«Io non sono un traditore... Sono loro che hanno tradito...». Lo dice Tommaso Buscetta nell’aula della Corte di assise all’apertura del primo maxiprocesso alla mafia della storia repubblicana.
È l’essenza del film! Nessun collaboratore di giustizia vuole sentirsi un traditore, per la ragione che la sua più forte identità culturale, spesso l’unica che egli abbia, è quella della fedeltà a Cosa Nostra, al patto di sangue stretto con l’organizzazione criminale. Nessuno può rinnegare sé stesso e l’intera propria esistenza senza prima ripercorrerla tutta... ma in senso inverso. Lo spiega sempre lui, Buscetta, al giudice Falcone nel corso della travagliata scelta che lo portò alla decisione di collaborare con la giustizia. E lì, in quel momento delicatissimo in cui la vita di una persona deve trovare la forza di riavvolgersi su sé stessa come fosse la pellicola di un film da buttare via, che il rapporto tra il criminale e il magistrato diventa la chiave di volta.
Il film, per il quale Bellocchio sceglie un linguaggio che è a metà tra il documentario e il romanzo biografico, raccontando fedelmente la vicenda di cronaca, ci mette di fronte a un pezzo della nostra storia. Una vicenda che in particolare tocca noi magistrati non in quanto parte di una categoria professionale, ma come persone e come giuristi.
Il racconto comincia con una festa nella sontuosa villa di Stefano Bontade. Buscetta è tra gli invitati, con la sua terza moglie, interpretata dalla bellissima Maria Fernanda Candido, e i figli di primo e secondo letto. Tra questi c’è Benedetto, giovanissimo ragazzo già consumato dall’eroina, che in quegli anni a Palermo scorre a fiumi, insieme a quelli di danaro che inondano le famiglie mafiose.
È l’epoca della guerra e delle finte paci tra l’emergente clan dei corleonesi comandato dal sanguinario Totò Rina e i “palermitani”, di cui don Masino Buscetta fa parte. Egli è già uno dei ricercati più importanti, ripara in Brasile, dove può godersi la vita con la bella moglie e alcuni degli otto figli; perché lui ama la bella vita, le donne (ne ha avute tante ed amate tre), i suoi bambini. Non ha mai voluto diventare un capo mandamento, perché questo lo avrebbe inchiodato dentro un ruolo di responsabilità che lo avrebbe costretto a privarsi di questi piaceri. Lo spiega sempre lui al giudice Falcone. Ma in Brasile dovrà assistere inerme all’uccisione del fratello e dei nipoti... poi verrà anche il tempo in cui toccherà a due dei suoi figli.
Viene arrestato ed estradato in Italia. Incontra il giudice Falcone. Decide di parlare e, grazie alle sue dichiarazioni, Falcone porterà alla sbarra la cupola mafiosa (470 persone circa a processo) e lo Stato metterà a segno il suo primo grosso colpo alla più potente organizzazione criminale del mondo. Ma soprattutto dimostrerà che la mafia non è invincibile. Quell’incontro cambierà totalmente la vita di Buscetta, ma è qui che il film non riesce a perscrutare “dietro la cronaca” e a guardare a quel rapporto tra i due uomini che cambierà la vita dell’uno e segnerà il destino dell’altro.
È qui che il grande regista non sa “immaginare” quello che non è rimasto scritto nei verbali del processo e nelle cronache dell’epoca!
E nemmeno è aiutato dalla scelta dell’attore che, al contrario del bravissimo Pierfrancesco Favino nei panni di Buscetta, non riesce ad esprimere quell’empatia naturale che era un tratto tipico di Giovanni Falcone. Ignora forse Bellocchio che alla base di ogni “pentimento giudiziario” sta quasi sempre l’interazione che si crea tra l’accusato e il suo “giudice”, tra la volontà di salvezza del primo e la capacità di afferrarne la mano del secondo.
Ecco... è il sorriso di Falcone che manca in questo film! quel sorriso dal quale traspariva la nobiltà dell’animo e l’amore per la vita che, nonostante tutto, doveva essere molto simile all’amore per la vita che in cuor suo ed a modo suo nutriva Tommaso Buscetta e che, probabilmente, fu la chiave dell’incontro e della vicenda che ne scaturì.