Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

L'Italia tra fascismo e democrazia. La fine della prima Repubblica *

di Rosy Bindi
già ministra e presidente della Commissione antimafia

1. Non sono una storica e, dunque, mi limiterò alla lettura di una parte della fase storica che ho vissuto. 

Sono nata nel 1951, durante la cosiddetta Prima Repubblica, e gli anni che ci sono stati appena raccontati in maniera esemplare dal professor Revelli sono gli anni della mia vita. Ma ho incominciato a riflettere sul tempo che stavo vivendo e sulle trasformazioni che subiva il nostro paese in un'età un po’ più matura, quando già si intravedevano le avvisaglie della crisi e della fine di quella che è stata chiamata la “Prima Repubblica”. 

Per ragionare sulle cause che hanno portato a quella crisi, parto da una citazione di Giuseppe Dossetti, tratta da un intervento del 21 gennaio del 1995, quando ruppe il silenzio della clausura per condividere la sua sapienza costituzionale e la sua esperienza di costituente. Erano i giorni in cui la Costituzione cominciava a subire il primo attacco, che si concretizzò poi nel tentativo di riforma promosso dal Governo Berlusconi. Vi leggo questo passaggio che mi aiuta a spiegare l’improprietà dei termini “Prima” e “Seconda Repubblica”. Sperando – dico subito – di non trovarci, in un prossimo futuro, a usare quello di Terza Repubblica. Del resto, se mai si dovesse realizzare il disegno in preparazione, e in parte già compiuto con l'approvazione dell'autonomia differenziata, non dovremmo più affidarci alla sequenza numerica ma dovremmo parlare di un'Altra Repubblica, perché i tentativi precedenti sono stati sicuramente pericolosi ma mai così stravolgenti dell'impianto costituzionale come quello in preparazione. Leggo, dunque, queste poche righe nelle quali Dossetti contesta l'uso del termine Seconda Repubblica che noi continuiamo ad usare, benché si tratti, come dice giustamente lui, di una forzatura giornalistica. 

«Comincerò – diceva Dossetti – con una questione preliminare che potrebbe sembrare solo nominale ma che a mio avviso è di grande importanza per un sano orientamento del complesso dei problemi che oggi sono affrontati. Credo che per ora non si possa e non si debba in nessun modo parlare di Seconda Repubblica. Direi piuttosto che questo termine, per ora, debba essere totalmente bandito, in quanto nato da un'avventata superficialità giornalistica e supinamente recepito da una vasta parte dell'opinione pubblica già profondamente disorientata e ulteriormente, proprio da questa locuzione, tratta in una serie di inspiegabili inganni. Di Seconda Repubblica sino ad ora non c'è né un fondamento storico in qualche evento intervenuto nella globalità della compagine del nostro Paese che possa essere preso come punto di partenza di un'effettiva interruzione di continuità storica né c'è un fondamento giuridico in una volontà precettiva che abbia anche solo iniziato una elaborazione nuova del patto fondamentale della nostra convivenza. Non può esserlo di certo il solo passaggio, e anche questo molto incompleto, dal sistema elettorale su base proporzionale al sistema maggioritario. La semplice sostituzione di una legge elettorale a un'altra non può importare alcuna discontinuità di rilievo costituzionale. Al massimo ha operato, concorrendo altri fattori, per esempio Mani Pulite, soltanto un mutamento è anche questo più apparente che sostanziale del personale politico».

Apro, a questo punto, una parentesi. Dossetti ha sempre sostenuto che la nostra Costituzione è figlia della Resistenza e, soprattutto, della Seconda Guerra Mondiale, di questo evento così traumatico da non poter essere paragonato a fatti storici recenti idonei a giustificare una nuova Assemblea Costituente. Nella sua visione la nostra è una Costituzione rigida non solo perché modificabile esclusivamente attraverso una procedura predeterminata e complessa ma soprattutto perché alcune scelte dei costituenti, in particolare la forma di Stato e la forma di governo, non sono a disposizione neanche dell'articolo 138 della Costituzione, se non interviene una nuova rottura traumatica come quella della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza. Orbene, di una rottura come quella di cui parlava Dossetti non c’era, in quegli anni, alcuna traccia. Certo, il cambiamento del personale politico era stato, nelle ultime elezioni, più sostanziale, ma ciò non rende meno impropria l’espressione Seconda Repubblica, che per pigrizia continuiamo a usare. Questa consapevolezza è importante per rimanere ancorati al valore della Carta costituzionale e a ciò che essa ha prodotto nei primi anni come ci è stato illustrato dal prof. Revelli.

 

2. Ma torniamo al tema. 

Parto dagli anni ’70, anni nei quali la Prima Repubblica – ecco che mi smentisco subito – è giunta alla sua maturità, grazie alle riforme approvate in allora. Gli anni ’70 sono quelli in cui il dettato costituzionale prende corpo, si invera, pur con grande ritardo e in maniera incompleta. Ciò avvenne sotto la spinta della contestazione del ’68. Io, da cattolica, aggiungo: grazie alla novità del Concilio Vaticano secondo. E, poi, grazie ai grandi cambiamenti intervenuti sul piano internazionale: in quegli anni ci furono anche gli accordi di Helsinki sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che forse in questi giorni dovremmo ricordare un po’ di più per la strada che avevano segnato e che poi non è stata percorsa, anche dopo l'89. Fu un parto difficile per le ragioni che abbiamo appena ascoltato da Revelli. Perché – non possiamo dimenticarlo – il cammino della Costituzione è iniziato quando il paese aveva ancora le strutture dello Stato liberale e dello Stato fascista e – come usava dire Calamandrei – la Costituzione, se non applicata, è un libro morto, lasciato cadere per terra. E fu difficile entrare nella nuova fase anche per le scelte fatte subito dopo la caduta del fascismo, a cominciare da quella riabilitazione di esponenti fascisti anche non di seconda fila che ci è stata appena descritta. È un periodo che ricordo bene anche perché, sul piano universitario, ho lavorato con Vittorio Bachelet, che non era stato un costituente ma che aveva messo la sua sapienza giuridica, con grande senso politico, a servizio di un paese che doveva attuare quella Costituzione. 

Il processo fu lungo, accompagnato da mille contraddizioni, ma trovò la sua attuazione più grande appunto negli anni ’70, gli anni delle grandi riforme: la riforma sanitaria, lo statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia eccetera, tutti aspetti della vita di un paese nel quale finalmente i principi della Carta costituzionale cominciarono a inverarsi. Anche se non dobbiamo dimenticare – ci ritornerò dopo – che, da un punto di vista economico, alcune delle riforme erano state anticipate già negli anni ’50. Il paradosso di quegli anni è che quella capacità della politica di recepire, anche se in maniera incompleta, le grandi istanze di cambiamento dovette convivere con lo stragismo, il terrorismo e, aggiungerei, i poteri mafiosi che condizionano fortemente le scelte politiche. 

Perché gli anni ’70 sono gli anni delle grandi riforme, pur nelle contraddizioni appena ricordate? Perché il processo iniziato con il progetto del compromesso storico di Enrico Berlinguer e della solidarietà nazionale di Aldo Moro (destinati, nelle intenzioni, ad approdare alla democrazia dell'alternanza), vede la collaborazione tra le principali forze politiche popolari che sono la vera infrastruttura della Prima Repubblica. Bisognerebbe rileggere La Repubblica dei partiti di Pietro Scoppola per ricordarci che, se non ci fossero state quelle grandi comunità politiche, gli italiani avrebbero fatto molta più fatica a maturare la cittadinanza democratica che è contenuta nella Carta costituzionale. Quelle forze sono state delle scuole di civismo e di cittadinanza, non soltanto delle scuole politiche rispondenti alle visioni ideologiche e culturali di ciascuna. Quelle comunità politiche che hanno scritto la Carta costituzionale e che hanno costruito la democrazia italiana con ruoli di maggioranza e di opposizione all’inizio degli anni ’70 iniziano una collaborazione anche sul piano politico. E sono, appunto, gli anni delle grandi riforme, quelli in cui la Costituzione comincia a vivere. 

Per questo, se mi si chiede quando e perché è finita la Prima Repubblica – quella che impropriamente chiamiamo Prima Repubblica –, io rispondo che bisogna partire dal 1978 con l'uccisione di Aldo Moro. La fine della Prima Repubblica e, poi, il parto – più lungo e faticoso di quanto si pensi – della cosiddetta Seconda Repubblica stanno lì, quando si interrompe il processo che avrebbe dovuto portare alla democrazia dell'alternanza, perché in democrazia nessuno è condannato a governare e nessuno è condannato a stare all'opposizione. Questa è la forza delle democrazie. Noi siamo stati una democrazia incompiuta fino a quando c'è stata la conventio ad excludendum dal governo del Partito comunista per la situazione internazionale, per la divisione del mondo in chi “stava dalla parte giusta” e “chi stava dalla parte sbagliata”. Noi siamo cresciuti così. Io fino a una certa età non avevo dubbi di stare dalla parte giusta, per di più in una famiglia democristiana con una mamma socialista, e mi sentivo a posto. Ero proprio dalla parte giusta, andavo a messa, non mi scalfiva nessun dubbio. Di là c'era la parte sbagliata, di qua quella giusta. Il mondo era questo. Quando questa visione si incrinò cominciò il vero processo di attuazione della Carta costituzionale. Lo scenario era quello. 

 


3. L'uccisione di Aldo Moro interruppe quel processo. Perdonatemi, ma questa è una mia fissazione o forzatura: mi sgridano sempre quando la dico ma io continuo a dirla perché la penso. 

Come abbiamo appena visto, le forze della reazione sono sempre stati presenti nella vita del nostro paese, non hanno mai accettato la Costituzione, non hanno mai accettato la forma repubblicana, l’hanno contestata in maniera esplicita in Parlamento attraverso la presenza di partiti politici neofascisti, hanno corrotto pezzi dello Stato (quelli che si sono lasciati corrompere e sono diventati complici) per frenare/impedire che il progetto della Costituzione si realizzasse nel paese. Ci hanno provato anche con le stragi. E alla fine ci sono riusciti. Le Brigate Rosse ne sono state strumento, non importa se consapevole o inconsapevole, anche non consentendo le rivelazioni di Aldo Moro. Per questo io ritengo che, senza la collaborazione esplicita o implicita con quei poteri occulti che hanno sempre lavorato contro la democrazia nel nostro paese, le Brigate Rosse non avrebbero ottenuto il risultato che hanno ottenuto. Molti ex brigatisti si arrabbiano quando lo dico. Moretti l'ha detto una volta in televisione in maniera molto chiara: «Voi non accettate che un gruppo come il nostro sia stato in grado di mettere in crisi lo Stato». Io gli lascio la presunzione di capacità di aver messo in crisi lo Stato e resto della mia convinzione che si trattò di una operazione più ampia. Nessuno di noi dimentica le parole di Kissinger rivolte a Moro: «Vuole andare avanti, si ricordi che la pagherà». E perché deve pagarla? Perché quello italiano è l'unico caso nel quale esiste un partito comunista che prende il 30% dei voti, che si afferma grazie alla sua base popolare, che non può essere ignorato tanto che, nel suo ultimo discorso alla Democrazia cristiana, Aldo Moro disse, giustamente, che il destino del paese non era più solo nelle mani della DC e che, se si voleva far uscire il paese dai ritardi storici che lo caratterizzavano, bisognava decidersi a collaborare con esso. Perché Moro era ben consapevole del permanere della presenza frenante del fascismo e di chi accettava la sua collaborazione, di chi, in nome dell'anticomunismo, ha consentito persino alla mafia di vivere e prosperare. È inutile che lo neghiamo. Questa è una storia della quale dovremmo essere sempre più consapevoli. Moro ne era ben consapevole, ottenne praticamente l'unanimità del gruppo e avviò il governo di solidarietà nazionale. Ma in quello stesso giorno venne rapito. 

Con la morte di Moro il processo di rinnovamento del paese si interrompe. Si interrompe perché Berlinguer rimane solo, solo dentro il suo partito. Craxi è un suo avversario, il frontismo è ormai superato. Un mese dopo l'uccisione di Piersanti Mattarella per mano della mafia e del terrorismo nero e alla vigilia dell'uccisione di Vittorio Bachelet, la DC approva il preambolo di Donat-Cattin nel quale si dice “mai più con i comunisti”. Questa è la storia. Io avevo simpatia per Donat-Cattin, per la sua capacità di ribellarsi al sistema. Ma dopo il preambolo mi sono staccata da lui, perché quelli erano gli anni nei quali, da giovani cattolici, cominciavamo a guardare alla possibilità che la DC ritrovasse le sue origini. 

A proposito, siccome in questi giorni qualcuno ha scritto un libro in cui sostiene la continuità tra De Gasperi e la Meloni, vorrei ricordare che la grande abilità degasperiana e morotea è stata quella di riuscire a prendere i voti della destra, ma al di là di qualche interruzione che Revelli ci ha ben ricordato, quei voti sono stati usati per fare le riforme, non per bloccare il paese, per attuare la Costituzione, non per stravolgerla, per rispettare la divisione dei poteri, non per creare il conflitto tra le istituzioni. C'è una bella differenza.

 


4. Questa è la storia di quella che noi chiamiamo la Prima Repubblica. 

Ma l’interruzione del processo riformatore crea il terreno per quello che accade dopo. Io penso che, nel fare la storia della fine della Prima Repubblica, non possiamo prescindere dalla fine della Democrazia Cristiana, che, seppure nel suo rapporto con il partito comunista e con le opposizioni, è stata l'ossatura della vita dei primi anni della Repubblica. Dopo l’uccisione di Moro la stragrande maggioranza della Democrazia cristiana accoglie con entusiasmo la prospettiva di continuare a governare accordandosi con Craxi. E la solitudine di Berlinguer fa sì che il Partito comunista rinunci ad esercitare il ruolo che sarebbe stato fondamentale per impedire i governi del pentapartito, quelli che caratterizzano gli anni ’80, anni nei quali il filo della storia si è in qualche modo riavvolto. Certo sono gli anni nei quali si inizia a stare economicamente bene (tanto bene che si incomincia a creare il grande debito pubblico che ancora ci portiamo dietro e che è il capestro sul futuro del paese…) ma sono anche quelli nei quali si dimentica la guerra e si pensa di aver vinto contro il terrorismo. Sono gli anni del vitalismo interpretato da Bettino Craxi, che, secondo me, è stato – lo dico posto che qui parliamo di democrazie e autoritarismi – il primo populista del nostro paese. Non so se, dicendolo, gli do una medaglia troppo importante o ne offendo la memoria, ma sono assolutamente convinta che inizi con Craxi la rottura che segnerà il passaggio tra le due fasi storiche che stiamo esaminando perché è allora che le leadership incominciano a contare più delle comunità politiche. 

Il paradosso è che la politica costa sempre di più e, parallelamente, conta sempre di meno nella dinamica del paese. Sono gli anni nei quali incomincia a rompersi il rapporto di fiducia tra i cittadini e la rappresentanza politica e in cui i seggi parlamentari vengono considerati “poltrone”. Le conosciamo bene queste forme di populismo che hanno avvelenato gli ultimi anni della nostra storia: sembravano la salvezza e sono state, invece, una delle malattie più gravi che hanno attentato anche all'equilibrio tra istituzioni e cittadini. Incomincia in quegli anni, anche perché, dopo l'illusione che tutti si stia bene, si affaccia la crisi di quello che io chiamo il rapporto virtuoso tra democrazia e capitalismo. La nostra democrazia ha cominciato a scricchiolare quando non è stata più capace di assicurare un certo grado di benessere crescente come accaduto dalla fine della Seconda guerra mondiale fino all'inizio degli anni ’80. I primi ticket sanitari sono di  quegli anni. Dopo la grande svolta del Servizio sanitario nazionale, nella seconda metà degli anni ’80, si incominciano a introdurre i ticket ed è un momento di rottura nel rapporto con i cittadini. E li si introducono  non perché il Servizio sanitario nazionale non funzioni o perché non ci siano le risorse economiche per sostenerlo, ma perché si è persa la capacità della politica di guidare il processo capitalistico. 

Gli anni ’80 sono gli anni del liberismo thatcheriano e reaganiano in America e dell'inizio del cedimento della sinistra nei confronti di quel liberismo, che, se gestito dagli altri è cattivo, ma, gestito da noi, diventa buono. Questo è stato il grande inganno di quegli anni e, poi, di quelli successivi. Guai a dimenticare questo aspetto, questa rottura profonda che è uno dei motivi per cui le nostre democrazie sono entrate e sono in crisi. Le spinte populistiche di oggi sono in larga parte il ritorno alle nostalgie della destra, ma in misura altrettanto grande derivano dal fatto che con uno stipendio di chi costruisce le auto, l’auto non ce la si compra più (nonostante l'offerta di Stellantis delle Maserati ai propri operai...). Gli articoli 41 e 42 della nostra Costituzione prevedono la necessaria utilità sociale dell’iniziativa economica e la funzione sociale della proprietà privata: non a caso Berlusconi disse che era una Costituzione sovietica. Perché questa previsione? Perché – come ebbe a dire Moro rispondendo a Lucifero – la nostra è una Costituzione antifascista che vuole superare le distorsioni dello Stato liberale. In essa Stato non è solo “il guardiano notturno” ma è impegnato a rimuovere le disuguaglianze e le ingiustizie. Quando la politica non lo fa più, quando non si dà più gli strumenti per farlo, si rompe il rapporto con i cittadini. E questo è accaduto. È iniziato negli anni ’80 e non è stato più recuperabile, aprendo la strada a tutto quel che è venuto dopo. 

 


5. A determinare la fine della Prima Repubblica hanno, poi, concorso altri tre fattori: Tangentopoli, il crollo del muro di Berlino e la legge elettorale diventata, da proporzionale che era, maggioritaria. 

Comincio da Tangentopoli. Io sono accusata di essere stata, durante quegli anni, un’alleata dei magistrati. Questo perché, allora, ho chiesto ai dirigenti del mio partito, della Democrazia cristiana, che venivano raggiunti da avvisi di garanzia per corruzione di astenersi dal partecipare alla vita del partito. Mi è stato contestato di aver consentito così ai magistrati di ingerirsi nella vita della politica. Ho sempre risposto che se la politica fosse stata in grado di giudicare se stessa e di chiedere a se stessa più etica e più morale, probabilmente la magistratura non avrebbe svolto il lavoro che ha dovuto svolgere. Da allora, tutte le volte che si ripropone questo tema, chi chiede alla politica di fare il proprio mestiere e di giudicare se stessa viene definito un giustizialista. Io, che mi ritengo garantista, respingo l’accusa al mittente. Ma, a parte questo, una cosa è certa, almeno nei casi che conosco: condannati o patteggiati, qualcosa che non funzionava c'era. Dunque l’intervento giudiziario era doveroso, anche se, a volte, qualche magistrato ha ignorato le garanzie e si è comportato da poliziotto più che da magistrato... Il fatto è che, con quei processi, si è cancellata una classe dirigente politica. La capitolazione è stata solo da una parte perché gli imprenditori inquisiti e condannati in quegli anni continuano, oggi, a vincere gli appalti (e qualche volta a finire in tribunale). Ma la classe politica è stata travolta. Così si è chiusa una stagione. E la ragione principale è stata che quella classe politica non ha avuto la capacità di emettere un giudizio su se stessa. 

La seconda causa della crisi è stata il crollo del muro di Berlino. La Democrazia cristiana e tutti i partiti che in qualche modo erano stati interpretati come diga contro il comunismo perdono ampi settori del proprio elettorato, che si sentono liberi anche dal giogo democristiano, in precedenza accettato prevalentemente in funzione anticomunista. Quando il comunismo non c'è più, paradossalmente non vince la Democrazia cristiana ma riemergono i consensi per quella politica liberale di destra e anche filofascista che c'è sempre stata paese e che, anche se oggi fa la vittima, lo ha sempre condizionato. 

Infine la legge elettorale. Nel momento in cui dal sistema proporzionale si passa a una legge maggioritaria il paese torna indietro. Ci si illudeva che la divisione fosse ancora tra la DC (che aveva ritrovato una sua forza) e il Partito comunista. Invece ha vinto Berlusconi ponendosi in continuità col craxismo in termini personali e culturali prima ancora che politici. Con tutto ciò che Silvio Berlusconi ha rappresentato e con cui questo paese non ha ancora fatto completamente i conti. Si è capito tardi che quella vittoria significava una rottura totale con la Prima Repubblica per il semplice fatto che i nuovi vincitori non avevano contribuito a scrivere la Costituzione, non si riconoscevano in essa e della Prima Repubblica non avevano mai fatto parte. Il paradosso ancora più grande è che dopo Tangentopoli, dopo lo stragismo, dopo il terrorismo, dopo le stragi mafiose del ’92 e del ’93, l’Italia è stata guidata da un'esponente politico che in qualche modo rappresentava la continuità con le parti più oscure della Prima Repubblica. 

Intanto, con la caduta del muro di Berlino, anziché seguire il Trattato di Helsinki e il multipolarismo del mondo lì individuato, è iniziata una nuova Guerra fredda sfociata poi nella guerra combattuta in Ucraina (allo scoppiare della quale la prima cosa che ho pensato è stata: «Perché abbiamo abbandonato Gorbaciov nel suo tentativo di rendere finalmente democratica la Russia?»). L’Occidente non ha fatto nulla per favorire la democratizzazione della Russia ed è rimasto sepolto sotto le macerie del muro di Berlino. Questa è stata la contraddizione di quel momento che, naturalmente, ha accompagnato anche i cambiamenti profondi nella vita del nostro paese. Mentre la Germania si è riunificata, in Italia c'è stato uno sconquasso generale del sistema politico. 

Questo è accaduto. E oggi siamo qui a cercare di riannodare il filo della storia nella maniera giusta (perché lo si può fare ancora) e di non cadere nella degenerazione iniziata negli anni ’80 e di cui vediamo oggi gli sviluppi, con il Paese riportato indietro e nelle condizioni di non saper rispondere alle grandi sfide del futuro, a cominciare dalle migrazioni. È la conseguenza dell’abbandono dei valori che la Costituzione ci ha consegnato.

[*]

Trascrizione, non rivista dall’autrice, dell'intervento pronunciato in occasione della quarta edizione del festival Parole di Giustizia, dedicato quest'anno a Democrazia e autoritarismi (Urbino/Pesaro, 18−20 ottobre 2024)

20/01/2025
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