Sono andata a vedere Manchester by the sea (Usa, 2016) con il viatico di un mio giovane cugino, onnivoro di film, aspirante magistrato. Lui ha commentato il film dicendomi che, uscendo dalla sala, avrei avuto una nuova visione della vita o di come si fa un film. Non ricordo esattamente. Il ragazzo è giovane. Lo sguardo sulla vita non è cambiato, ma il film, a mio parere, è bellissimo.
Un giovane uomo, solissimo e sofferente, campa a Boston sturando bagni e facendo riparazioni nelle case di una umanità varia. Vive in una squallida stanza in un sotterraneo, si ubriaca e fa risse il sabato sera. Un giorno viene richiamato nel suo villaggio dalla morte del fratello maggiore che lo ha nominato tutore dell’amato nipote Patrick. In un sovrapporsi di scene del passato e del presente, viene svelato il drammatico avvenimento che ha deviato il corso della esistenza del protagonista Lee. Lui prova a rispettare l’incarico lasciatogli dal fratello, ma non ce la fa; non è più possibile per lui vivere ancora nel luogo del dolore. Tornerà a Boston, forse, con una prospettiva di vita.
La trama, tuttavia, non è rilevante.
Colpisce di questo film l’analisi profonda dei rapporti umani e della vita, non urlata e neppure raccontata, ma intuita negli sguardi, nei dialoghi e nei comportamenti dei protagonisti.
Per chi, come noi magistrati, ha la fortuna di potere vivere le vite di tante persone, se solo si avesse la sensibilità di ascoltarle, l’episodio che devasta la vita di Lee è simile ai dolori che si incontrano spessissimo.
Il film è la storia della cesura tra un prima e un dopo, il prima di cui non conosci la felicità nella sua semplicità e banalità, se non nel ricordo doloroso e dirompente. È la storia della impossibilità della ripresa, della mera sopravvivenza: la vita non fa sconti, il dolore non si cura. È la storia degli affetti familiari, muti, presenti e fortissimi: necessari, ma non sufficienti.
Con cammei profondi.
La madre di Patrick, fuori di testa e ubriacona, ha lasciato il figlio in tenera età e neppure con la ritrovata normalità di una esistenza votata alla fede riesce a reggere il ritorno del figlio. Viene in mente la madre del Canto della pianura di Kent Haruf, che abbandona i suoi figli Bobby e Ike. La inconsistenza di un percorso di apparente ripresa, perché sempre di dipendenza. L’abbandono che riteniamo il peggiore, l’innominabile, quello di una madre verso i figli. I figli che comunque vivono e crescono e stanno, alla fine, anche bene.
Le donne assatanate di sesso di Boston che provocano il tuttofare Lee rappresentano la superficialità dei rapporti, privi della capacità di leggere l’altro.
La diversa reazione di padre e madre di fronte al dolore: cuore spezzato per entrambi, ma incapacità di trovare un qualsiasi conforto per il padre, mentre la donna comunque prosegue la sua vita.
Sullo sfondo l’oceano del Massachusetts, e scene di mare, di pesca, di vita di villaggio che richiamano la Elisabeth Strout di Olive Kitteridge.
C’è una speranza alla fine? Non so. Forse solo un attenuarsi del dolore, che diventa più oggettivo, meno conformante la intera esistenza.
Un film drammatico, ma che non crea sofferenza. Solo riflessione.