Io mi associo alla ricostruzione fatta da Davide Conti per quanto riguarda quello che è stata l'effettiva, scioccante continuità di un apparato che non solo non si è riciclato ma non ha nemmeno fatto la fatica di togliersi la giacca in uno dei passaggi fondamentali del nostro cambio di regime, da regime a democrazia, e osservavo mentre Dottor Conti parlava lo stupore di alcuni per quelle che sono le vicende de particulare raccontate in questa sede. E in realtà la domanda da storico della mentalità che vi pongo è per quale motivo dovremmo stupirci di questa continuità, per quale motivo questa continuità in realtà stupisce molto più noi che una parte consistente di quella che potremmo chiamare in luce l'opinione pubblica degli anni 40 e 50. Una parte di noi in maniera anche abbastanza brutale si chiede ma per quale motivo non c'è stata quella che potremmo definire una ribellione nei confronti di questo status quo, se è vero come è vero che la Resistenza è stato un atto di rottura e che quindi l'opinione pubblica democratica avrebbe dovuto essere ben altro rispetto all'opinione pubblica del consenso, per citare de Felice ed altri soprattutto Collotti da questo punto di vista riguardo quello che è stato il regime fascista. Io in realtà la domanda ve la giro: per quale motivo un popolo di 40 milioni di abitanti avrebbe dovuto cambiare quello che è stato il corso reale della storia?
E quindi entrando in quello che è nello specifico il mio campo di ricerca cercherò di spiegarvi per quale motivo da un certo punto di vista quanto raccontato dal Dottor Conti sia inevitabile all'interno dello spettro sociale dell'Italia di quel tempo, facendo un piccolo passo indietro. Non dobbiamo dimenticare che cosa è stato il fascismo. Il fascismo italiano è stato il primo grande esperimento di ingegneria sociale del Novecento che ha fruito della potenza, della forza di uno stato di carattere moderno qual era quello dell'Italia liberale degli anni 20 per coercire nel lasso di vent'anni - stiamo parlando di due generazioni circa - milioni di persone, milioni di italiane e di italiani facendolo in ogni modo, facendolo in maniera totale come disse giustamente Giovanni Amendola “in maniera totalitaria”.
Ecco, possiamo discutere se ci sia riuscito o meno però dobbiamo partire da questo presupposto. L'Italia è stata un enorme laboratorio di futuro negli anni 20 del Novecento e pare tra l'altro - mi permetta Dottor Giannelli - che continui ad esserlo o possa diventarlo ancora oggi. Ma veniamo a un caso che mi riesce semplice per spiegare qual è il tema e il problema che dobbiamo affrontare riguardo la storia e la memoria del fascismo e veniamo proprio- grazie Dottor Giannelli per averlo citato- dall’esempio tedesco che è un esempio di storia comparativa che può essere molto calzante. Le due dittature sembrano molto simili, vengono stesse equiparate con delle differenze di carattere analitico e semantico però diciamo che offrono un bello specchio. Perché non c'è stato un processo di Roma come Norimberga si è chiesto retoricamente Davide prima. Vediamo innanzitutto di parlare di quelle che sono le ipotesi di partenza. Nella Germania dell'8 maggio del 1945 quando Karl Dönitz ridotto nell'Holstein firma la resa incondizionata del Terzo Reich abbiamo ancora circa un milione e mezzo di soldati della Wermacht che combattono per la resistenza nazista nei confronti degli ordini altri del blocco degli alleati delle Nazioni antifasciste. Stiamo parlando 8 maggio di circa una settimana dopo il fatto che lo stesso Hitler si sia tirato una palla in testa. Quando arriva l'ordine di capitolazione generale abbiamo circa 70 milioni di tedeschi dentro e fuori i confini storici di quello che allora era il Terzo Reich che devono ripensarsi per decenni quel racconto memoriale - viene definito con un'espressione molto chiarificante e potente come Stunde Null, l'ora zero da cui ripartire.
Nel mentre in Italia dalla fine del cosiddetto fascismo regime, sempre per utilizzare le categorie solide di Renzo De Felice, cioè dal 25 luglio del 1943 fino al 25 Aprile del 1945 che noi giustamente chiamiamo - fino a quando arriva qualche circolare ministeriale – “Liberazione” abbiamo una ventina di mesi contati male in cui letteralmente il racconto pubblico italiano viene abbandonato a se stesso. Dal 9 maggio 1945 il destino della Germania totalmente occupata è quello di ricostruire se stessa attraverso un mandato, quello degli alleati. Nascerà il concetto di memoria della colpa, nasceranno due entità, la Germania federale che si farà carico anche economicamente dell'eredità della colpa del Terzo Reich, la dottrina Adenauer - sì siamo stati noi quindi sì a Norimberga c'è anche il popolo tedesco - la Germania est, la DDR sappiamo che avrà una parabola diversa perché nella lettura diciamo sovietica di quella che è la grande lotta di liberazione dal nazifascismo i tedeschi dell'est sono liberati dalla punta di lancia delle letture capitaliste - e qui torna la lettura gramsciana appunto, la componente gramsciana. Ma comunque in Germania c'è una memoria per altri che viene strutturata e che viene messa pubblicamente e faccialmente come esempio di costruzione sociale, un racconto pubblico detto molto velocemente. Un racconto pubblico ampiamente imperfetto nel senso che c'è una enorme capacità di resilienza da parte dei quadri del Terzo Reich, i quali rimangono fermamente, non solo in Germania federale ma anche nella DDR, in posti anche apicali della gestione dello Stato, ma che sicuramente a livello di racconto pubblico rende per esempio impossibile l'idea che oggi la seconda carica dello Stato nella Repubblica federale di Germania - pur con tutti i problemi di memoria che hanno - abbia - lo dico - un busto di Hitler sulla scrivania. Cosa è andato storto?, mi verrebbe da chiedere… Dicevo, dal 25 luglio 1943 al 25 Aprile 1945 noi in Italia abbiamo invece una piena, insperata e strana libertà di racconto pubblico in Italia e possiamo contare a livello di racconto e propaganda pubblica almeno tre Italie che tentano di riscrivere la propria storia. Abbiamo l'Italia evidentemente antifascista che racconta se stessa in opposizione all'ultimo ventennio e che vuole essere tutto tranne quello che è stata l'Italia fino a questi ultimi vent'anni, quindi un rigetto del racconto dal 1922 al 1943: è l'Italia dei partigiani. Abbiamo un’Italia fascista che racconta se stessa attraverso ideali che uscivano sempre più a destra: l'ideale della fedeltà alla parola data, il terrore del tradimento del '15 che si riverbera nel terribile patto di sangue del 43-45, quindi d'Italia degli occupanti, l'Italia della fedeltà fino alla morte, l'Italia mussoliniana della Repubblica minus minor, Italia repubblichina e non repubblicana, che paradossalmente anch'essa nega un apporto diretto nei confronti del ventennio passato. È Mussolini stesso in uno dei suoi discorsi di Verona ad ammettere fra i denti: «il governo ha fatto male alla rivoluzione fascista», e sono i fascisti del '43, i nazi-fascisti in questa strana costruzione a suffissi che è un peggiorativo in qualche modo del ventennio ed è la stessa Italia nazifascista di finire se stessa più "sansepolcrista", cioè il movimentismo delle origini, del '19.
Queste due Italie cubano, sempre partendo dall'onnipresente, nella storiografia italiana, Renzo De Felice, circa 5 milioni di abitanti, quattro milioni e mezzo: due milioni a favore - contati male - della Resistenza dei partigiani, quindi i partigiani in sé ma anche le famiglie dei partigiani, chi aiuta, chi non ostacola, l'azione partigiana; e dall'altra parte - dice De Felice - due milioni e mezzo tra ragazzi di Salò - chiamiamoli così perché va di moda - e famiglie, ecc., che aiuta i vari Graziani e così via… Quattro milioni e mezzo di persone/cinque, il che significa - come ha detto recentemente in maniera piuttosto ruvida un grande storico come Giovanni de Luna - il che significa che statistica alla mano abbiamo circa 39 milioni di persone in Italia che dal '43 al '45 stanno ferme perché “ha da passa' a nuttata”.
Eppure, anche loro hanno un racconto pubblico che indovinate un po’ alla fine sarà vincente. È il racconto pubblico della terza Italia, quella che di solito ci perdiamo per strada perché diciamo - in particolar modo gli storici e storiche notano più l'azione che il fattore inerziale - è la terza Italia, l'Italia di Brindisi che vuole una continuità al proprio interno dopo che l'8 settembre il re con una parte consistente del governo se ne scappa appunto in una zona libera o meglio non occupata né nord né da sud. È un’Italia che può vantare letture pubbliche forti e pesanti di ricostruzione di sé, è l'Italia crociana. L'Italia dell'idea del fascismo malattia, l'Italia della venuta degli Hyksos come la chiamò in un'incredibile, per l'epoca, racconto e intervento all’Assemblea costituente dello stesso Benedetto Croce. Benedetto Croce fa questo discorso che sarà la base della ricostruzione morale del Paese. Dice: "i fascisti sono gli Hyksos". Lo ricordo, gli Hyksos sono i cosiddetti popoli del mare che arrivano ad un certo punto della storia delle dinastie faraoniche, stanno 200 o 300 anni, governano il vicino Oriente, come si chiamava una volta, e poi se ne vanno senza lasciare traccia e le dinastie faraoniche vanno avanti fino ad Antonio e Cleopatra. Ecco, Croce dice il fascismo è una malattia, un vulnus che arriva all'interno delle "fantastiche sorti e progressive" della Patria, interrompendo l'esperienza risorgimentale. Per un ventennio, abbiamo avuto questo racconto pubblico, politico, che non è parte dell'integrità italiana, una febbre, una malattia che è stata curata con la febbre della Resistenza. La febbre della Resistenza ha spazzato via gli Hyksos, i fascisti. Possiamo ricominciare tranquillamente come se non fosse accaduto nulla dal '22 in poi. È un comodo racconto che ha - lo vedete immediatamente - dei vantaggi rispetto ad altri racconti. Prima si citavano giustamente due racconti un po’ più complessi di quello che è stato il fascismo: quello gramsciano, che mette sotto accusa le élites di potere e che paradossalmente - devo dire - mi convince molto più di altre letture ad oggi stante le fonti documentarie; e la lettura amarognola del fascismo come autobiografia della nazione perché gli italiani e le italiane hanno un cattivo rapporto con il potere - mettiamola così - cioè la lettura gobettiana. La visione crociana, rispetto a quella di Gobetti e Gramsci, è molto più comoda perché passivizza il racconto pubblico. Essa non punta il dito, ma accusa il fattore esterno che tolto di mezzo ci può permettere di evitare di porci la domanda delle domande che sarebbe stato complesso porsi nel '45, ma che è una sola: chi è stato fascista in Italia dal 1919 in poi?
È una domanda enorme, se ci pensate, all'interno di un contesto totalitario proprio perché il contesto totalitario puntava a questo, a entrare in ogni singola piega del racconto degli italiani e delle italiane. Stiamo parlando di un regime che cerca di normare la sessualità delle persone per la prima volta - lo faranno altri anche in regime di semi democrazia - ma la tassa sul celibato è un tentativo di costruzione ideologica del contesto familiare e ne potrei fare molte altre. E quindi la domanda “chi era fascista?” manca la possibilità di dare un piede concreto un - chiamiamolo così - un punto di equilibrio: chi stabilisce la struttura di chi era fascista e chi no? È fascista chi aveva la tessera del partito? Beh allora stiamo parlando di circa quattro milioni di persone, praticamente tutta la funzione pubblica come è stato ricordato, complesso.
Erano fascisti i professori universitari che giurano nel '31? Allora in questo caso abbiamo avuto almeno due presidenti della Repubblica fascisti, perché hanno avuto una brillantissima e meritata carriera accademica. Sto parlando di Einaudi e di Leone per esempio. Chi giurava? È fascista l'insegnante che per vent'anni va avanti a libro e moschetto fascista perfetto e che continuerà a farlo fino agli anni '60 - perché ricordiamoci l’inerzialità. Si citava giustamente la formazione fascista di gente che agisce nella Repubblica, non sono solo gli alti gangli dello Stato ma anche una buona parte di quella che è per esempio l'istruzione pubblica. È fascista il postino che è l'ultima ruota dell'enorme ingranaggio totalitario che per vent'anni ha gestito e ha fatto funzionare la macchina dello Stato e chiaramente sovrastante l’individuo. Domanda troppo complessa… una domanda troppo complessa che gli italiani evitano di farsi e nessuno - o meglio non è vero - e pochi, pochissimi alzano lai per porre la questione a livello pubblico. Lo fa per esempio il partito degli antifascisti duri e puri, il partito d'azione di Ferruccio Parri che è responsabile dell'attivazione della commissione di epurazione e di defascistizzazione che era prevista già nel l'armistizio breve, cosiddetto di Cassibile del settembre 43. Ma sappiamo come va a finire quella commissione che viene avvocata Presidenza del consiglio in carica a De Gasperi e poi viene persa. Ecco, per esempio, le elezioni del 1946 sono delle elezioni referendarie da molti punti di vista. Non c'è solo la Repubblica e la monarchia, non c'è solo l'elezione dell'Assemblea costituente ma c'è anche l'elezione di un corpo politico che deciderà la ricostruzione dell'essere popolo e società e nei comizi elettorali i membri del partito d'azione lo dicono chiaramente: si sta costruendo sotto il velo della pacificazione nazionale un'idea di non luogo a procedere per il fascismo del proprio complesso. E i partiti del blocco della pacificazione nazionale, che - ricordiamo - sono la Democrazia Cristiana, le anime dei socialisti e anche il Partito Comunista Italiano, affrontano il tema nel giugno del '46 dicendo che l'Italia ha bisogno di pace, con sullo sfondo l'idea giustamente eterodiretta di far parte di un blocco da cui non si può uscire.
L'esperienza greca in quel momento stava dimostrando che volenti o nolenti si era da una parte della barricata, questo lo sapevano tutti in primis i comunisti. E come va a finire quelle elezione? Il 2 giugno del 46 si vota anche per questo tipo di racconto rappresentanza ideale e dobbiamo ricordare che i partiti del blocco della pacificazione nazionale prendono insieme l'85% dei voti elettorali mentre il Partito d'Azione che è stato uno dei grandi afflati di racconto e di struttura dell’esperienza resistenziale prende l'1,4% e poi andrà a disperdersi nelle varie anime socialismo democratico, come sappiamo. Quindi gli italiani scelgono quale via intraprendere e non vuole essere una via bellicista e una via di trasfer, chiamiamolo così. In più dobbiamo aggiungere che se non c'è analisi interna non c'è nemmeno coercizione esterna come c'è stata in Germania, assolutamente. Perché andare a colpire brutalmente - pensano gli anglo americani - una macchina che sostanzialmente si è rivelata fedele e che sostanzialmente continua a funzionare all'interno della fine di una guerra calda certo ma soprattutto dell'inizio di una guerra fredda come era quella col blocco dell'est, perché andare a minare con dubbi processi, con richiesta di estradizione una struttura come quella dello Stato italiano che sembra reggere di fronte alle nuove sfide della guerra fredda. La Germania dopo la fine della Seconda guerra mondiale rimane occupata nominalmente fino al 1955 ma noi sappiamo che andrà più avanti e quando si chiede una prima rappresentanza ai tedeschi nel '49 - i tedeschi non votano fino al '49 per il proprio destino - quando ci sono le prime elezioni per il Bundestag sappiamo che avviene una frattura perché i Länder dell'est non votano, sono costretti a non votare e nascono due germanie diverse mentre in Italia le elezioni si svolgono molto prima e la normalizzazione sotto un nuovo cappello riesce a strutturarsi prima. Questo fa sì che ci sia necessità di un nuovo modo di intendere il fascismo che va edulcorato, che va staccato assolutamente dal racconto nazista e in questa cosa collaborano tutti. Collabora ovviamente una società civile che ha intenzione di lasciarsi alle spalle senza farsi troppe domande quello che era il proprio passato. Collabora un establishment che con molto piacere non va a rovistare nel proprio passato perché è difficile in vent'anni dire chi è rimasto duro e puro se non quelli finiti al confino e anche sul piano internazionale questa cosa funziona e viene creduta.
Faccio due esempi da storico della mentalità che vi possono dare un'idea di quello che significhi sovrapporre il racconto pubblico all'esperienza personale.
Nel 1945 Rossellini gira Roma Città Aperta, un film che in buona parte racconta di una città che è ancora letteralmente sotto occupazione, Rossellini che crea e alimenta il movimento neorealista in quel momento è il padre di un nuovo tipo di racconto, un racconto potentissimo perché ci sono molti più cinema nelle case del popolo e negli oratori italiani negli anni 40 e 50 che non in librerie o biblioteche per ovvi motivi e ancora oggi è così. Ecco Rossellini per esempio dalle linee guida della rilettura di quel tipo di fascismo - e abbiamo dei personaggi iconici pennellati come solo Walt Disney sapeva fare. Ecco, Rossellini fa la stessa cosa. Costruisce, per esempio, il tedesco come il cattivo dei cattivi e questa immagine del tedesco occupante, efferato, quasi una macchina da guerra sopravviverà nel racconto pubblico perché il neorealismo piano fa scuola anche in quella grande macchina dei sogni che Hollywood, resisterà almeno fino agli anni '90 quando ai tedeschi si sostituiranno i nuovi nemici del racconto pubblico dell’America, vale a dire i musulmani. Però se negli anni '60 guardando Orizzonti di gloria vedevate uno biondo con la divisa capivate immediatamente che era cattivo. Rossellini racconta anche i fascisti che sono un po’ come le iene del Re Leone, sono infidi. Sono addirittura degni di minor rispetto al confronto dei nazisti perché non hanno nemmeno la dignità della propria cattiveria, sono infimi, sono traditori. Le immagini del fascista traditore rimarranno solo i racconti resistenziali ma poi per lungo tempo. E poi Rossellini ha il colpo di genio da blockbuster chiamiamolo così: si inventa un eroe che possa essere al contempo italiano antifascista o, meglio, a-fascista e non a caso lo va a prendere sfruttando una delle grandi caratteristiche del fascismo che è il proprio machismo. Infatti, il buono in Roma Città Aperta è una donna che in quanto donna e automaticamente dispensata dal presentare patenti di antifascismo, perché il fascismo aveva escluso le donne da questo racconto ed è un eroe, anzi un'eroina, prepolitica, la quale muore per dei valori che non sono quelli dell'alto partigianato. Muore per qualcosa di più basso o, meglio, di qualcosa di più emotivo e cioè la difesa della famiglia, la difesa del concetto di clan, una lettura molto potente che darà a voce negli anni 50 e 60 ad una certa sociologia anche un po’ razzista anglosassone al mito del familismo amorale degli italiani, cioè l'idea che gli italiani tra lo Stato e la propria famiglia avrebbero sempre comunque scelto la propria famiglia.
Poi Rossellini è anche un genio della politica, ben si ricorda di aver fatto, prima di Roma Città Aperta, una serie di documentari, per esempio, sui sommergibilisti che felicemente affondavano le navi di sua maestà nel porto d’Alessandria e quindi nel '45 ci mette il carico da 90 con la figura della Resistenza bianca: un uomo che è devirilizzato, Aldo Fabrizi, che in quanto prete parla della possibilità di combattere il fascismo senza usare lo Sten.
Mi fermo perché poi altrimenti dovrei essere placcato. Dovrei parlarvi di Mediterraneo che nel 1991, a sessant'anni di distanza, continua a raccontarci, senza che nessuno dica nulla anzi vincendo un Oscar, che noi continuiamo ad essere "italiani brava gente".
Testo dell'intervento pronunciato in occasione della quarta edizione del festival Parole di Giustizia, dedicato quest'anno a Democrazia e autoritarismi (Urbino/Pesaro, 18−20 ottobre 2024)