Una lezione di storia, senz’altro. Ma anche una lezione di cinema, e di scienza della comunicazione.
Gioca su molti piani il film - documentario di Mark Cousins, regista irlandese nato nel 1965 che coraggiosamente affronta in questa sua ultima opera la difficile sfida di raccontare la vittoria del fascismo in Italia, partendo dall’angolo visuale del sostegno determinante che la sua ascesa ebbe da una certa forma di propaganda, anche cinematografica.
L’originalità della scelta narrativa sta innanzitutto nell’analisi del mezzo cinematografico utilizzato per rappresentare un’apparenza enfatica e mistificante, capace di sorreggere una presa di potere che forse più che alla forza ed alla capacità di attrarre consenso trovò dapprima corrispondenza nella debolezza degli avversari politici, oltre che nell’appoggio occulto della massoneria. Dagli archivi cinematografici vengono così recuperate pellicole che da un lato rappresentano bene la retorica del movimento fascista in ascesa, dall’altro, sotto lo sguardo acuto del regista, svelano le prove della manipolazione per immagini, volta a rappresentare una partecipazione ed un entusiasmo di popolo, almeno agli inizi, ben più massicci di quanto fu nella realtà.
In particolare, Cousins guida lo spettatore all’analisi attenta e minuziosa di A noi!, il film (anzi, l’instant movie, si direbbe oggi) che nel 1922 cantò il successo del fascismo nei pochi giorni tra la marcia su Roma ed il conferimento a Mussolini dell’incarico di formare il governo, preoccupandosi da un lato di occultare le fatiche e le difficoltà logistiche dell’impresa, arrivando a cancellare persino le tracce del fango di cui arrivarono coperte le camicie nere date le forti piogge che avevano avversato la marcia; dall’altro, tacendo ogni cenno allo scarso eroismo del capo che era rimasto a Milano, pronto alla fuga in Svizzera nel caso in cui l’impresa non avesse avuto successo.
La tesi di fondo a cui si ispira questa ricostruzione ricorda in qualche modo quella che dobbiamo ad un’opera letteraria di grande successo, quell’M Il figlio del secolo di Antonio Scurati, che più che alla capacità di rottura con il passato ed alla forza persuasiva del movimento, attribuisce la vittoria del fascismo alla debolezza degli avversari ed alla occulta vicinanza di potentati economici che immaginavano comunque di saper condizionare ed imbrigliare le sue punte più estremiste.
Non si è qui in grado di giudicare il rigore storico della ricostruzione: certo è che la prospettiva che si è privilegiata, fa riflettere, e molto, anche sul passato più vicino a noi, e sul presente che stiamo vivendo.
In un’intervista, Mark Cousins ha detto: «Volevo guardare a questo tema da diverse angolazioni. Naturalmente dovevamo esaminare con estrema attenzione i filmati d'archivio dell'epoca e cercare di mostrare quanto fossero complici. Il cinema mente. Tutta la cultura mente. Le cose che molti di noi amano - l'arte, i film, eccetera - sono anche potenzialmente nostri nemici. A Noi! aveva certamente un ruolo nella presa del potere. Quindi sapevo fin dall'inizio che se avessi fatto un film su A Noi! avrei voluto mostrare tutto ciò che non era. Dovevo dire che, sebbene il 1922 fosse un'epoca di controllo ideologico, molti registi hanno rifiutato questi controlli: Elvira Notari, Chaplin, Carl Theodor Dreyer, ecc. Oggi abbiamo la stessa scelta» (https://www.spaziocinema.info/milano/eventi-e-rassegne/marcia-su-roma-di-mark-cousins-regista-in-sala).
La narrazione procede attraverso l’illustrazione, tramite spezzoni di documenti ricavati dagli archivi d’epoca, di quello che fu poi veramente il fascismo in Italia, compreso quel lato odioso dell’esperienza coloniale dell’Impero in Africa, con le atroci violenze da cui fu accompagnata, compreso l’uso sfrenato di armi chimiche devastanti. L’immagine del Negus sommerso dai fischi dei giornalisti italiani quando davanti alle Società delle Nazioni prova a denunciare le sofferenze inferte al popolo eritreo, a dimostrazione della convinta partecipazione degli italiani a quella carneficina, è significativamente associata alla drammaticità dei ritratti di alcuni volti delle vittime dell’occupazione: altro capitolo di storia patria in gran parte ignorato e occultato, insieme al carico di violenze e sofferenze che ha portato, il cui disvelamento da parte degli storici non può dirsi ancora compiuto se un recente, notevolissimo romanzo di una scrittrice nata in Etiopia, Maaza Mengiste, Il re ombra, ha saputo raccontare al grande pubblico, anche italiano, vicende e fatti sconosciuti ai più.
L’idea forte che sorregge il film è allora quella per cui la grande menzogna della propaganda, la manipolazione spregiudicata dell’oggettività dei fatti pur di sostenere la conquista del potere, il soffocamento delle voci critiche che provano a svelare i pericoli che certe prospettive comportano, sono tutti elementi che concorrono prima alla affermazione ed al rafforzamento della dittatura, per poi condividerne le responsabilità nelle tragiche conseguenze che derivano dalla caduta.
A ciò deve aggiungersi che il rifiuto a leggere con chiarezza che cosa ha voluto significare la storia del regime fascista, e la rimozione del dramma delle conseguenze della sua presa di potere, inevitabilmente gettano oscure proiezioni verso il futuro, consentendo che a quei modelli ancora ci si ispiri, e che da lì si parta per dare il via a derive dagli effetti imprevedibili.
Non a caso, la pellicola inizia con la ripresa di uno spezzone di un’intervista a Donald Trump, a cui il giornalista chiede il senso di una sua citazione di una frase di Mussolini («Meglio un giorno da leone…»), ed a cui l’ex Presidente USA risponde che quella frase gli era piaciuta e che d’altra parte lui aveva 14 milioni di followers tra Facebook e Twitter: e non c’è salto logico, non vuole esserci, tra questo frammento iniziale e quello che compare fugacemente nel corso del film a proposito dell’assalto a Capitol Hill.
Le parole, anche in questo caso, diventano armi, e non in senso figurato. Permettere di rappresentare il fascismo in Italia senza riportarne il carico di violenza, sopraffazione, razzismo, lasciandone intatti i simboli, anche architettonici, e rinunciando a collocarli nella loro dimensione di strumentalità rispetto all’affermazione ed alla enfatizzazione del potere, significa lasciare colpevolmente aperta la porta alla emulazione ed alla riproposizione di forme di totalitarismo ed autoritarismo. D’altronde, come dice Cousins nell’intervista, sono possibili (lo sono sempre state) scelte diverse: è responsabilità di ognuno compierle, o meno.
C’è poi un’altra chiave che può trarsi dai tanti livelli di questo film, a cui certo sta stretto il rigido inquadramento nel genere del documentario: ed è lo sguardo femminile, prima appassionato e poi dolente, di Alba Rohrwacher, che nel ruolo di Anna, una giovane madre all’inizio grande sostenitrice del fascismo e poi tragicamente colpita anche negli affetti personali dalla guerra, attraversa tutta la parabola che nel ventennio tracciò le vite di uomini e donne. Più volte il film ricorda il machismo del regime, e contrappunta questo giudizio con una delle tante citazioni cinematografiche, quella dello splendido e commovente confronto tra due vittime dell’emarginazione e della discriminazione durante il ventennio, interpretate da Sofia Loren e Marcello Mastroianni, tratto da Una giornata particolare di Ettore Scola.
Anna/Alba nel corso del film subisce una trasformazione visibile, da radiosa portatrice delle future glorie del regime, che dichiara la sua fede a Mussolini che promette «pace, quiete, lavoro e calma», da ottenersi «con l’amore se possibile, con la forza se sarà necessario»; a dolente vittima delle tragiche conseguenze di scelte dissennate e folli costate milioni di vite.
La sua parabola la porterà infine a intonare, sui titoli di coda, con voce esile ma ferma, Bella ciao: il canto universale che ancora oggi, persino in Iran, viene innalzato per rivendicare il diritto alla libertà delle donne, contro la violenza della repressione del regime autoritario.