Magistratura democratica
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Trasformazioni della costituzione materiale e magistratura: un manifesto

di Enrico Scoditti
presidente di sezione della Corte di Cassazione

La svolta epocale, che la riforma costituzionale introdurrà, impone una riflessione, nuova e profonda, sul presente e sul futuro della magistratura italiana. Lo scritto si propone come una sorta di manifesto sull’esercizio della giurisdizione e la funzione delle corti nell’attuale stagione del costituzionalismo e nella prospettiva, in un tempo di crisi della cittadinanza democratica, di un nuovo senso della democrazia costituzionale.

1. Argomenti per una genealogia del presente

Il 2025 potrà essere un anno di svolta epocale per la magistratura italiana, non solo per la riforma costituzionale in gestazione in Parlamento, ma anche per il referendum che potrebbe farvi seguito. L’approvazione popolare di una riforma, che vede la magistratura associata attivamente impegnata sul fronte contrario, potrebbe avere una portata simbolica ben al di là della stessa revisione costituzionale. E’ necessario fin d’ora aprire una riflessione, nuova e profonda, sulla costruzione di un futuro del quale tanto l’indipendenza della magistratura, quanto il regime della democrazia costituzionale, restino i capisaldi. Il futuro non si costruisce però senza lo sguardo da ciò da cui veniamo. Fondamentale è allora intraprendere una genealogia del presente. Partiamo dunque da qui.

Siamo eredi della tradizione europeo-continentale del costituzionalismo, secondo la quale la costituzione è in primo luogo l’indirizzo fondamentale dei poteri costituiti, sulla base di un contenuto determinato, che è quello che abbiamo ereditato dalla rivoluzione del 1789, la trasformazione della società. Il c.d. trentennio glorioso, apertosi all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, è stato improntato a questo modello costituzionale, il cui punto archimedico era l’art. 3 cpv. (il perseguimento dell’eguaglianza sostanziale) e la costruzione, attraverso di esso, dello Stato sociale. Chiave di lettura di un ordine costituzionale fondato su un indirizzo fondamentale è la costituzione in senso materiale di Costantino Mortati, che, in questo senso, è davvero da considerare come il padre del costituzionalismo italiano. La costituzione non è una mera intelaiatura formale, ma è la sostanza materiale che la anima, per Mortati la stabilizzazione di un rapporto di dominio politico (Gramsci avrebbe parlato di “egemonia”). Centrale in una costituzione intesa quale fine politico fondamentale è il partito politico, quale strumento di integrazione delle masse nello Stato. Sono stati i partiti di massa i garanti della congiunzione fra società e ordine costituzionale, i costruttori cioè di un corpo sociale politicamente strutturato e partecipe degli istituti della democrazia politica. I partiti di massa erano in grado di adempiere questo compito perché, benché esprimessero una profonda divergenza di visioni (tale da giustificare un modello di democrazia consensuale, basato sulla centralità delle assemblee elettive ed il regime elettorale proporzionale), riposavano su una concezione ontologica della politica, fondata su una inscindibile organicità di politica e scienza della società, rispettivamente il cattolicesimo sociale ed il marxismo (il che spiega la centralità della funzione intellettuale in quei partiti). Erano questa organicità di sapere e politica e la presenza di un’ontologia sociale, cui restava estranea la cultura politica liberale improntata al c.d. individualismo metodologico, che consentivano ai partiti di massa di adempiere alla funzione generale e costituzionale (art. 49 Cost.) della costruzione del modello di cittadino democratico, pienamente immesso nei circuiti della politica. Sullo sfondo vi era il Novecento, quale secolo totus politicus. La politica del Novecento non è volta all’amministrazione degli interessi, ma alla trasformazione della società. L’art. 3 cpv. della Costituzione italiana riassume il paradigma del secolo: l’inveramento pratico dell’eguaglianza, la ricomposizione di astratto e concreto auspicata dal giovane Marx. E’ dentro questo quadro che maturano le trasformazioni della magistratura e del sapere giuridico all’aprirsi della seconda metà del secolo scorso.

La costituzione, quale fine politico fondamentale, spezza la separatezza del diritto dalla cultura sociale, e la sublimazione tecnica del sapere giuridico, che l’apparizione del codice civile, al principio del XIX secolo, aveva introdotto, costruendo un ceto di giuristi e di magistrati improntati al rigoroso rispetto di quella che Max Weber avrebbe definito razionalità formale, ossia l’elaborazione dello strumento indifferente a fini e valori. La nascita di Magistratura democratica nel 1964 (e soprattutto la scissione che si determinò nel gruppo nel 1969) ed il congresso di Gardone Riviera dell’Associazione nazionale magistrati nel 1965 sono gli eventi fondativi della nuova figura del magistrato che interpreta la legge sulla base della stella polare dell’eguaglianza sostanziale. Una generazione di giovani civilisti (Rodotà, Barcellona, Lipari) apre la dogmatica giuridica alla penetrazione delle norme costituzionali quale criterio ermeneutico fondamentale. Di lì a poco, anche il bene giuridico protetto dalla norma penale verrà ancorato al valore costituzionale (Bricola). Si pongono le basi della nuova ermeneutica giuridica, non più fedele osservanza dell’enunciato linguistico, ma ricostruzione della norma a partire dalla soggettività valoriale dell’interprete, dal quale si esige l’adesione al programma costituzionale. E’ un complessivo processo di secolarizzazione della cultura giuridica che si compie, una volta che siano state demitizzate le astrazioni del concettualismo. Quel processo aveva il vento della storia dalla sua parte perché la Costituzione, nei primi decenni della sua entrata in campo, chiedeva di essere attuata ed attuarla, nel contesto della fase storico-politica europea, voleva dire espandere l’eguaglianza sostanziale. Lo Statuto dei lavoratori e il nuovo processo del lavoro furono una tappa decisiva di questo percorso. Le società europee si riprendevano dal collasso bellico e conoscevano così una lunga stagione di progresso politico e sociale.  

Il progresso non è però una direttrice della storia che proceda per «magnifiche sorti e progressive», è una curvatura complessa, la quale, se non compresa nelle sue diverse possibilità di sviluppo e non sottoposta a governo, può radicalizzarsi in direzioni che acquistano un senso diverso rispetto alle premesse di partenza. E’ in questa chiave che bisogna guardare all’evoluzione ulteriore di ciò che, un tempo, si sarebbe chiamata “esperienza giuridica”.

 

2. L’irruzione dei principi costituzionali e la cultura giuridica

C’è uno spartiacque nella cultura giuridica, in particolare tedesca ed italiana, che segna una vera e propria rottura epistemologica per dirla con il filosofo Louis Althusser, ed è l’apparizione nella giurisprudenza costituzionale degli anni Ottanta delle nozioni di “principio costituzionale” e “bilanciamento”. I diritti fondamentali vengono declinati come principi e cadono nella ponderazione con altri principi. E’ l’evento decisivo della teoria e della prassi del diritto per i decenni a venire, in grado di incidere al livello della stessa costituzione materiale. C’è una differenza fondamentale fra il principio costituzionale e la nozione di limiti naturali dei diritti fondamentali, strumento della giurisprudenza costituzionale a partire dalla sentenza n. 1 del 1956. Il limite naturale del diritto è una nozione integralmente giuridica perché resta sul piano del contenuto del diritto medesimo, così come definito dalla norma. Il principio è invece giuridico nei limiti del dato empirico della sua recezione in costituzione, ma per il resto è una nozione che rinvia all’etico-politico ed alla stratificazione storico-politica che ne ha giustificato il riconoscimento nel testo costituzionale. I principi sono fondativi (ex principiis derivationes), ma proprio perché tali, come gli assiomi indecidibili del teorema di Gödel, non fondano sé stessi, ma trovano giustificazione all’esterno della catena formale che fondano. La scelta del principio non è dettata dal principio stesso, come il diritto che da esso dovrebbe conseguire, ma da tutto ciò che è a monte di quella scelta.

La selezione di un principio non è così giuridica, ma etico-politica, tant’è che è un leitmotiv quello della competenza del legislatore circa la scelta del principio prevalente nell’ambito di un bilanciamento, competendo invece all’autorità giurisdizionale di garanzia il controllo di correttezza giuridica del bilanciamento. Il sindacato di legittimità della ponderazione legislativa si svolge sulla base della regola della compressione proporzionata del principio soccombente, nel limite strettamente necessario per il perseguimento del principio prevalente ed in modo da non lederne comunque l’essenza inviolabile. Il diritto interviene quindi, ancora, come è proprio alla logica delle norme, mediante una regola, quella della compressione proporzionata del principio («requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale», la definisce il giudice delle leggi – così, da ultimo, Corte cost. n. 203 del 2024), e non mediante principi, la cui selezione resta affidata alla politica. Il giurista (teorico o pratico del diritto) non invoca l’applicazione di principi e diritti fondamentali, selezionando quello che reputa meritevole di essere perseguito. Se così facesse, farebbe una scelta etico-politica, non un ragionamento giuridico. Il giurista applica una regola di diritto oggettivo, per dirla in termini tradizionali, mediante cui sindacare della correttezza giuridica dei modi di realizzazione delle scelte etico-politiche.

L’irruzione dei principi non ha comportato solo la rottura epistemologica di cui si è detto. Essa ha relativizzato anche il monopolio della scena costituzionale da parte dell’eguaglianza sostanziale. La compressione proporzionata del principio, quale pari considerazione di tutti i principi nel bilanciamento, rinvia al canone dell’eguaglianza formale (art. 3, comma 1, Cost.), che diventa così limite anche dell’eguaglianza sostanziale e vera grundnorm dell’ordinamento. Il perseguimento dell’eguaglianza sostanziale, quale indirizzo fondamentale dei poteri costituiti secondo l’art. 3 cpv., non può arrivare a pregiudicare oltre misura un principio costituzionale. Ciò che l’eguaglianza formale garantisce è il pluralismo di società che sono entrate in una fase nuova dopo la restaurazione post-bellica di condizioni di benessere sociale, fase ora caratterizzata dalla moltiplicazione crescente di soggettività sociali, punti di vista etico-politici e concezioni di vita buona. Il pluralismo dei principi è il riflesso di un pluralismo che è ormai sociale e antropologico e che si contrappone al monismo, da questo punto di vista, del conflitto capitale/lavoro, che aveva rappresentato la base sociale della direttiva dell’eguaglianza sostanziale, in un trentennio non a caso definito come quello del compromesso socialdemocratico. 

L’epoca dei principi costituzionali corrisponde ad un’età di più avanzata secolarizzazione. Per il giurista non viene meno solo lo schermo della razionalità formale, che la costituzionalizzazione del diritto aveva già frantumato, ma è la stessa oggettività dell’imperativo dell’eguaglianza sostanziale ad essere relativizzata, come si è appena visto. Vengono meno due ontologie diversissime, ma sotto cui trovare riparo. Ormai si è in un mare aperto, nel quale si fronteggiano ad armi pari da una parte le fattispecie legali e dall’altra i principi. La giuscivilistica entra in una lunga stagione nella quale, caduto l’argine della razionalità formale, alle dottrine generali subentrano i costanti attraversamenti dei blocchi normativi da parte dell’interprete adoperando la leva dei principi, i quali intervengono direttamente in sede di applicazione del diritto, senza l’interposizione delle categorie giuridiche (esemplare è la tematica del “contratto giusto”). Qualcosa di analogo accade nel diritto penale, dove il mutamento di paradigma, dalla conservazione del bene giuridico alla funzione di promozione sociale, può essere inteso come il prolungamento dell’ancoraggio del bene giuridico al valore costituzionale. Caduto anche qui l’argine della razionalità formale, il diritto penale diventa strumento di trasformazione sociale, nelle direzioni che possono essere le più disparate. Il punto decisivo è che i nuovi protagonisti dell’ermeneutica, i principi costituzionali, hanno una genesi, come si è visto, etico-politica e non giuridica. Si apre una partita all’interno del sapere giuridico, fra la difesa delle vecchie strutture dogmatiche o del primato della categoria di fattispecie e l’avanzata dell’interpretazione principialista, la quale tradisce, in realtà, il possibile annegamento del giuridico nell’etico-politico. 

La visione più lucida e consapevole del problema in Italia è stata quella di Luigi Mengoni, cui si deve il tentativo più equilibrato di comporre diritto e valori nel quadro di un ordinamento costituzionale per principi. La difesa delle vecchie dottrine generali è del tutto inconsapevole di quanto il diritto contemporaneo sia permeato dalle scelte di valore che il legislatore compie, selezionando principi e non altri, secondo visioni etico-politiche particolari. Non vale, tuttavia, opporre il decisionismo del c.d. nichilismo giuridico, debitore della vecchia immanenza della violenza al diritto di Walter Benjamin, e ancora fermo alla visione della bruta forza che si celerebbe alle spalle del diritto. Esso non coglie che la scelta unilaterale del politico non diventa diritto senza prima passare attraverso la rigenerazione del bilanciamento fra principi: è questo il senso del passaggio dal positivismo giuridico al costituzionalismo. D’altra parte, però, l’affidarsi dell’interprete al primato dei principi, direttamente operanti in sede di applicazione del diritto senza la mediazione delle categorie giuridiche, smarrisce il senso autentico della dogmatica giuridica, che è quello della impermeabilità alle mutevoli opzioni etico-politiche, allo scopo di garantire le funzioni proprie del diritto, prevedibilità e certezza, a partire dall’invenzione romana dell’astrazione e della forma. L’interpretazione, seguendo Mengoni, è così l’esito di un punto di mediazione fra le fattispecie legali ed i principi ad esse soggiacenti (il sistema ed il problema, per dirla con Mengoni). Il vincolo del criterio ermeneutico del principio è dato dalle specifiche esigenze dogmatiche degli elementi costitutivi della fattispecie. Lavorare intorno a questo punto di mediazione dovrebbe essere il compito di una cultura giuridica matura, che sappia guardare dall’alto alle molte stagioni che ha ormai attraversato, sapendo dove fissare il limite alla direttrice di progresso che la costituzionalizzazione del diritto ha aperto negli anni Sessanta del secolo scorso.

 

3. Per una magistratura all’altezza del pluralismo dei principi

Il superamento della concezione burocratica di magistrato, che il congresso di Gardone Riviera dell’Anm nel 1965 produsse, è un punto di non ritorno. Merito dell’associazionismo giudiziario è stato negli anni successivi quello di incorporare nella forma del giudice-funzionario la funzione di applicazione di un diritto non più scindibile dalla dimensione costituzionale. Tutto questo avveniva nel contesto del passaggio dalla vecchia società liberale, nella quale l’immagine di un giudice ricacciato nell’anonimato politico era complementare ad una concezione di cittadinanza come difesa dagli arbitri del potere, alla moderna società democratica, nella quale la concezione repubblicana di cittadinanza liberava il cittadino che era nel magistrato, facendolo partecipe della discussione politica pubblica. L’ingresso nel regno dei principi costituzionali comporta la rielaborazione dei tre temi che la de-burocratizzazione della funzione ci ha lasciato in eredità: la teoria dell’interpretazione; l’immagine del magistrato; la questione dell’imparzialità. In realtà, si tratta dei tre punti di vista di uno stesso problema: quale rapporto del magistrato con i principi costituzionali, una volta che si assuma la loro valenza etico-politica?

La lunga stagione dell’ermeneutica giuridica, che è alle nostre spalle, è stata caratterizzata dall’inevitabile presenza dei valori dell’interprete nell’attività interpretativa. Convergevano in questa direzione da una parte le filosofie del disincanto sull’oggettività dell’interpretazione, per le quali, venuto meno il dato nella sua oggettività quale referente a causa del costruttivismo dell’interprete, dovere di quest’ultimo era quello di rendere pubbliche le inevitabili assunzioni di valore a base della attività interpretativa. Dall’altra, in funzione di universalizzazione dei valori dell’interprete, l’imperativo della realizzazione del programma di valori costituzionali che, nella concezione del costituzionalismo come indirizzo fondamentale, si imponeva ad ogni potere costituito, e dunque anche a quello giudiziario. Nel contesto del pluralismo dei principi e dei correlativi punti di vista etico-politici quell’ermeneutica non può più essere mantenuta.  

Il weberiano politeismo etico è ormai penetrato nella stessa costituzione una volta che questa sia diventata manifestazione di principi concorrenti. Come ho scritto più volte, il giudice deve assumere un dovere di indipendenza da sé stesso (ne ho fissato le fondamenta teoriche in uno scritto del 2020 apparso ne Il Foro italiano, Il giudice e il dovere di indipendenza da sé stesso). Si tratta di un ideale normativo, e non di un dato di fatto, e dunque di un impegno, e non di una realtà. Sullo sfondo vi è la svolta normativo-razionalista, in corso nell’epistemologia contemporanea a partire dalla fine del secolo scorso, la quale ha fatto seguito alla concezione della verità quale prodotto di una pratica soggettiva e non più rispecchiamento del dato, secondo quanto predicato dal vecchio rappresentazionalismo. Solo se si assume l’impegno in discorso è possibile mantenere, sul piano ermeneutico, la distinzione fra disposizione (l’enunciato linguistico) e norma (il precetto). Quest’ultima non è più, come all’epoca di Crisafulli che concepì la distinzione, il medium di collegamento dell’enunciato all’insieme generico dell’ordinamento, ma è apertura ad un universo stratificato di fonti, fattispecie e clausole generali. Al cospetto di questa complessità ermeneutica si esige dall’interprete un dovere di astrazione dalle proprie opzioni etico-politiche, le quali potrebbero spingerlo a sostituire il principio prevalso nella norma, sia pure risultante dall’articolazione stratificata di cui si è detto, con quello corrispondente alle proprie vedute («il demone che tiene i fili della sua vita», direbbe Max Weber).

La fondazione etico-politica dei principi impedisce di raffigurare l’esercizio della giurisdizione come tutela di principi, o meglio di diritti fondamentali in forma di principi. La giurisdizione è applicazione di regole, e quando l’interpretazione comporta l’adeguamento della norma ordinaria a quella costituzionale, è ancora una regola che si applica, e non un principio. Il giudice, quando interpreta la norma in modo conforme a costituzione, non salvaguarda un principio che abbia selezionato come meritevole di essere perseguito, non fa insomma una scelta etico-politica che è riservata al legislatore. L’intervento chirurgico dell’interprete, nei limiti delle potenzialità semantiche dell’enunciato linguistico, non è di sostituzione, al principio scelto come prevalente dal legislatore, di un principio che egli avverta come meritevole di essere perseguito, facendo così passare nell’interpretazione una propria scelta politica. L’interprete applica una regola, quella della compressione proporzionata del principio soccombente, e così facendo lascia ferma la prevalenza del principio scelto dal legislatore, ma modella il precetto normativo in modo che il principio soccombente sia compresso nella misura strettamente necessaria o comunque in modo che ne sia salvaguardato il nucleo inviolabile. Il giudice resta garante del diritto oggettivo, che si concretizza volta a volta in regole di compressione proporzionata del principio soccombente.

Nel compiere quest’operazione si esige dall’interprete, ancora una volta, il dovere di assunzione di indipendenza da sé stesso. Viene così in primo piano la questione dell’imparzialità, tema che non si poneva in un tempo di applicazione burocratica del diritto sine ira et studio. Si tratta di un corollario della questione veramente decisiva, quella dell’indipendenza, essenza autentica del giudicare. Indipendenza da altri e da sé stessi. Apparire imparziali vuol dire che le parti del giudizio devono avere fiducia nella libertà del magistrato da appartenenze condizionanti. E’ questa l’indipendenza da altri. Le parti del processo devono anche però avere fiducia nella capacità del giudice di assolvere il proprio impegno di indipendenza dalle proprie concezioni etico-politiche, e dunque da sé stesso. La professionalità del magistrato sta nel comprendere quali comportamenti, in determinate circostanze, siano da evitare affinché non sia minata la fiducia delle parti del giudizio nella sua indipendenza da altri e nella sua capacità di fare astrazione dalle proprie convinzioni etico-politiche.

Deve essere inteso, per finire, il senso della linea di progresso che si è aperta con la de-burocratizzazione della funzione giudiziaria. Una volta che il costituzionalismo abbia preso la forma e la sostanza del principialismo, il progresso che la penetrazione del programma costituzionale nell’applicazione del diritto aveva avviato deve essere governato. Va posto un limite, oltre il quale la demitizzazione di una falsa apparenza, quella della neutralità del giudice asettico rispetto ai valori, si trasforma nella ricostituzione di una nuova mitologia, quella del garante di principi che celano, in realtà, scelte etico-politiche. Una volta entrati nell’epoca della secolarizzazione, questa va condotta in modo coerente, anche nei confronti dei nuovi miti che essa reintroduce, e che è possibile disvelare se si resta consapevoli dei limiti e delle sfere di sacertà che neanche alla secolarizzazione è consentito manomettere. 

Di tutto questo la magistratura deve acquistare consapevolezza, se si vuole evitare che altre narrazioni possano farsi avanti e minare l’indipendenza dell’istituzione giudiziaria. Il congresso nazionale dell’Associazione nazionale magistrati dello scorso anno ha rappresentato un primo passo nella direzione di questa presa di consapevolezza, ma la riflessione deve essere portata avanti, collettivamente. Riposano anche in ciò le ragioni di permanente attualità dell’associazionismo giudiziario. 

 

4. Corti e costituzione di fronte alla crisi della cittadinanza democratica

Con quanto si è detto, non si sta difendendo un astratto modello di giudice, ma quanto richiedono le circostanze storiche del costituzionalismo contemporaneo. Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso hanno dimostrato come un giudice “impegnato” sul versante dell’eguaglianza sostanziale possa trovare posto nella storia costituzionale. Si tratta ora di compiere una nuova storicizzazione. Se negli anni Sessanta e Settanta c’era da sburocratizzare la magistratura, è questo ora il nuovo fronte. L’immunizzazione dall’etico-politico del giudiziario nella fase del costituzionalismo per principi ha tuttavia un significato storico-istituzionale che va al di là di una definizione di ius dicere adeguata al presente, perché si tratta della fase in cui alla moltiplicazione delle carte dei diritti e parallela espansione del ruolo delle corti si è, singolarmente, accompagnata una inedita crisi della cittadinanza democratica, di cui sono espressione l’imponente astensionismo elettorale e la stessa volatilità degli elettori. Ciò cui si assiste è una tendenziale dislocazione del popolo dai circuiti della democrazia alle piattaforme ed alle aule di giustizia. Il cittadino trova il proprio interlocutore non più nei canali della politica, ma nei social networks e nei poteri giudiziari. Una declinazione etico-politica del giudiziario rischierebbe di essere oggettivamente solidale ai processi di depoliticizzazione sociale. Una concezione di magistratura all’altezza dell’odierno pluralismo dei principi è dunque un pezzo di un più complessivo disegno di ricostituzione della cittadinanza democratica.

La possibilità che è data a ciascuno, in modo eguale, di decidere del proprio destino, che è il telos della democrazia moderna, può diventare recessiva di fronte a due nuove emergenze. Da una parte la tecnica moderna, la quale, come ci hanno insegnato Heidegger e Severino, non è più mossa da una fine del quale essa sia lo strumento, ma è guidata dall’accrescimento della propria potenza, che la rende ormai indipendente da un sistema di fini. Essa tende così a trasformare chi se ne avvalga da signore della propria autodeterminazione in una protesi dell’apparato tecnologico. La tecnica è tuttavia decisiva per il benessere dell’umanità, come l’esperienza del Covid-19 ha dimostrato. Affinché essa resti strumento e risorsa è necessaria una cultura del limite e della finitezza umana. L’altra emergenza è proprio il diritto. 

L’idea dell’autogoverno mediante la rappresentanza democratica può perdere terreno di fronte all’affidamento delle sorti di ciascuno alle corti, sul presupposto che nelle carte dei diritti sia disegnato il migliore dei mondi possibili e che il compito della sua realizzazione sia nelle mani del corpo dei giudici. La modernità è sorta e si è evoluta sotto il sigillo della politica quale invenzione di nuovi ordini sociali, facendo del diritto soltanto il limite ed il vincolo delle potenzialità creative della rappresentanza democratica. Il diritto, in questo quadro, è solo lo strumento di garanzia della democrazia, la quale non è solo forma, l’eguale partecipazione di tutti, ma è anche sostanza, e cioè eguale considerazione delle ragioni di tutti mediante la compressione proporzionata delle ragioni soccombenti. Come la tecnica, anche il diritto, per essere una risorsa, deve restare uno mezzo e non diventare uno scopo. I diritti non sono la fine della storia, perché questa, una volta che con il superamento dell’ordine giuridico medievale si sia affermata l’idea dell’autodeterminazione, resta costantemente aperta sul futuro. Tutto questo precipita sul concetto stesso di costituzione: testo normativo da attuare o da applicare?

C’è stato un tempo, ed è quello che abbiamo definito della costituzione-indirizzo fondamentale, in cui i contenuti della politica si sono collocati all’altezza della costituzione. Il fine politico fondamentale è diventato un precetto costituzionale. La creazione del nuovo ordine sociale non è il risultato di un corpo a corpo fra politica e diritto, ma è il programma della costituzione, con un contenuto ben preciso, che è quello del perseguimento dell’eguaglianza sostanziale. Una simile combinazione di politica e costituzione aveva dalla sua la traiettoria della storia, perché dopo il cataclisma bellico bisognava ricostruire la società, e la costituzione è stato lo strumento di questa ricostruzione, con il contributo essenziale dei partiti politici. Caratteristica della costituzione-indirizzo fondamentale è che il programma costituzionale deve essere attuato. Non è una regola da applicare, ma un fine cui dare attuazione da parte di tutti i poteri costituiti.

Una simile concezione di costituzione, nel contesto del costituzionalismo per principi, non può più essere mantenuta. Essa produrrebbe ciò che è stato definito “suprematismo giudiziario”: i tribunali costituzionali come garanti in ultima istanza dell’esecuzione di un programma che la politica ha mancato di attuare. Ogni inerzia legislativa sarebbe un’inattuazione, cui sarebbe dovere del giudice delle leggi rimediare: la democrazia sotto tutela giudiziaria e, in ultima analisi, un’altra ragione di scollamento fra popolo e processo democratico. Nell’epoca del costituzionalismo per principi l’attuazione del programma non monopolizza la scena del testo costituzionale. La costituzione è programma solo nei limiti di un precetto quale l’art. 3 cpv. della Costituzione italiana, mentre per il resto si tratta di un complesso di limiti e di vincoli per il libero dispiegarsi della volontà politica, limiti che persistono anche per l’eguaglianza sostanziale la quale, come si è visto sopra, non può essere perseguita fino a pregiudicare l’eguaglianza formale. La costituzione non è perciò un ordinamento completo dei rapporti sociali, che attenda di essere attuato dalla politica e, in sua mancanza, dalle corti. La costituzione è come l’albero cui si lega Ulisse per ascoltare, senza cedervi, il canto delle sirene, per riprendere la metafora attraverso cui John Elster concepisce l’auto-obbligarsi di una comunità, consapevole come Ulisse della propria razionalità imperfetta, e che fa del potere di revisione costituzionale una «podestà costituita» (Mortati) e non un potere costituente. L’ordinamento delle norme ordinarie, per sua parte, è incompleto per definizione, perché è la risultante delle infinite combinazioni fra principi costituzionali che possono stabilirsi a seguito della molteplicità dei casi della vita. La completezza dell’ordinamento giuridico e l’assenza di lacune sono miti del positivismo giuridico, ormai superati dal costituzionalismo per principi.

Bisogna differenziare la lacuna derivante dalla mera inerzia del legislatore ordinario dall’omissione, la quale integra una violazione costituzionale. Il criterio di distinzione risiede nel fatto che, a causa della mancata previsione normativa, la quale diventa così omissione, si è determinata una lesione del fondo incomprimibile di un principio costituzionale, o una sua compressione non proporzionata. A fronte del compito della Repubblica previsto dall’art. 3 cpv, l’omissione risiede tuttavia anche nella mancata attuazione del precetto dell’eguaglianza sostanziale, che, date le particolari circostanze, era imposto al legislatore di perseguire. All’omissione, che presupponeva il dovere di legiferare, obbligo giuridico e non opportunità politica, stanti le evidenziate conseguenze del comportamento omissivo, rimedia l’intervento additivo del giudice costituzionale. Il riempimento di una mera lacuna, comportando la selezione del principio prevalente e, dunque, una scelta etico-politica, si realizzerebbe invece nel segno della politica, e non del diritto. Il recente abbandono della dottrina delle “rime obbligate” nella giurisprudenza costituzionale, consentendo mediante la sentenza additiva di esercitare una scelta discrezionale in un ventaglio di soluzioni “costituzionalmente adeguate”, rischia, peraltro, di introdurre surrettiziamente la politica anche nel campo della violazione costituzionale.

In questo quadro, va lasciato al giudice comune il riempimento delle lacune legislative non derivanti dall’omissione incostituzionale, imposto dal divieto del non liquet, mediante la diretta applicazione dei principi costituzionali. Si tratta di evenienze eccezionali e residuali, nelle quali viene svolta dal giudice comune una funzione di supplenza rispetto all’inerzia legislativa, perché la fissazione della regola del caso concreto implica inevitabilmente la scelta etico-politica del principio prevalente. Imporre sempre e comunque il previo passaggio dalla giurisdizione costituzionale vorrebbe dire fare di ogni lacuna una violazione costituzionale, con la conseguenziale affermazione del suprematismo giudiziario. Togliere al giudice comune il potere di diretta attuazione della costituzione nei casi di mera inerzia legislativa, pensando così di difendere il valore della sovranità popolare, avrebbe dunque l’effetto indesiderato di far coincidere inattuazione e violazione costituzionale, facendo di democrazia politica e giustizia costituzionale non più i termini di una dialettica equi-ordinata, ma gli istituti di una gerarchia che vede in posizione di primazia la seconda.

La riespansione della cittadinanza democratica trova una delle proprie vie, in conclusione, anche nel superamento di una concezione della costituzione che conduca ad una democrazia costituzionale sotto tutela giudiziaria. Corti e costituzione non sono dunque un oggetto di discussione neutrale, ma sono profondamente intrecciate alle vicende della crisi della cittadinanza democratica. La ricomposizione della crepa che si è aperta fra ordine costituzionale e società, per effetto della fuga del popolo dai circuiti della politica democratica, comporta anche un’adeguata consapevolezza sul ruolo delle corti e sull’immagine di costituzione. Non c’è ritorno di protagonismo della cittadinanza democratica se la democrazia politica non riacquista prestigio e se si diffonde la convinzione che alle prestazioni di quest’ultima possano meglio provvedere le corti, costituzionali e comuni. 

E’ però del tutto evidente che la risposta alla crisi democratica non può venire da un tentativo della politica di condizionare e ridurre i margini di azione delle corti, chiamate di frequente ad esercitare supplenze per colmare le inadempienze della politica. Si tratta di un tentativo che lascerebbe intatto il problema, per non parlare delle gravi conseguenze che si determinerebbero al livello dell’assetto liberale del sistema democratico. La magistratura deve attrezzarsi, e lo sta facendo, per la nuova stagione del costituzionalismo, ma la politica deve assumersi le sue responsabilità. La risposta alla crisi democratica può pertanto venire solo da un’evoluzione positiva del nesso costituzione-popolo-partiti, nesso da cui abbiamo preso le mosse ed al quale bisogna ora tornare.   

 

5. Una costituzione materiale a venire?

Che lo stesso tema della democrazia illiberale, ossia la tirannia della maggioranza senza il contrappeso liberale del costituzionalismo, abbia acquistato dignità nelle discussioni politiche europee è il sintomo della gravità della cesura che si è aperta fra ordine costituzionale e società. Per molti è in discussione la democrazia, quale esperienza collettiva di determinazione del proprio destino mediante la rappresentanza politica. Di qui, l’avvio di processi di identificazione mobile e contingente, su base individuale e non più collettiva, esposti alle derive più diverse. Uno sguardo dall’alto al Novecento, secolo della politica e del progressismo nella sua seconda metà, apre uno squarcio di luce su quello che forse è il vero problema: la politica ha attivato e mobilitato la società nel segno del progresso sociale, ma quella mobilitazione non poteva durare ad infinitum, perché le domande e le aspettative avrebbero sopravanzato le strutture politico-istituzionali che le avevano indotte. A partire da qui, la diffusione nel corpo sociale di volontà di potenza, la depoliticizzazione crescente ed il ritiro dalla partecipazione politica.

E’ necessaria una riforma, dal lato sia della società che della politica, una nuova intermediazione, dopo la tradizione novecentesca del partito politico di massa, che restituisca senso alla democrazia quale autogoverno mediante la rappresentanza politica. Questo postula, però, un nuovo linguaggio fondamentale, sia per la politica che per la società, un linguaggio per l’appunto costituzionale. La riforma di cui c’è bisogno non è al livello della costituzione formale, ma di quella materiale. La nostra tradizione europeo-continentale ha una risorsa, che Mortati ha ben delineato, e cioè la costituzione non come mero funzionalismo (il sistema di pesi e contrappesi della tradizione statunitense), ma come sostanza, struttura fondamentale sia del potere che della società. Non un mero ordine formale, ma una congiunzione profonda fra società e ordinamento. E’ allora sulla risorsa della costituzione materiale che bisogna lavorare. 

I partiti politici non ambiscono più all’oggettività di una visione, derivante dalla fondazione dell’agire politico in un sapere sulla società. Essi esprimono l’unilateralità di un punto di vista, il quale può essere dato dalla polarizzazione volta a volta di un principio costituzionale, inteso come scelta etico-politica. E’ il partito della democrazia maggioritaria. La ricomposizione di ordine costituzionale e società non può essere affidata all’unilateralità di un punto di vista. Bisogna cogliere il senso oggi della distinzione fra destra e sinistra, che non può più essere quello di un diverso rapporto con l’eguaglianza sociale, come vide Norberto Bobbio sul finire del secolo scorso in un celebre pamphlet, alla luce della distinzione non più attuale fra liberalismo e socialismo. Destra può essere oggi il sinonimo di kultur, sinistra di zivilization, con tutto ciò a cui queste categorie rimandano: la prima in termini di riferimento alla tradizione, ai legami costitutivi (identitari e culturali), all’essere nella sua densità, a ciò che è originario (la natura, la forza); la seconda in termini di riferimento alla moderna emancipazione individuale, ai valori civico-razionali, al programma dell’illuminismo, al progresso attraverso gli ideali di ragione. In una parola, da una parte il reale, dall’altra il razionale; da una parte l’essere, dall’altra il dover essere. Si tratta di un dualismo che i partiti politici di massa non conoscevano, perché la loro cifra, grazie alla scienza della società che li sosteneva (cattolicesimo sociale o marxismo), era la capacità di tenere insieme reale e razionale, ambendo così ad una funzione generale e complessiva. L’unilateralità del punto di vista fa sì, ora, che ciascuna parte politica tenda a perdere il lato che tralascia, la destra quello della razionalità civico-universalistica, la sinistra il radicamento nel reale, con il rischio di derive, che possono significare per la destra la violazione dei diritti, per la sinistra l’aristocratismo etico, stigmatizzato da Franco Cassano nel suo straordinario L’umiltà del male (Editori Laterza, 2011). Il superamento dell’impasse può venire solo da un mutamento del linguaggio fondamentale, ossia da una nuova costituzione materiale, la cui cifra può essere proprio quella del bilanciamento costituzionale. Una costituzione materiale che risiederebbe non in un fine, secondo la concezione mortatiana, ma in un metodo. 

Nella politica tutto questo significa introdurre percorsi di riconoscimento reciproco. Significa fare del punto di mediazione con le ragioni dell’altro, di colui che è risultato politicamente perdente, la forma quotidiana del linguaggio politico. Qualcosa di chi è rimasto soccombente nella competizione politica deve restare nei contenuti normativi che la maggioranza politica mira a perseguire. Una fondamentale obbligazione di autolimitazione dovrebbe dominare il campo della costituzione materiale, allo scopo di preservare l’essenza non comprimibile delle ragioni della controparte. Grazie ad una classe dirigente in grado di esprimere questo linguaggio costituzionale la riforma della politica dovrebbe transitare nella società, essere nuova intermediazione fra popolo e potere, in grado di innestare nei rapporti sociali la filosofia del reciproco riconoscimento e di ridare senso, attraverso questa via, alla cittadinanza democratica. Non c’è un vento della storia che possa garantire tutto ciò: il futuro è solo sulle fragili spalle di ciascuno di noi.

 

10/02/2025
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