Leggiamo le prime pagine di “Chi nasce quadro può morire tondo” (Novecento Editore, 2013) e siamo immediatamente catapultati nel mondo fantastico (talvolta fino all’ingenuità) di Bruno Capponi: un mondo popolato da squinternati, falsi nobili, falsi borghesi, segretarie sagaci più del capo-studio, professori che si prendono troppo sul serio, professori che sono stufi di prendersi sul serio e diventano sommelier. C’è di tutto e di più.
Personaggi surreali, che soprattutto usano un linguaggio surreale: se sono nobili, o sedicenti tali, non riescono a fare a meno di continui intercalari francesi; se sono professori usano, consapevolmente o inconsapevolmente, categorie concettuali obsolete, autoreferenziali; se sono popolani, il loro mezzo di comunicazione è un romanesco martellante, inesorabile. Il risultato è un pastiche nazional-popolare, che trasforma ogni personaggio nella maschera di se stesso. Insomma, questo mondo di Capponi, divertente e ilare (ma solo in superficie) è, a ben vedere, una sorta di specchio deformante della realtà. Vengono in mente le parole di Carlo Emilio Gadda: l’arte e la letteratura non si limitano alle parole, ma “deformando” fanno conoscenza.
Tutto comincia con una lettera di notaio: di felicitazioni e di condoglianze. Su foglio plastificato. È una lettera che dovrebbe essere il prologo di una notizia che non avverrà: la notizia di una designazione come erede testamentario. Ma, il notaio, primo esemplare di professionista, con tanto di laurea e iscrizione a un ordine professionale, com’è descritto? Vediamo. Figlio di notaio e figlio di puttana (doppia investitura, perché il padre biologico è un altro, un professore, ça va sans dire ). Sogna di acquistare l’intero palazzetto di via Quattro Fontane in cui ha lo studio: palazzo Petti Muflone Mazzottini, sede della giustizia e dell’equità, o forse dell’equità nella giustizia, della giustità, dell’equigiustizia o ancora della giusta equità così come dell’equa giustizia. Ma, nello sviluppo-viluppo della trama, sarà lunga la serie di professionisti verbosi e inconcludenti.
Secondo capitolo. Si narra di una cena in una casa ricca sull’Aventino, la casa della contessa Camilla de La Fontaine Ortucci. A svolgere il compito di sommelier è un personaggio eccentrico, che – come si scoprirà presto – è un professore stufo del mondo accademico e che fuori di quell’ambiente è conosciuto come er Puma. Avvocati e ingegneri. Ospiti che non conversano tra di loro, piuttosto si scambiano monologhi improbabili ed esilaranti. Tra Fellini e Achille Campanile. La serata finisce male e con un risvolto rocambolesco: il tappo di una bottiglia di spumante scappa dalle mani del sommelier e riduce in fin di vita una delle invitate. Subito dopo se la danno a gambe, ma ognuno all’insaputa dell’altro, sia il sommelier sia l’avvocato Ernesto Mignoni Arduini (aveva portato lui la bottiglia magnum di spumante), che è il vero filo conduttore della storia, perché lui è una sorta di crocevia di tutti gli avvenimenti dell’intreccio: ha conosciuto la vittima, sua quasi cliente ( a matta che voleva “brevettà ‘a quadratura der cerchio”); conosce e frequenta la signorina Loredana (meglio: “la Tigre der Bengala”), professionista del sesso che annovera nella sua clientela scelta anche er Puma, amante appassionato, oltre che ex professore e sommelier, e di lì a poco cadavere tranciato in due da un tram a piazza Risorgimento.
Questo secondo capitolo ci dà la cifra stilistica di tutto il romanzo, che consiste: a)nella chiacchiera dialettale o simil-colta (v. avvocati e ingegneri a p. 28 – 29 e tutti gli spassosi intermezzi di Olga, stagionata segretaria dell’avvocato protagonista); b) nei monologhi da esaltati (v. la ispirata conferenza della contessa sulle qualità della cipolla a pp. 29 – 30 ); c) nel romanesco parossistico (v. er Puma a p. 31 ). Il tutto corroborato da ironia corrosiva, indirizzata a preferenza verso i detentori di un sapere specialistico: notai, avvocati, ingegneri e, con un primato indiscutibile, accademici, i professori dell’acqua fredda e dell’acqua calda, oltre a tanti altri.
Tra questi altri non può mancare, ovviamente, la Polizia, anzi la Polizia Scientifica, a cui è dedicato un intero, irresistibile, capitolo, in cui i poliziotti e l’avvocato, divenuto il principale indagato nell’inchiesta sul tappo assassino, hanno una conversazione sui paradossi dell’antichità e della modernità (dalla tartaruga al coccodrillo e all’ascensore, anche se quest’ultimo paradosso, citato dottamente dall’avvocato, ai poliziotti sembra una vera e propria “cazzata”).
Ma, chi sono questi rappresentanti della Polizia e cosa vogliono dall’avvocato? Sono “ du manici de scopa ”, come li descrive la segretaria Olga, e hanno molti fondati sospetti sull’avvocato a proposito di quel cadavere e mezzo: er Puma finito sotto le rotaie del tram e la povera signora colpita dal tappo, che, si è saputo, si stava accingendo a citare in giudizio l’avvocato per colpa professionale. E la bottiglia era in mano al professore detto er Puma, che, guarda caso, frequentava la stessa signorina Loredana, la Tigre der Bengala, che ben conosceva anche l’avvocato e quest’ultimo, guarda caso, era stato fotografato a piazza Risorgimento in mezzo alla folla che guardava il cadavere tranciato dal tram. Perciò, gli indizi erano gravi e all’avvocato conveniva cercare e portare le prove della sua innocenza.
È Kafka che fa capolino nella storia? Il lettore non fa in tempo a chiederselo, perché la trama presenta continue virate, continui stop and go, continui colpi di scena. È una girandola di situazioni paradossali confezionate da Capponi con raffinata perfidia. Una perfidia che non risparmia nessuno, compreso lo stesso lettore, che, posto di fronte a certe trovate, fittiziamente documentate secondo la prassi accademica, si sorprende stupidamente a chiedersi se si tratta di fatti e teorie con un reale fondamento di verità o semplicemente inventati.
È arrivato allora il momento di dare una spiegazione del titolo di questa recensione: perché definisco Capponi l’ umorista post-moderno? Proprio per l’uso che egli fa, durante la narrazione, di inserti pseudo-scientifici, con riferimenti e citazioni a pie’ di pagina e miscelando abilmente il tutto con quella retorica e quella insipienza che caratterizzano sempre coloro che rincorrono titoli e cattedre (v. inserto 50 – 62 sulle dissertazioni circa le possibilità teoriche di trasformare il quadro in tondo e sulla superiorità qualitativa dell’una o dell’altra figura geometrica): con questo inserto (ma identica operazione troviamo in altre opere di Capponi: v. “ Il concorso ” ) tutto ciò che è paludato viene sbeffeggiato con implacabilità e crudeltà.
Qualcosa di simile si rinviene in molte opere dello scrittore americano David Foster Wallace, l’esponente di spicco della letteratura americana degli anni Novanta, autore di opere sarcastiche già nei titoli (Il re pallido, Considera l’aragosta, Il tennis come esperienza religiosa, Una cosa divertente che non farò mai più ),opere che sono finti romanzi o finti saggi, esilaranti conversazioni tra fiction e non-fiction, e che sono ritenuti gli esiti più alti del post-modernismo. E in Wallace, talento ineguagliabile che era mosso dall’ambizione di distruggere i falsi miti della modernità (un’ambizione e un’ansia che lo portarono a suicidarsi all’età di quarantasette anni, nel pieno di un successo eccezionale, di pubblico e di critica), troviamo lo stesso uso derisorio delle citazioni e delle note a pie’ di pagina.
Un’ultima parola va spesa sull’operazione culturale di Capponi. Il pubblico dei lettori italiani è abituato a incasellare gli autori secondo etichette: c’è lo scrittore comico, c’è lo scrittore di gialli o di genere, c’è lo scrittore serio. La colpa – se di colpe si può parlare – non è del lettore, ma della macchina pubblicitaria che tiene in scacco la scrittura di immaginazione. Agli editori, alle librerie fa più comodo dare un’offerta ben differenziata e tipicizzata. Su questo scaffale ci sono i giallisti (che naturalmente non hanno, né devono avere il talento di Simenon), su quest’altro ci sono i comici (che sono i comici senza velleità letterarie: mi riferisco ai comici del piccolo o grande schermo, senza offesa per nessuno), su quest’altro ci sono i classici, i premi Nobel, ecc. Si tende a dimenticare che nel Settecento c’era stato un Goldoni, nel Cinquecento un Machiavelli (e la sua Mandragola, la più scollacciata commedia dell’epoca ). Che uno scrittore possa essere serio e nello stesso tempo comico si stenta a crederlo.
Tornando a Capponi e a questo libro: è una lettura che offre colpi di scena a ogni pagina, i personaggi non finiscono di stupirci e ogni trovata suscita divertimento e riso. Ma poniamoci una domanda. Di che tipo di riso si tratta? E’ il riso come archetipo dell’anasyrma (come Pasolini definiva il tirarsi giù i pantaloni e mostrare i genitali)? Cioè, è il riso che ci viene dall’assistere a un esibizionismo, a un capitombolo per le scale? È il riso sciocco dell’opulenza, che ride alla vista di uno sciancato e crede di essere al di sopra delle debolezze e miserie dei comuni mortali? È tutto questo o è qualcos’altro? È evidente che l’operazione di Capponi è tutt’altro.
Ricorro ancora a Pasolini e a quello che diceva di Arbasino, della sua chiacchiera gergale dell’ultima stagione: tirare giù i pantaloni o tirare su le sottane ai personaggi può significare mettere a nudo la società, le sue devianze, le sue colpe. Fare cioè una critica sferzante della società attraverso opere divertenti. E questa è un’operazione di tutt’altra pregnanza e di tutt’altro spessore rispetto all’anasyrma: è l’umorismo di Palazzeschi, con i suoi discorsi salati e frizzanti, è l’umorismo di Joyce, con le sue continue invenzioni linguistiche, è l’umorismo di Rabelais, in cui il riso diventa metafora e si identifica nei linguaggi bassi. Insomma, è l’umorismo di chi volge le spalle al mondo e rifiuta la logica del potere borghese: è il senso del comico, che, dimenticato in Italia dal tempo di Goldoni fino alla fine dell’Ottocento, si è poi di nuovo affacciato sulla scena letteraria con alcuni scrittori che avevano un senso tragico del tempo e si sono serviti del riso per spaccare i confini del linguaggio che usavano: pensiamo a Landolfi, a Savinio, a Calvino, a Gadda. E così possiamo dire di Capponi, esorbitante e lampeggiante, svolazzante come uno Chagall che strizza l’occhio a Magritte: ci fa ridere, ma soprattutto ci fa osservare e pensare.