La ragione primaria di questa singolare appendice ad un convegno già così intenso e ricco è la vicenda umana che da poco ha toccato Nicola Curzio e suo padre, il carissimo Piero. La perdita di Nicola è stato un fatto dolorosissimo che ci ha commosso tutti. Anche perché sapevamo del talento del giovane Curzio. Oggi rinnoviamo la condivisione del dolore, ma siamo anche lieti di poter ragionare insieme proprio di un lascito prezioso di quel talento, che è questo libro. Un libro che forse, come si evince sin dal bellissimo titolo, non vince il buio che è destinato a calare su ogni vicenda umana, ma è in grado di vanificarlo o almeno mitigarlo con un portato soprendente di conoscenze che rendono meno fitto proprio quel buio in cui costantemente ricadiamo. Ringrazio perciò in modo particolare Antonella e Piero che hanno voluto affidarmi il delicato compito di leggere il libro e comunicarvi le riflessioni che in me ha innescato o, meglio, le domande che mi ha consentito di formulare insieme a qualche risposta che ho provato a dare.
La prima domanda: perché un giurista (io, non Nicola, che pure giurista era, ma sebbene non lo conoscessi, immagino fosse prima di tutto un grande esperto di arte e di cinema) si dovrebbe avvicinare e interessarsi a studi ultraspecialistici sulla settima arte?
Io in verità posso appellarmi a una ragione specifica. In quanto ideatore nonché rapsodico autore di una apposita rubrica – intitolata Lavoro e…cinema (letteratura, teatro, televisione, musica) - che esce, seppure con scarsa regolarità, nella rivista Diritti lavori mercati che dirigo ormai da vent’anni insieme a Mario Rusciano. Sull’ultimo numero c’è ad esempio qualche mia paginetta su un film (o docufilm, come si dice oggi) intitolato After Work di Eric Gandini, un giovane regista italo-svedese.
Niente di paragonabile naturalmente agli scritti di cinema di Nicola Curzio. Ho solo riportato un mio dato biografico di scarso interesse - deprecabile caduta narcisistica - che ben poco giustifica il mio prendere la parola su un libro di cinema-cinema o Cinema con la C maiuscola.
Un’altra risposta che forse posso più con voi condividere alla domanda perché un giurista e, in specie, un giuslavorista dovrebbe interessarsi di cinema e leggere il libro di Nicola è: perché sempre più il giurista, e il giuslavorista italiano prima e più degli altri, è orfano dell’etica della legge. Può sembrare paradossale. Ma non sono io a dirlo, bensì Umberto Galimberti che, in un libro del 2008 intitolato La casa di psiche (Feltrinelli), scrive di «fine dell’uomo della legge, dell’uomo giuridico a cui la legge fornisce gli argini della sua intrinseca debolezza e nascita dell’uomo sempre meno soggetto alla legge del paese e sempre più costretto a fare appello ai valori», ma soprattutto uomo-viandante inarrestabile che erra in spazi sconfinati. Oggi, tra algoritmi e guerre, questa trasformazione antropologica sembra sempre più vera.
Ma non si tratta di una condizione invidiabile: anzi per più versi è disagevole. E l’uomo viandante di Galimberti è alla continua ricerca di altri confini, altri limiti se volete. Il termine limite, qui preferibile a confini, ce lo suggerisce anche un altro bellissimo libro, La sovranità del limite di Alain Supiot, forse più vicino alla nostra cultura in quanto l’autore è un insigne giuslavorista.
Uno di questi limiti è la REALTA’ – molto importante per il giurista, soprattutto per il giurista che, come me e spero come voi, continua a credere in un diritto fatto di regole non fini a se stesse ma orientate a rendere praticabili relazioni umane improntate a equilibrio e giustizia. Che sono o evocano “valori” a cui le norme possono tendere ma solo appunto dando una forma giuridica alla realtà cioè non separando, astraendo la regola dalla realtà con cui il giurista deve restare saldamente in contatto.
E qui torna il Cinema come possibile strumento di conoscenza della realtà o di efficace contatto con la realtà. Ovviamente non unico né assorbente, ma da affiancare ad altre modalità molto più “razionali” di percezione e comprensione del reale. Ivi compresa l’individuazione e la comprensione dei problemi e la ricerca di indicazioni o suggerimenti anche sulla tensione dell’uomo - viandante alla Galimberti o testardamente giurista pur in una complicata modernità - a realizzare i valori e la giustizia.
Ho trovato il libro di Nicola prezioso proprio per capire qualcosa di più sul Cinema come strumento per arricchire la nostra conoscenza della realtà.
E non tanto per il riferimento a correnti tradizionali e celebrate del cinema italiano e internazionale come il neo-realismo di cui è in circolazione un ultimo bellissimo film girato dal grande Martin Scorsese, Killers of the flower moon. E nemmeno riproponendo la dubbia coppia oppositiva fiction/non fiction di cui si legge nel tanto discusso Fame di realtà di David Shields (un noto attore americano che in verità parla soprattutto di letteratura). Così sarebbe fin troppo facile. Invece il libro porta ad interrogarci su quanto il cinema riveli aspetti della realtà che con altri strumenti non ci appaiono facilmente.
Nicola Curzio ci consente infatti di chiarire in modo più ampio e profondo il rapporto tra cinema e realtà perché molti saggi raccolti nel libro ci danno un quadro più ricco e problematico di questo rapporto che sarebbe assolutamente riduttivo se non sbagliato confinare nel pur apprezzabilissimo neo-realismo.
Nicola ci parla di questo rapporto, come vedremo tra un attimo, anche indebolendo le nostre facili certezze. Ma confermando secondo me che sul cinema si può contare per avere uno sguardo più capace di cogliere la realtà e i suoi significati. Del resto il cinema è indubbiamente e innanzitutto una meravigliosa espressione della creatività artistica. Già solo per questo su di essa si può contare per percepire più intensamente la realtà: infatti, al pari delle altre arti, rende visibile ciò che spesso non lo è (Paul Klee); e come 7^ arte, benché o proprio perché ultima arrivata, è la sola che riesce a unire in una sintesi l’estensione dello spazio e la dimensione del tempo (Ricciotto Canudo, 1921; ma anche Héléna Klotz – p. 73 - nel libro di Curzio che dice «ciò che ha valore in un film, o anche in una sola inquadratura, è la capacità del cinema di raccontare queste diverse dimensioni spazio/temporali: il passato, il futuro, il presente. Una vera ripresa, o un vero personaggio cinematografico, deve avere al suo interno tutte queste dimensioni. Perché in fondo è la dimensione della vita, qualcosa che non è fabbricato»).
Ma il libro di Nicola, attraverso riferimenti spesso molto sofisticati a film, registi, sceneggiatori, ci dice molto di più delle pur belle notazioni basilari di Paul Klee e Ricciotto Canudo.
Vorrei ora leggerne alcuni brani particolarmente significativi.
a) Da Tabu del regista lusitano Miguel Gómez, bellissimo film del 2012 in bianco e nero su un’intensa storia d’amore raccontata a ritroso. Il regista viene descritto come un «osservatore immobile» che «guarda la realtà oltre la realtà stessa» (p. 158). E così racconta un mondo «fatto di elementi contrapposti (luce/ombra, città/campagna, tragico/burlesco…) che coesistono parallelamente all’interno del film, senza mai trovare un’autentica riconciliazione, bensì piuttosto un equilibrio che ne consente l’esistenza» (p. 156). «L’esploratore – continua poi Nicola - è una melancolica creatura divisa tra il doloroso ricordo di un passato perduto (che ritorna in forma di fantasma) e la tenera volontà di trovare un luogo, finanche un aldilà in cui poter ricominciare» (p. 159).
b) Da The cut, film sulla tragedia degli armeni: talora il cinema, dice Nicola, da visione utopica, puro desiderio cristallizzato nella mente e nello sguardo, si trasforma in realtà. Ma così può dar vita a un «tradimento… perché la realtà diverge da quanto raccontato» (p. 107): nel caso di specie la ferita degli armeni, ricucita in una metaforica storia privata rappresentata nel film, è invece tuttora aperta e si tramanda di generazione in generazione.
c) Da Viaggio al termine della notte, una conversazione con Héléna Klotz che gira il suo primo, film L’âge atomique, «tutto avvolto nel buio». E qui Curzio parte da una suadente citazione di Andrè Gide «Obscurité, tu seras dorévant pour moi la lumiére» per formulare una domanda sul ruolo dell’oscurità alla quale la regista risponde «l’oscurità è sempre qualcosa che rivela. Non è nelle cose più chiare, più evidenti che c’è più verità, ma in quelle più oscure. E se si va avanti con questa idea, osservando il mondo in cui ci troviamo, ci si può rendere conto che quest’ultimo non è come ci appare» (p. 72). Nicola incalza però la regista francese e le chiede dei «suoni spesso amplificati, deformati, come e forse più delle immagini», di sequenze dove «tutto sembra rallentato ovattato, quasi a voler dare un senso di allucinazione» (p. 75). Ed Héléna Klotz risponde appellandosi al grande Andrej Tarkovskij che in un suo libro (Le Temps scellè) spiega come «per parlare meglio della realtà …bisogna trasformarla attraverso il cinema», addirittura che «per raccontare qualcosa di vero il cinema deve necessariamente trasformare il reale» (ibid.).
d) Da Sarah Winchester, opèra fantôme del regista Bertrand Bonello, anche lui francese (e autore del recente La bête, presentato all’ultimo festival di Venezia, sull’amore al tempo dell’intelligenza artificiale). Qui Curzio affronta il cinema come rappresentazione, proponendo la lettura del particolarissimo film dedicato alla follia della erede dell’azienda americana di fucili Winchester come «una riflessione sul cinema e sulle sue capacità illusorie e immaginifiche». E tirandone fuori una illuminante conclusione assertiva: «il cinema è una questione di credenza. A suo modo chi crede nel cinema crede nei fantasmi» (p. 21). Confesso però che questa conclusione mi ha messo un po’ in crisi: se per fantasmi si intende una metarealtà spaventosa in cui ci si può perdere. E perdere proprio il lume della ragione.
e) Perciò ho messo da ultimo un brano (che invero è il primo del libro) tratto da Sofia’s Last Ambulance, un lungometraggio del bulgaro Ilian Metev che racconta il complesso lavoro – e sottolineo lavoro - di una équipe (medico, infermiera e autista) che cercano di salvare vite a bordo appunto di una delle poche autombulanze di Sofia. Spesso il disperato lavoro di soccorso, avvolto di nuovo nel buio della notte, va male, nonostante «la profonda umanità dei protagonisti», scrive Nicola. E aggiunge «E’ davvero il loro impegno e la loro straordinaria forza di volontà che dona un’anima al film» nonostante «la freddezza della realtà mostrata» (p. 5). Mi chiedo qui dove sono i fantasmi? Il film chiude «su un’immagine che mostra l’autombulanza procedere in pieno giorno, alla luce del sole». Per Nicola il regista con questa inquadratura vuole dirci che «si tratta di una drammatica realtà sotto gli occhi di tutti». Ma poi aggiunge che a lui «piace pensare che la luminosità del finale sia anche un piccolo segno di incoraggiamento, una piccola speranza»; perché anche il regista bulgaro sa bene «che ogni film per poter esistere ha bisogno di almeno uno spiraglio di luce».
Volendo proporre in chiusura e in estrema sintesi cosa ho imparato da Nicola Curzio direi: il cinema è una luce che crea e rivela, non solo realtà oggettive, ma anche realtà oscure e illusorie, mostrandoci spesso i nostri fantasmi. Resta però una luce che potenzia la nostra conoscenza della realtà e ci fa andare oltre, una luce preziosa anche o soprattutto per giuristi che non vogliono restare soli con i propri fantasmi. Grazie Nicola.