Chiara è la figlia di un trafficante di droga, che partecipa alla filiera del commercio all’ingrosso della cocaina, assicurandone la lavorazione a Gioia Tauro. Chiara è, nello stesso tempo, figlia di un padre amorevole, schivo di parole ma non di affetto, perno centrale della sua famigliola declinata tutta al femminile: tre figlie, di cui una in tenera età, ed una moglie, ruotanti attorno alla figura paterna.
Ma Chiara, di chi sa essere figlia?
Questa la domanda che inquieta tutto l’intenso ultimo film di Jonas Carpignano.
Ci sono tante spie rivelatrici di uno strano alone che attornia la famigliola.
Tanti uomini compresenti nelle scene che coinvolgono il nucleo familiare, rigorosamente vestiti di nero, in uno stereotipo che scenicamente giova alla narrazione, finanche commensali abituali seduti al tavolo del festeggiamento dei diciotto anni della sorella di Chiara: Giulia, la maggiore.
Chiara, per il resto, è una adolescente qualsiasi, vive in una città che appare depressa anche allo sguardo, nell’edilizia (al solito incompleta), nella luce; tutto ruota intorno al porto ed al mare di Gioia Tauro, ma spesso il clima è uggioso, quasi a tradire le preoccupazioni che si stagliano nell’orizzonte della ragazza.
Inizialmente la caratteristica che più colpisce, risultando fastidiosa, è la sonorità. L’ascolto della voce di Chiara, così come quella degli altri interpreti nelle prime scene del film, non è mai nitida. La sua si sovrappone a quelle delle sorelle, delle amiche, della famiglia, quasi obbligando lo spettatore ad un evidente sforzo di attenzione, faticoso, teso a mettere a fuoco il senso delle parole pronunciate da Chiara per distinguerle da quelle messe in bocca alla restante comunità, in cui lei vive. Complice di questo iniziale complesso ingresso nel film anche la marcata inflessione gioiese della protagonista ed il ricorso da parte degli altri al dialetto locale, pure quasi sempre sottotitolato, nonché la presenza di tanti attori non professionisti che trasudano verità e che già accompagnano lo spettatore all’interno di un mondo non troppo artefatto e, come tale, ostico alla comprensione.
Il disagio via via non solo si attenua ma trova una spiegazione quando l’indistinta massa di intonazioni lascia spazio più nitidamente alla sola voce di Chiara.
La partenza misteriosa, in ambigue circostanze, dell’adorato padre, in forte connessione affettiva con tutte e tre le figlie, conduce Chiara in una spirale di domande ed in una ostinata ricerca della verità.
Chiara è la vera protagonista ed ancora di più lo è il suo sguardo sulle cose e su quello che sta per accaderle e che lei, a differenza di tutte le altre donne di famiglia, vuole ostinatamente scoprire, sapere, guardare impavidamente in faccia. Da qui lo scontro di mentalità con la sorella maggiore (a cui Chiara oppone una sola domanda «Tu che cosa sai?») e con la madre. Loro due, infatti, vivono come penosa, ma dignitosa la condizione di accettazione della appartenenza del capofamiglia ad un mondo criminale che le ha sinora sostenute. Peraltro l’abnegazione a codici di omertà e silenzio, nonché la capacità di sopportazione, devono essere adesso tanto più cieche e fedeli, se l’obiettivo è la sopravvivenza della famiglia e la protezione della latitanza dell’uomo.“
A Chiara è una storia scritta dal registra italo americano Jonas Carpignano, che a lungo ha vissuto e vive ancora a Gioia Tauro, a cui egli dedica il terzo film della sua trilogia; iniziata con Mediterranea, pellicola incentrata sugli scontri tra i raccoglitori di arance provenienti dall’Africa e la popolazione locale, e proseguita con A Ciambra, film narrante la sopravvivenza sulle strade del quattordicenne Pio Amato e la sua vita nel quartiere sede della comunità nomade del posto.
La trama di A Chiara, invece, è liberamente ispirata alle vite dei minori che entrano nello speciale programma di protezione e di allontanamento dalle famiglie di origine, inserite in contesti di ‘ndrangheta e di criminalità organizzata, denominato Liberi di scegliere ed adottato sulla scorta di un collaudato protocollo tra Tribunale e Procura per i Minorenni di Reggio Calabria, Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Ministero dell’Istruzione, Ministero dell’Università e della Ricerca, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Direzione Nazionale Antimafia, Conferenza Episcopale Italiana e Libera.
Il film ha il pregio di offrire una lettura aperta e problematica delle soluzioni che l’intervento dello Stato produce in simili evenienze, sia pure in una rappresentazione di queste ultime adattata alle esigenze della cinematografia.
Quale sia il destino di questi minori, “sospesi” tra un presente che li fagociterebbe verso gli abissi della vicinanza perniciosa al mondo criminale e un futuro diverso, resta il nodo centrale della riflessione. Nel film l’avvenire si presenta come una scelta “obbligata” per chi vuole ribellarsi all’omertà e all’accettazione di un destino di profonda contiguità e condivisione di scelte delinquenziali vincolanti. Eppure una vecchia immagine fa da sfondo all’affacciarsi di Chiara verso la sua nuova, bella e attraente destinazione, in un ordinato contesto territoriale (Urbino) e in un ambito familiare molto più sereno ed appagante, culturalmente e socialmente attrezzato, finanche amorevole; si tratta dell’immagine-ombra delle donne che Chiara ha lasciato, che appare scura, angosciosa, quasi un monito ma anche un penosissimo rimpianto, un lutto, una perdita.
Il registra, anche autore, non dà risposte o giudizi, lascia solo che A Chiara, così come il suo sguardo che nasconde mondi diversi, penetrino lo spettatore, che di sicuro va a casa più consapevole del sacrificio di averla lasciata, quindicenne, “libera di scegliere”.