Magistratura democratica
Tribuna aperta

Avvocatura e magistratura: una dialettica possibile

di Giampaolo Di Marco
avvocato del foro di Vasto

Le origini della funzione giudicante e di quella difensiva sono nobili e antiche. La nascita della professione di giudice e di quella di avvocato precedono la nascita dei moderni stati di diritto, pur essendo ad esso in qualche modo inscindibilmente legate.

Anche l’etimo delle parole giudice e avvocato rivela l’origine remota di queste funzioni. Il termine “giudice” deriva dall’espressione “ius dicere”, che rimanda ad un’attività sociale di pronunciare regole di diritto per la composizione dei conflitti. Altrettanto antica l’etimologia del termine “avvocato” che deriva “advocatus” colui che è chiamato alla difesa.

Da quando la socialità umana si è estrinsecata nella capacità di esprimersi con l’uso della parola e dello scritto è sorta nelle società l’esigenza di dirimere i conflitti fra i consociati ed in modo speculare il bisogno di avere un difensore che potesse parlare a tutela dei diritti.

Nelle testimonianze storiche più remote dell’esistenza di un qualche tipo di attività giurisdizionale, al tempo della civiltà babilonese e nella vigenza del codice di Hammurabi, la capacità di ragionamento, anche giuridico, non era ritenuta umana, ma veicolata per il tramite del divino. In quella società si sentì il bisogno di affidare ai capi famiglia o ad individui autorevoli il compito di pronunciare discorsi a difesa degli incolpati, prima che venissero sottoposti dibattimento, che era di per sé aleatorio, dato che regola processuale dell’epoca era l’ordalia.

A seguito dell’eruzione del vulcano dell’isola di Tera e il conseguente tsunami che sconvolse l’Egeo nel 1200 A.C., indusse gli uomini a perdere fiducia nella divinità spingendoli a guardare con favore alla propria autonoma capacità decisionale. Iniziò, quindi, un graduale allontanamento dalla legge divina culminato, nel 450 A.C., con la creazione di un sistema normativo, che prese il nome di legge delle XII tavole, e di una funzione giurisdizionale pubblica. 

Per lo sviluppo di vere e proprie figure di giudice e di difensore bisognerà attendere, però, la nascita della filosofia sofistica e, in particolare, di Protagora, il quale sosterrà che, per ogni verità assoluta, esiste il suo contrario e, nel mezzo, infinite sfumature di significato.

Nell’antica Grecia, tuttavia, il principio di democrazia fu esasperato, a tal punto, che le parti in causa erano solite autodifendersi. Vi era spazio, comunque, per la figura dell’avvocato che svolgeva, però, solo attività di logografia ossia preparava, dietro pagamento, i discorsi che le parti in causa dovevano poi recitare a memoria dinnanzi all’autorità giudicante. 

È solo nell’antica Roma che le figure del giudice e dell’avvocato iniziano ad acquisire i tratti principali che la caratterizzano ancora oggi.

Si assiste, anzitutto, alla nascita della figura del giureconsulto, un soggetto esperto di diritto che indicava la soluzione di casi concreti che gli venivano sottoposti, emettendo un responsa prudentium.

Il giurista, quindi, profondo conoscitore della legge, individuava il principio generale caratterizzante il caso concreto, per giungere ad uno schema giuridico essenziale, letteralmente faceva il diritto, senza valutare i fatti concreti secondari, compito, riservato al iudex, qui iuxta alligata et probata iudicare debet.

Nel processo romano dell’ordo iudiciorum, il giudice (“iudex”) è soltanto quel privato scelto di comune accordo tra le parti o altrimenti designato per decidere la controversia impostata e delimitata dalla litis contestatio consistente nello scambio tra le parti di dichiarazioni solenni, incompatibili tra loro, in quanto l'attore avanza una pretesa e il convenuto la nega.

Solo a partire dal II secolo d.C., con il prevalere della cognitio extra ordinem, ossia di un sistema procedurale in cui non uno iudex ma un magistrato riceve il ricorso, raccoglie le prove e pronuncia la sentenza, senza che sia dia luogo a distinzioni di ruolo tra magistrato e iudex, e con l’estendersi di questo processo all’ambito penale, il termine iurisdictio viene ad indicare non solo gli atti di istruzione rilevanti, ma anche tutto il complesso degli atti inerenti alla funzione del giudice che oggi definiremmo propri della giurisdizione ordinaria civile e penale.

In questa fase storica l’attività del giudice è vista come amministrazione della volontà sovrana, del princeps. È proprio nel quadro di una siffatta formazione storica, che il sovrano si appropria dell’ordo iudiciarius, facendo del giudice e dell’attività di amministrazione una sorta di instrumentum regni.

I giureconsulti svolgevano anche un’attività di tipo difensivo. Essi avevano, tuttavia, anche il compito di “cavere”, ossia di consigliare i cittadini per il compimento di atti negoziali giuridicamente complessi. Nonché quello di agere, ovvero dare risposte in tema di azioni processuali, in particolare, circa le forme con cui proporre le domande giudiziali e sui modi migliori per impostare la difesa.

Distinta dai giureconsulti era la figura del patronus il quale, in virtù della sua elevata posizione sociale nonché delle sue doti oratorie, aveva il compito di proteggere i cittadini meno abbienti, i c.d. clienti, in ogni aspetto della vita. 

I patroni erano chiamati, altresì, ad assistere una parte in un giudizio. La complessità di tale compito portò, nel corso del tempo, alla nascita della figura dell’advocatus, oratore professionista dotato di maggiori conoscenze giuridiche. 

In altre parole, l’avvocato era colui che, agganciandosi alla sua arte oratoria, tentava di persuadere i giudici con argomentazioni retoriche favorevoli al proprio assistito.

Prima di parlare, però, essi chiedevano consulto sugli aspetti giuridici ai giureconsulti o erano proprio questi ultimi ad assumere il patrocinio della causa divenendo orator-iureconsulto

Gli advocati o giureconsulti esplicavano anche la funzioni di impostare le controversie davanti al pretore urbano o peregrino secondo il noto broccardo latino da mihi factum dabo tibi ius, esertcitando il c.d. ius publicae respondendi

Più tardi, si sviluppò anche la figura del procurator ossia dell’amministratore dell’altrui patrimonio che, eccezionalmente, era incaricato di rappresentare la parte in causa. Così, nel tempo, è stato creato l’apposito istituto romano della procura alle liti.

In epoca medioevale, le funzioni legate alla giurisdizione persero la struttura dell’epoca classica, andando incontro ad un periodo di decadenza per rifiorire, però, con il Rinascimento. 

È nel periodo romano, pertanto, che si sono delineati i caratteri del patrocinio, il cui nome deriva dalla protezione che, in epoca romana, il patronus accordava al suo cliens. 

Nell’età moderna, è diverso il modo in cui, nei vari ordinamenti, gli istituti romanistici sono declinati per formare la professione forense, organizzata, a sua volta, in ordini professionali che garantiscono, in particolare, il rispetto dell’autonomia ed indipendenza della categoria, mentre medesima resta la funzione di garantire il rispetto dello stato di diritto nei confronti dei titolari delle libertà individuali.

Su questa scia, l’appropriazione della funzione giurisdizionale da parte dello Stato avviene e prosegue anche a partire e, nel quadro, dello sviluppo e del consolidamento delle monarchie assolute in Europa.

In Francia, quanto in Inghilterra, il movimento contro l’assolutismo regio fu accompagnato ed è alla base delle dottrine razionaliste sulla separazione dei poteri. Locke non distingueva il concetto di applicazione delle leggi che costituisce esercizio di ciò che noi oggi chiamiamo potere esecutivo, dall’applicazione delle leggi ad opera del giudice.

Questa distinzione, con una forte sottolineatura della specificità dell’attività giudiziaria, la ritroviamo un po' più tardi nell’opera di Charles L. De Secondat barone di Montesquieu, considerato il padre della dottrina della separazione dei poteri come garanzia delle libertà e dei diritti dei cittadini, contro l’oppressione politica.

Se in tanti si sono appassionati alla figura del giudice “bocca della legge” e al modello di giudice “funzionario”, teorizzato e praticato da Vittorio Emanuele Orlando, durante il fascismo la magistratura italiana agisce secondo una logica che potremmo definire “osmotica”.

Da un punto di vista storico, già lo Statuto albertino dedicava alla funzione giurisdizionale gli artt. da 68 a 73, stabilendo che la giustizia emanava dal re ed era amministrata in suo nome dai giudici che egli istituiva, riportandosi al principio della separazione dei poteri.

I giudici erano considerati, dallo Statuto, inamovibili se non dopo tre anni di esercizio, non potevano istituirsi tribunali speciali o straordinari, l’interpretazione autentica delle leggi spettava al potere legislativo.

Nessuna garanzia era prevista per la carriera dei giudici, interamente affidata al potere esecutivo.

Sia pur timidamente, al fine di ampliare le garanzie di indipendenza dei magistrati, venne approvata la Legge Siccardi, la n. 1286, nel 1851.

Ma già con l’approvazione del r.d. 06.12.1865 n. 2626, l’ordinamento giudiziario del regno d’Italia segnava un passo indietro stabilendo che l’inamovibilità dei giudici poteva venir meno «per l’utilità del servizio».

Nel delineato contesto si inserisce la nascita, nel 1909, dell’associazione generale dei magistrati italiani, della quale l’attuale associazione nazionale magistrati italiani ne costituisce la prosecuzione.

A partire dalla nascita, nel 1909, di tale associazione, vennero intraprese una serie di riforme dell’ordinamento giudiziario, le quali estesero e rafforzarono le garanzie di indipendenza dei giudici, con l’istituzione di un organo consultivo formato di alti magistrati, denominato Consiglio superiore della Magistratura, e destinato ad esprimere valutazioni e pareri sulle promozioni.

Il punto più avanzato, di questo lento processo, fu raggiunto con il r.d. n. 1978 del 1921, il quale ampliò notevolmente le garanzie di indipendenza dei giudici.

Nel racconto comunemente accettato e tramandato, si narra che la magistratura italiana, a differenza di quella tedesca, viene “salvata”: il giudice italiano si “salva”, perché rimane ancorato al modello orlandiano, cioè, quello del giurista formalista “bocca della legge”, evitando di aderire ideologicamente al regime, come viceversa è successo in Germania, in ossequio alla dottrina nazista del c.d. giudice “popolare”.

Come è noto, infatti, in Germania, il giudice ritiene di essere depositario della voce del “popolo”, rifiuta il formalismo giuridico e aderisce, con entusiasmo, ad un modello valoriale che rende il giudice primo interprete e teorizzatore dei principi nazisti.

La magistratura italiana preserva, al contrario, una propria autonomia ed integrità, tradottasi nel rifiuto di tale dottrina, nel rigoroso rispetto della forma della legge e del ruolo del giudice come semplice “applicatore” di quest’ultima. 

La magistratura si ritrovò, allora, a passare da un regime, quello fascista, allo Stato repubblicano, democratico e costituzionale, senza praticamente alcuna forma o momento di discontinuità.

Con l’avvento della Costituzione repubblicana, si assiste ad una radicale inversione di rotta, nel senso che viene sancito, all’art. 101 Cost., il principio, secondo cui, la giustizia è amministrata in nome del popolo, che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, e che la funzione giurisdizionale è immediatamente collegata alla sovranità popolare, unica fonte di legittimazione dei poteri dello Stato, in un ordinamento monista, fondato sul principio democratico.

All’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, si cercò per molti anni di sminuirne la portata precettiva, teorizzando che l’intero testo costituzionale, a cominciare dai suoi principi più importanti, come quello di eguaglianza, fosse in realtà costituito soltanto da norme “programmatiche” rivolte al Legislatore e che, quindi, il sistema di principi, diritti e doveri contenuti nella prima parte della Costituzione, potesse essere attuato negli anni dal Legislatore con tempi lunghi ed incerti.

Nella prima fase della storia repubblicana, quindi, si ebbe una forte resistenza al “nuovo” registrata soprattutto sul piano normativo: una resistenza che vide come protagonisti, da un lato, il potere politico e, in primis, il Parlamento; dall’altro, il potere giudiziario, chiamato ad applicare le leggi anteriori all’entrata in vigore della Costituzione.

Nel delineato contesto storico-giuridico, la dialettica ordinamentale avvocatura-magistratura non ha mai smesso di innervarsi di risvolti valoriali e di regole e prassi volte al rispetto del reciproco riconoscimento dei ruoli.

Non può non evidenziarsi come l’ordinamento democratico italiano, come gli ordinamenti di altri paesi dell’occidente avanzato, viva un momento di grande trasformazione. 

Al tempo d’oggi, la giurisdizione è fisiologicamente chiamata ad intervenire in settori nuovi e a risolvere conflitti sociali di particolare significato. 

Nella diversità di ruoli e di funzioni, magistrati e avvocati, come attori della giurisdizione, promuovono valori comuni e, la difesa di tali valori, nell’attuale contesto presente, è volta a rafforzare un’idea di cultura della giurisdizione che li veda agire secondo uno spirito di leale collaborazione.

È fondamentale, inoltre, che avvocati e magistrati condividano l’impegno per l’indipendenza dei sistemi giudiziari, come diritto fondamentale dei cittadini, che richiede avvocati liberi e giudici e pubblici ministeri indipendenti.

La loro attività è improntata al rispetto dei principi e delle garanzie del giusto processo, quale precondizione per la tutela effettiva delle libertà e dei diritti fondamentali, della libertà di stampa e della trasparenza delle decisioni giudiziarie, la quale richiede un’assunzione di responsabilità da parte di tutti coloro che concorrono all’esercizio della giurisdizione.

La sempre maggiore complessità dell’esistente, dovuta anche alla evoluzione scientifica e alla globalizzazione dei rapporti sociali ed economici, porta la magistratura e l’avvocatura ad essere quelle istituzioni le quali, prime fra tutte, si pongono quali soggetti che sono portati ad incontrare interessi nuovi e soggetti nuovi che sono alla ricerca di legittimazione. 

Ciò accade, ad esempio, sui terreni della libertà di religione, delle questioni eticamente sensibili o dei diritti fondamentali, della Riforma del processo penale e civile.

In altri termini, nei momenti in cui il Legislatore non è tempestivo nelle sue determinazioni, i soggetti e gli interessi nuovi vanno alla ricerca di un altro varco istituzionale.

Le modifiche presentate dall’attuale maggioranza di Governo hanno riguardato Codice penale, codice di procedura penale, ordinamento giudiziario.

A ciò si aggiunga la recente entrata in vigore, nell’ambito civilistico, della Riforma Cartabia, la quale cerca di abbattere l’arretrato pendente in modo tale da rendere la durata dei procedimenti ragionevole.

La paventata abolizione del delitto di abuso d’ufficio, così come la modifica involgente l’ordinamento giudiziario tesa ad introdurre la separazione delle funzioni tra magistratura inquirente e giudicante, presentata dal Ministro della Giustizia e approvata dal Consiglio dei ministri in data 30 maggio u.s., fa riemergere la necessità di un confronto tra avvocatura da un lato e magistratura da un altro.

La necessità, da una parte, di carattere garantista, di porre su di un piano di equidistanza tutti gli attori del processo penale e non, dall’altra quella di evitare che la separazione delle funzioni conduca ad una sorta di giustizia domestica e di parte, orientata dalle direttive del potere politico.

Non può sottacersi come per coloro che assumano essere i principali attori e artefici dell’esercizio della giurisdizione, l’essere, prima di ogni altra cosa, cittadina o cittadino consapevole è requisito imprescindibile della qualità professionale di magistrato o di avvocato, per investitura di una delicata funzione costituzionale, quella appunto di esercizio della giurisdizione: funzione da svolgere nel rispetto di quell’armonico insieme di equilibri e di garanzie, di diritti di libertà e di valori di giustizia[1], che è valore sommo della nostra Costituzione, in una coesistenza mite, perché richiede che ciascun valore e ciascun principio sia assunto in una valenza non assoluta, compatibile con quelli con i quali deve convivere, in quanto «carattere assoluto assume solo un meta–valore che si esprime nel duplice imperativo del mantenimento del pluralismo dei valori e del loro confronto leale[2]».

Ed allora, accanto e, prima ancora, di una doverosa competenza tecnico – giuridica, nel Giudice, come nella figura dell’avvocato, doti essenziali paiono essere quelle di umiltà, che è giusta considerazione di sé e degli altri attori del processo, in un ascolto orientato dal desiderio di capire davvero, ossia di equilibrio, che è senso della realtà e della misura, oltre che onestà intellettuale, equidistanza, che non è indifferenza né disinteresse, ma serenità di giudizio, libertà da pregiudizi, ben oltre la cosiddetta “prevenzione cognitiva”, attenzione alle persone che domandano giustizia e sensibilità agli effetti della decisione, sia giuridica, sotto il profilo sistematico, sia di “buon senso” della ricaduta concreta della soluzione della controversia sulla vicenda sottesa alla fattispecie.

Solo il riconoscimento dei ruoli e la legittimazione reciproca di tutti gli attori del processo democratico può funzionalizzare la dialettica magistrato-avvocato in un’ottica di trasparenza, garantismo ed effettività della tutela dei diritti delle parti tutte.

Nelle società complesse, che aspirano ad essere democratiche, il rapporto tra magistratura e avvocatura, a volte diffidente, aspro, è inquadrabile in un divenire dialettico insopprimibile.

Quel che si può e si deve fare è eliminare le asprezze non necessarie, le diffidenze e le strumentalizzazioni interessate, che rischiano di eliderne la valenza positiva.

Solo un ponderato equilibrio di rapporti a livello umano e professionale, scevro da subalternità di sorta, da inutili forme di sudditanza psicologica, può saldare un rapporto che in chiave prospettica è volto a costituire uno dei capisaldi delle fondamenta della nostra società civile.

Il punto di maggior contatto che i due ruoli evidenziano, pertanto, non si risolve in altro, a ben vedere, che nell’esigenza di dover dare risposta alle istanze che vengono dai cittadini; il giudice per un verso, l’avvocato per un altro, sono al servizio di un interesse di rilevantissima importanza, quello all’ordinato sviluppo delle relazioni tessute tra i consociati.

Artefici, entrambi, di un fenomeno straordinario: la traduzione del diritto astratto in giustizia concreta.

 


 
[1] A. Patti, Perché la legalità? Le ragioni di una scelta, Milano, 2013, 51.

[2] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 11.

19/09/2024
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