correzioni alla deriva, fatta di separatezza e di deresponsabilizzazione, verso la quale gli uffici inquirenti parevano avviati: un’organizzazione diretta anche a produrre qualità ha bisogno del contributo di più voci, e non può essere pensata dal solo Procuratore; la significatività degli “esiti” e la necessità di una seria applicazione delle priorità dovrebbe accentuare l’interdipendenza tra progetti organizzativi e tabelle, e sollecitare un dialogo continuo tra dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti; i sostituti, chiamati a misurarsi più seriamente con le prove e la loro valutazione, dovrebbero essere meno tentati da modalità burocratiche di lavoro.

Un libro dei sogni? Forse sì, se pensassimo di affidare tutte queste trasformazioni alla sola buona volontà di procuratori e magistrati di Procura: è evidente che i cambiamenti, soprattutto culturali e non solo, e tanto più quando richiedono una dose di fatica, hanno bisogno di molti interpreti.

Ho già detto che un contributo potrebbe essere fornito da una lettura dei poteri di vigilanza dei procuratori generali presso le Corti di appello e dal procuratore generale presso la Corte di cassazione, di cui all’art. 6 d.lgs 106, che puntasse soprattutto sulla collaborazione organizzativa e sullo scambio di esperienze; aggiungo che potrebbe essere utile anche la collaborazione delle strutture della nostra formazione, anche decentrata, per assicurare una formazione dei vpo adeguata ai nuovi e più ampi compiti loro affidati dalle Procure.

Ma il discorso decisivo è un altro.

In astratto, non dovrebbe essere difficile dare forza al concetto di «analisi degli esiti dei diversi tipi di giudizio», se davvero i Consigli giudiziari nei propri pareri (sui progetti organizzativi, sulle conferme, sulle progressioni di carriera dei capi delle Procure) acquisissero, analizzassero e tenessero conto di tali dati e delle loro variazioni, come criterio decisivo per valutare la sapienza organizzativa del procuratore.

Ed ancora più facilmente (e rapidamente …) il parametro degli “esiti” diventerebbe forte, fortissimo, se il Consiglio superiore, nelle procedure di selezione dei direttivi e semidirettivi, con coerenza tenesse seriamente conto di tali dati e della loro variazione nel periodo rilevante per le sue valutazioni, e se rendesse da subito chiara la serietà del proposito, per esempio apportando le necessarie e semplicissime variazioni al Tu sulla dirigenza, aggiornando gli artt. 8 e 18 che prima ho citato.

In poche parole: il Consiglio superiore ha fatto un ottimo lavoro nel predisporre questa Circolare, ma solo con la coerenza del suo operato in tema di valutazioni, conferme e nomine potrà realizzare i risultati che si è proposto.

[1] La nuova circolare del Csm sulle Procure, in Questione Giustizia on line, 16 novembre 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/la-nuova-circolare-del-csm-sulle-procure_15-11-2017.php

[2] Giuseppe Cascini e Rita Sanlorenzo, Il ruolo politico del Csm, in Questione Giustizia on line, 29 dicembre 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/il-ruolo-politico-del-csm_29-12-2017.php.