«È un mondo di merda e fra le tante cose che non funzionano,
almeno per i poveracci come noi, c’è la giustizia.
Quella dei tribunali e quella della vita».
Uno come tanti
Ennio Tomaselli decide di dedicare il suo ultimo romanzo, Uno come tanti, ai giovani innamorati della giustizia. E proprio dalla storia di alcuni giovani alle prese con il concorso in magistratura muove le mosse il libro: Fabrizio e la fidanzata Donata, in primo luogo, che studiano insieme da tempo e che proprio subito dopo gli scritti separeranno le loro strade. Ma anche Rosaria, che Fabrizio incontra nel corso della prima prova d’esame e che gli starà vicino per tutto il romanzo. Questi giovani vengono messi subito davanti ad una storia scomoda, difficile: quella del padre biologico di Fabrizio, Matteo, della cui esistenza il ragazzo scopre per puro caso all’indomani della morte improvvisa dell’uomo che lo ha cresciuto. Anch’egli magistrato, aveva deciso di dimettersi all’improvviso dopo pochi anni di lavoro ed era sparito nel nulla.
Cosa lo aveva spinto, tanti anni prima, a compiere quella scelta? Perché era fuggito? Ed era ancora vivo?
Sono questi gli interrogativi che muovono il lettore nel corso del romanzo, che vede Fabrizio – risultato idoneo agli scritti e che dovrebbe studiare per l’orale – impegnato in una ricerca quasi impossibile, che lo porterà in Calabria e che gli farà conoscere i molti personaggi di questo libro: i parenti del padre, zio Eusebio e zia Nilde, oltre al cugino Frank. Ma anche Gregorio, che era stato poliziotto e aveva lavorato tanti anni prima con Matteo, e che avrà un ruolo fondamentale nel ritrovarlo, anche a costo della sua stessa incolumità.
Si tratta di un viaggio alla ricerca di un padre, in cui in realtà il giovane protagonista – all’inizio rigido, pieno di certezze e a volte anche poco arguto - finirà per trovare un se stesso diverso, capace di comprendere la difficoltà di amministrare la giustizia in maniera realmente equa.
Le pagine più significative sono quelle relative al diario di Matteo, consegnato a Fabrizio da una sua ex collega ed amica, Flavia, che contiene anche un racconto, ispirato ad una storia di cronaca giudiziaria, di cui nel libro sono riportate anche le sentenze (di primo grado, redatta da Matteo, e di riforma).
Matteo è stato un magistrato anomalo: per provenienza (lui stesso si definisce “figlio del popolo”), in anni in cui era difficile per il figlio di un operaio che vive in una degradata periferia di una città industrializzata anche solo pensare di diventare magistrato. Ma anche per mentalità: si tratta di una persona che coltiva il senso del dubbio, che ha poche certezze, che non sopporta doversi uniformare ai precedenti delle Corti superiori, in un periodo in cui la magistratura era ancora fortemente gerarchizzata.
Si appassiona a un caso che ha seguito come giudice istruttore, e che è l’emblema di una parte della giustizia che all’epoca non rendeva un servizio adeguato.
Manca poco alle 22 di venerdì 12 giugno 1981 quando Andrea Spena, tredici anni, chiede al padre Alfio di fermare la macchina per un’esigenza fisiologica impellente. Dopo pochi minuti, il ragazzo riemerge dagli alberi e confida al genitore di aver visto due uomini trascinare qualcosa o qualcuno. Alfio fa immediatamente risalire il figlio in macchina e si dirige nel punto indicato: accovacciato dietro un albero vede a circa 20 metri di distanza due uomini che caricano un corpo insanguinato in auto. Li riconosce immediatamente: si tratta di due uomini che, come carabiniere, aveva arrestato circa due anni prima. Intanto Andrea, disobbedendo al padre, lo ha raggiunto e lo sente dire «i due fratelli… Calabrò». Alfio decide di allontanarsi per mettere in sicurezza il figlioletto e si reca poi al comando per redigere il rapporto.
Intanto il nucleo radiomobile di Castrovillari, a seguito di segnalazione anonima, giunge sul posto e ritrova il cadavere di Salvatore Perri. Convocata, la vedova riferisce che il marito era stato minacciato dai due fratelli Calabrò, al servizio dell’imprenditore agricolo Francesco Cosentino, per la battaglia che egli conduceva contro il caporalato e lo sfruttamento.
Nonostante i numerosi tentativi di screditare sia la vittima che i testimoni, i due fratelli Calabrò vengono condannati in primo grado.
Il collegio del secondo grado «con malanimo e preconcetto» smonta l’attendibilità di tutti i testimoni: non è credibile la vedova, perché il marito non aveva denunciato di aver ricevuto minacce. Non è credibile il brigadiere Spena, perché è separato dalla moglie e non riesce ad imporre la disciplina al figlio. Non è credibile il ragazzo, perché immaturo e non contenuto dal genitore. E infine, il fango sulla vittima: uomo dipinto come dedito al gioco d’azzardo.
A partire da questa storia, Matteo scrive un racconto. Al centro, una famiglia, i Rustico, composta da una madre, un padre e due figli. Una domenica come tante, essendo in Calabria, «terra bagnata dal mare a destra e a sinistra», vanno in spiaggia. È un momento di svago, non così comune per quella famiglia, che tira avanti con quanto guadagna il papà, sfruttato dai caporali a servizio di un imprenditore agricolo della zona. Quando osa ribellarsi, prima lo minacciano e poi lo fanno ritrovare impiccato. Naturalmente nessuno verrà condannato in via definitiva, nonostante gli sforzi del pubblico ministero, ed anzi si farà passare la vittima come un uomo con il vizio del gioco, ucciso probabilmente per questa ragione. E proprio il racconto fornisce l’occasione per riflettere sulle occasioni in cui la realtà processuale si discosta così tanto da quella sostanziale e in cui il processo diventa «un teatrino».
Questa vicenda segna per sempre Matteo, che lascia la magistratura e scappa con la vedova, come scoprirà Fabrizio nel corso del romanzo.
Sia il racconto che le sentenze sono un pugno nello stomaco per il giovane Fabrizio, che da un lato non si capacita della parzialità e della disonestà di certi magistrati, collusi di fatto con i criminali della zona e con il loro sistema di sfruttamento, ma dall’altro inizia a scoprire gli ideali del padre e ad apprezzarne l’umanità.
Ma il libro di Tomaselli non è privo di speranza, perché accanto a queste storture, che pure ci sono state, c’è l’altra faccia della medaglia: quella di una magistratura coraggiosa, che negli anni del terrorismo riesce a far fronte, anche ad un costo personale molto elevato, ad un serio pericolo di sovvertimento dello stato. Ne è un esempio Flavia, che è rimasta in ruolo (nonostante condividesse molti dei dubbi di Matteo) per rendere un buon servizio e migliorare il sistema della giustizia dall’interno. Inoltre, ci sono i giovani come Fabrizio, Donata, Rosaria, che si affacciano al nostro mestiere con l’idealismo tipico delle nuove generazioni.
Il romanzo suggerisce, attraverso le diverse scoperte del protagonista, un possibile modo di essere e di fare il magistrato: la scommessa per Fabrizio diventerà allora quella di raccogliere l’eredità paterna e di riuscire a farla vivere all’interno del sistema giudiziario, e non scappando da esso.