Alla fine, mi torna sempre in mente il vecchio Vittorio Foa.
Al suo “primo giorno di scuola” in Senato nel 1987. Nel giugno di quell’anno, Foa era stato eletto senatore della sinistra indipendente dopo una vita di battaglie nelle fila della sinistra non marxista: l’organizzazione, a Torino, di Giustizia e Libertà fondata a Parigi nel 1929 da Carlo Rosselli; la condanna del Tribunale speciale (nel 1935) a quindici anni di galera (scontati fino al 25 luglio 1943); la Resistenza; e poi, dirigente socialista e sindacale; deputato del PSI per tre Legislature; fondatore del Psiup; maestro di tanti giovani degli anni ’70, a cui non si stancava di insegnare che la Storia è sempre feconda se la si legge pensando al presente e guardando al futuro ma che il passato può essere pericoloso quando di esso si rimane prigionieri. Tornando in Parlamento nel 1987 con quel passato alle spalle, il primo giorno di convocazione del Senato incontra, in un corridoio, Giorgio Pisanò, ex combattente della Repubblica sociale e poi indomito militante missino. Pisanò gli va incontro dicendogli: «Caro Foa, dopo tanti anni di battaglie su fronti opposti, ci troviamo qui in Senato, a servire lo Stato pur con le nostre diverse idee. Possiamo stringerci la mano?». E Foa: «Certo, possiamo stringercela. L’importante è ricordarci che lei è qui, in Parlamento, grazie alla Costituzione; e la Costituzione c’è perché abbiamo vinto noi. Se aveste vinto voi, io sarei rimasto in galera e lì sarei morto».
Ecco. Quando spesso mi sento chiedere, da giovani e meno giovani, il senso della festa del 25 aprile (“Ma davvero, nell’Italia di oggi, ha senso soffermarsi ancora su quanto è accaduto 80 anni fa? Non c’è il rischio di sclerotizzare la nostra discussione e le nostre divisioni secondo parametri ormai superati?”), l’apologo di Vittorio Foa mi pare la risposta più convincente. Definitiva.
Sempre di più penso alla generazione dei nostri genitori e al baratro che fu per loro l’8 settembre ’43. A quella generazione di giovani uomini e donne che, cresciuti nel ventennio fascista, si trovarono ad incrociare i loro destini personali con la “morte della Patria”. La storia di ciascuno di loro è una storia unica. Potevano essere stati sbandati, catturati, ribelli e fuggitivi sulle montagne tra l’Italia e la Francia. O essere reduci dalla campagna di Russia. O esser fatti prigionieri dei tedeschi subito dopo l’8 settembre, portati in un campo di concentramento e costretti a lavorare in acciaieria, rifiutandosi di guadagnare la libertà col giuramento alla Repubblica sociale. O trovarsi militari in Grecia e lì diventare prigionieri di guerra degli Inglesi. O trovarsi, in quel settembre, nella propria terra madre e, come il partigiano Johnny, decidere di partire «verso le somme colline … sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana», investito, «in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente». Qualunque fosse il percorso attraverso cui quei giovani erano giunti all’8 settembre, una cosa li accomunava: abituati per vent’anni ad obbedire sempre, si ritrovarono, improvvisamente, abbandonati senza ordini, vittime ma anche incredibilmente padroni del proprio destino. Quel destino dovettero afferrarlo per i capelli. E qualunque sia stata la loro scelta, qualunque sarebbe poi stata la loro vita e il diverso impegno nella vita civile, quella data dell’8 settembre e i venti mesi che seguirono segnarono, indelebilmente, il loro profilo, il loro sguardo sul mondo, il loro odio per tutte le guerre, la loro diffidenza verso i fanatismi. Quella cesura storica fu il vero marchio di un’intera generazione. Spesso le scelte fatte in quei mesi furono frutto di casualità. Anche per questo abbiamo rispetto e pietas per tutti i morti; anche di chi, per convinzione sincera e più spesso per costrizione, si trovò a militare nelle fila della Repubblica sociale italiana. Ma questo rispetto non ci fa dimenticare che, dopo l’8 settembre 1943, c’era una sola parte giusta: quella dei Resistenti.
Foa lo ricordava con una battuta. Che sottintende una semplice domanda: come sarebbero state le nostre vite se nel 1940, dopo Parigi, anche l’Inghilterra fosse crollata; se non ci fosse stata la battaglia di Stalingrado; se nel 1945, anziché l’Europa di Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak e Spinelli avessimo avuto un continente dominato da Hitler dall’Atlantico agli Urali?
Come ebbe a scrivere Arturo Carlo Jemolo, la vittoria dei tedeschi non avrebbe significato semplicemente il prevalere di una potenza sull’altra, come era stato con la Grande Guerra. Con la vittoria della Germania il nazismo si sarebbe imposto come legge di vita su tutto il mondo. E quella legge non avrebbe lasciato spazi di libertà e di autonomia neppure alla famiglia e al cittadino più distanti dalla politica.
Ma noi siamo grati ai nostri padri che fecero la scelta giusta anche per un altro motivo, che non ci stancheremo mai di ripetere al sempre più diffuso senso comune secondo cui, in fin dei conti, anche senza i partigiani, forse con solo qualche settimana di ritardo, gli Alleati ci avrebbero comunque liberati. Questo è vero. Ma, se non ci fosse stata la Resistenza dei nostri padri, se non ci fosse stata la guerra per bande in montagna e la guerriglia urbana nelle grandi città e se gli internati militari italiani in Germania, per guadagnare la libertà, avessero aderito in massa alla Repubblica sociale, nell’agosto 1946, alla conferenza di Parigi, De Gasperi non si sarebbe potuto rivolgere agli altri leader europei con il celebre incipit che ancora ci commuove. Perché quando pronunciò le famose parole - «Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me» – sapeva che sarebbe stato ascoltato con rispetto, anche perché tre anni prima l’organizzazione della Resistenza contro l’occupante tedesco aveva affermato che non tutti gli Italiani stavano con l’Italia che nel giugno ’40 aveva pugnalato la Francia già in ginocchio.
Se non ci fosse stata la Resistenza, la nostra Costituzione sarebbe stata octroyée: non discussa e preparata, con tante voci dialoganti, da un’Assemblea eletta dal popolo ma redatta in sordina, essenzialmente su impulso degli Alleati, da un Consiglio parlamentare non eletto direttamente dai cittadini.
Per questo ricordiamo il 25 aprile come data fondativa della nostra nazione e dell’Europa libera.
Un importante politologo tempo fa osservava che la sinistra pretende che il 25 Aprile sia la festa di tutti ma poi la mantiene gelosamente come festa propria. Se penso a certi 25 aprile della mia giovinezza, devo ammettere che questa osservazione non è infondata. E non riguarda tanto i protagonisti della Resistenza ma piuttosto la generazione di sinistra (la mia) che negli anni Settanta riscoprì la Resistenza e a volte, davvero, se ne volle appropriare come “festa propria”. Teniamolo a mente per il futuro. Dal canto suo, la destra oggi al governo del Paese dovrebbe più spesso ricordarsi l’ammonimento di Foa a Pisanò: il 25 Aprile significa democrazia, Parlamento, diritti di libertà, tutela delle minoranze. Per questo è festa di tutti. Dimenticarlo o snobbare la Resistenza è un errore che prima o poi verrà pagato.
Il 25 aprile ci evoca un’altra cosa, che a noi è particolarmente cara: la capacità di ricostruire del dopoguerra. Quando tornarono a casa dai luoghi in cui la scelta fatta l’8 settembre li aveva portati, i nostri padri immediatamente ricostruirono. E lo fecero con la capacità di operare e di intraprendere e con l’ottimismo che probabilmente soltanto chi ha vissuto la distruzione di una guerra può avere. Anche grazie a questo loro ottimismo ci insegnarono il ripudio della guerra, che orami portavano nel loro DNA.
Davanti alle immagini di immense distruzioni che dal febbraio 2022 ci accompagnano ogni giorno, spesso siamo tornati ad una indimenticabile pagina di Stalingrado di Vasilij Grossman. E’ quella in cui il contadino-soldato Pëtr Vavilov entra in Stalingrado «uccisa, distrutta». E di fronte alle rovine che ancora trasudano il calore dell’incendio come fosse l’alito delle persone vissute fra quelle mura; di fronte alle macerie che svelano l’enorme patrimonio necessario per la ricostruzione, capisce fino in fondo la guerra e scandisce a se stesso tre parole: «Hitler è questo».
E’ partendo da quelle macerie che i nostri genitori hanno costruito il nostro benessere e difeso la nostra libertà, fondando collettivamente un’Europa che ci ha difesi da nuove guerre.
Noi, i loro figli, che siamo l’unica generazione del ‘900 che ha avuto la fortuna di non aver vissuto alcuna guerra alle proprie porte e di aver conosciuto soltanto crescita economica, ascesa sociale, ampliamento dei diritti, li abbiamo sempre ammirati. Non sempre lo abbiamo detto loro. E comunque, lo abbiamo detto troppo poco. Li abbiamo anche, a volte, fatti arrabbiare e forse soffrire, contestandoli e contrapponendoci a loro, come i figli, ad un certo punto, devono necessariamente contrastare i propri genitori, per poter crescere. Ma, alla fine, abbiamo dato loro la soddisfazione di essere fedeli ai valori che, spesso silenziosamente, ci avevano insegnato. In questo, li abbiamo onorati.
E, oggi che non ci sono più, ancora impariamo dalla loro lezione. E ci sentiamo di narrarla ancora alle generazioni che ci seguono. E di auspicare che chi vivrà i dopoguerra che verranno, chi dovrà ricostruire partendo dalle macerie di oggi, abbia la stessa capacità di non dimenticare guardando però al futuro.