1. Vorrei limitarmi, in questo primo giro di interventi, a dire due parole su ciò che nella riforma della giustizia portata avanti dal Governo in carica – la cosiddetta riforma Nordio – considero “il troppo e il vano”.
Il “troppo”, a parer mio, è l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare.
Lasciamo pure da parte la definizione di “Alta Corte”.
Noi oggi abbiamo: la Suprema Corte di Cassazione; il Consiglio Superiore della Magistratura; la Corte costituzionale, che in un articolo di tanti e tanti anni fa Aldo M. Sandulli definì come organo a suo modo “sovrano”. A queste strutture di potere si andrebbe adesso ad aggiungere una “Alta Corte” disciplinare. Mi pare un esercizio di megalomania definitoria che a me sembra poco in linea con il carattere laico e democratico dell’Italia repubblicana.
Nel merito, sappiamo che l’Alta Corte disciplinare è destinata a giudicare delle condotte illecite dei magistrati quali sono prefigurate dall’ordinamento giudiziario. Qui devo confessare che qualcosa non mi quadra, forse a causa di miei deficit intellettivi, probabilmente aggravati dall’inesorabile avanzare degli anni. Fatto sta che non sono riuscito a capire, malgrado ogni sforzo profuso, quale effettiva utilità possa avere “esternalizzare” la competenza disciplinare, trasferendola dalla Sezione disciplinare del (o dei) CSM ad un’Alta Corte, se quest’ultima dovrà comunque essere composta – esattamente come l’attuale Sezione disciplinare – da una quota maggioritaria di “togati”, e da una quota minoritaria di “laici”.
Voglio dire: o il criterio del sorteggio (al quale verrò subito dopo) avrà davvero conseguito l’effetto di demolire le “correnti”, e allora l’organismo disciplinare avrà perduto in tal caso ogni capacità di “patteggiamento” intercorrentizio nella valutazione delle responsabilità prospettate dalla Procura generale della Cassazione, e comunque avrà perduto quell’abitudine al perdonismo lamentata da molti, e al limite la tentazione di valutare diversamente gli illeciti in relazione all’appartenenza correntizia degli incolpati, con la conseguenza che l’istituzione di un’Alta Corte in luogo della Sezione disciplinare non sarà servita a nulla; oppure l’effetto demolitorio della struttura correntizia non sarà riuscito, e allora tra Alta Corte e Sezione disciplinare non vi sarà alcuna differenza nel comportamento “perdonista” o (peggio) eventualmente discriminatorio nei riguardi degli incolpati.
Sull’Alta Corte disciplinare c’è poi da fare una riflessione ulteriore. Tre dei sei componenti “laici”, diciamo così, saranno nominati dal Presidente della Repubblica. A questo punto è facile supporre che il presidente dell’Alta Corte verrà scelto di regola, una regola che potrà trasformarsi in una prassi, tra i componenti di nomina presidenziale. Questo significa che il potere del Presidente della Repubblica nei confronti della magistratura, invece che formale e meramente simbolico, diverrà effettivo e davvero pregnante, agendo il presidente dell’Alta Corte un po’ come l’aiutante di campo del Capo dello Stato in una materia delicatissima come è quella (appunto) disciplinare.
A ciò si deve aggiungere che la possibilità del Presidente della Repubblica di porre il veto ad un argomento che il Consiglio superiore pone all’ordine del giorno non risulta essere mai stato ufficialmente e formalmente rinunciato e tanto meno abolito.
Deriva (o potrebbe derivare) da tutto ciò un forte incremento del ruolo del Presidente della Repubblica nei riguardi della magistratura, un ruolo che nel dopo Cossiga sembrava definitivamente ricondotto ad un qualcosa di poco più che simbolico.
In conclusione, mi chiedo a cosa in realtà possa servire questa Alta Corte disciplinare. Probabilmente, nelle intenzioni, a mantenere l’uniformità di giurisprudenza in materia disciplinare, che potrebbe altrimenti andare compromessa – in ipotesi – se la competenza disciplinare fosse suddivisa all’interno dei due istituendi Consigli superiori. Solo che – allora – assai più che istituire una sconosciuta Alta Corte disciplinare, composta comunque da giudici e da pubblici ministeri, sarebbe da mettere allo studio una strategia che senza bisogno di alcuna revisione costituzionale si muova su due piani: primo, lasciare la competenza disciplinare ad un organismo ad hoc comune alle due sezioni, dei giudici e dei pubblici ministeri, in cui potrebbe suddividersi il CSM esistente; secondo, rendere “continuo” il lavoro del CSM: “continuo”, intendo dire, a somiglianza di come funziona la Corte costituzionale. All’uniformità verrebbe così ad aggiungersi la continuità, potendosi in tal modo evitare – tra le altre cose – incongruenze e rotture di giurisprudenza. Su questo punto dirò qualcosa tra poco.
Sull’Alta Corte disciplinare vorrei fare un’ultima riflessione. Si è prospettata da più parti l’idea, di cui abbiamo avuto un’eco anche in questo Convegno, di una Corte disciplinare competente non per i soli magistrati ordinari, ma per tutti i magistrati: ordinari, amministrativi e contabili (e non so se anche militari). Questa idea, non possiamo negarlo, propone tra “il dire” e “il fare” un’impresa titanica: riportare ad unità la funzione giurisdizionale, oggi ripartita tra quattro organismi distinti. Mi pare, questa della Corte disciplinare unica, un’idea che meriterebbe di essere meglio meditata.
Ho parlato all’inizio di “troppo” e di “vano” nei contenuti della riforma.
Il “vano” nel senso di inutilmente offensivo e inutilmente dannoso, oltre che probabilmente inefficace, è il criterio del sorteggio per individuare i componenti dei due Consigli superiori.
Qui parlo del sorteggio per i componenti “togati”. Per i componenti “laici”, vale a dire di provenienza parlamentare, imporre l’obbligo del sorteggio – sia pure “mitigato” – al Parlamento (organo della generalità politica e sovrano per delega elettorale) è materia che potrebbe formare oggetto di riflessioni approfondite che qui sarebbe però fuori luogo di fare, e anche fuori del poco tempo riservato a ciascuno di noi.
La scelta del sorteggio per la individuazione dei membri “togati”, dicevo, verrebbe a gridare alto e forte che la Magistratura italiana è incapace di gestire quello che è il metodo democratico per eccellenza. Elezione viene dal latino eligere, che significa scegliere. Dunque, sostituendo all’elezione il sorteggio, cioè strappando dalle mani dei magistrati la possibilità di scegliere, si verrebbe a dichiarare ufficialmente che la democrazia, che il metodo democratico è troppo esigente, è troppo “difficile” per i magistrati italiani; o meglio, che i magistrati italiani possono, sì, votare (e ci mancherebbe altro…!) in occasione delle elezioni politiche e quindi scegliere in vista dell’interesse generale del Paese; ma non possono invece votare quando è in ballo il loro proprio, più ristretto interesse. Una offesa, questa, che la Magistratura italiana non merita.
Qui apro un breve inciso. Cacciato dalla porta, il sorteggio potrebbe tuttavia rientrare dalla finestra, se fosse impiegato per la composizione delle Commissioni del CSM, e segnatamente della Commissione Uffici direttivi e della Sezione disciplinare. Qui chiudo l’inciso.
Piuttosto che al sorteggio, è ben possibile pensare di rendere “continuo” il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura sul modello della Corte costituzionale, in modo che l’elezione di ciascuno dei componenti del CSM avvenga scaglionata nel tempo. Questa modalità di elezione avrebbe, da un lato, il vantaggio di dare coerenza di indirizzo al “governo” del Consiglio superiore della magistratura e, da un altro lato, ridurrebbe al minimo o al limite annienterebbe del tutto la “presa” delle “correnti” sul CSM, costringendole così a interrogarsi sul loro futuro. E tutto ciò, dico, senza recare alcuna offesa alla Magistratura.
C’è poi in aggiunta un problema di competenza, di spessore culturale. Voi tutti lo sapete come lo so io: esercitare il ruolo di consigliere del CSM non è come fare – con tutto il rispetto – il direttore di un ufficio postale di media grandezza disperso qua e là sul territorio nazionale.
Gestire il ruolo di consigliere del CSM è un compito delicatissimo per il quale occorrono intelligenza, sensibilità, competenza. La costante interlocuzione con il Ministro della giustizia sul terreno di tutto ciò che riguarda le normative di ordinamento giudiziario, e ancora in tutti i casi di ‘concerto’ con il Ministro sulla nomina dei vertici degli uffici giudiziari, e infine se vogliamo anche quando a promuovere l’azione disciplinare sia lo stesso Ministro, fanno del CSM un organo non solo (e non tanto) di (auto) governo in senso gestionale della magistratura, da svolgere semplicemente sulla base di tabelle e procedure ormai consolidate, quanto piuttosto un organo di co-governo della politica giudiziaria.
Certo, non è possibile pretendere consiglieri della levatura di Giovanni Palombarini, di Gianfranco Viglietta, di Elvio Fassone, di Alessandro Criscuolo (destinato di lì a poco ad assumere, dapprima, il ruolo di giudice, e poi di Presidente della Corte costituzionale); e poi ancora del livello di Alfonso Amatucci, di Nino Condorelli, di Giacinto de Marco, che si andavano ad aggiungere a giuristi del calibro di Vittorio Sgroi, Procuratore generale, e di Antonio Brancaccio, primo presidente della Corte di Cassazione, che io ebbi la fortuna e l’onore di avere tutti come compagni di avventura in quel CSM che lavorò dal ’90 al ’94, quando tutt’intorno cadeva a pezzi, sotto i colpi di “Mani pulite”, la decrepita prima Repubblica, e insieme ad essa cadeva a pezzi un intero ceto politico.
Certo, non è possibile – dicevo – pretendere tanto. Ma è invece possibile pretendere che non si scivoli verso l’estremo opposto, dove il criterio del sorteggio ci condurrebbe senza ombra di dubbio. A meno di ritenere, come sembra fare il Ministro Nordio in un articolo di giornale dal titolo La vera giustizia e i dadi di Rabelais, apparso su Il Messaggero del 27 gennaio 2025, che «La Giustizia è una specie di lotteria: si tirano i dadi non per divertimento, ma per calcolo. V’è almeno una probabilità su due di decidere giustamente. E non è una percentuale da poco».
Dicevo all’inizio che il metodo del sorteggio sarà probabilmente inefficace, e quindi vano in tal senso. Resterei infatti sorpreso e meravigliato se, nel Paese dove vale il detto per cui “fatta la legge, trovato l’inganno”, l’ANM non sapesse mettere in campo una “contromossa” capace di smorzare gli effetti della ‘mossa’ del sorteggio sulla vita delle “correnti”.
Resta il fatto, lo ripeto, che il metodo del sorteggio come criterio per l’individuazione dei “togati” che siederanno all’interno dei due CSM si presenta, nel suo scopo esplicito, come il tentativo di abolire per legge la struttura correntizia che caratterizza la magistratura italiana. Il sorteggio rischia di buttare il bambino insieme all’acqua sporca. Invece, l’eventuale continuità di funzionamento del CSM, come ho già detto, butterebbe via solo l’acqua sporca salvando il bambino, cioè salvando le “correnti” nel loro aspetto positivo di luoghi di socializzazione, di dibattito e di confronto dei magistrati, e abbandonando per la strada ogni contesa tra di esse circa le “spoglie” degli uffici direttivi, che andranno ai più degni.
2. In questo secondo intervento vorrei dire qualcosa a proposito di due aspetti della riforma Nordio.
Il primo riguarda la scelta della fonte normativa, se la legge ordinaria o la legge di revisione costituzionale. Anche volendo portare fino in fondo un discorso di separazione rigorosa delle carriere, non c’è alcun bisogno per realizzarla di una legge di rango costituzionale; sempre che non si voglia sostenere l’idea – come in effetti alcuni autorevoli studiosi (G.U. Rescigno, C. Pinelli) hanno sostenuto convintamente – che l’unicità della carriera dei magistrati ordinari e l’unità dell’ordine giudiziario stanno e cadono insieme; sempre che non si voglia cioè sostenere l’idea, detta in altre parole, che l’unitarietà della carriera costituisca un elemento indefettibile dell’unità dell’ordine giudiziario voluta dalla Costituzione.
Voglio dire che per centrare lo scopo di separare le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, pur mantenendo inalterata la loro comune appartenenza all’ordine giudiziario e al godimento delle relative garanzie di indipendenza esterna e interna, la forma di legge costituzionale è, a parer mio, un di più che va oltre.
La normativa di ordinamento giudiziario – per l’esattezza, la riforma Castelli nel 2005, e poi la riforma Cartabia nel 2022 – ha progressivamente diminuito, fin quasi ad azzerarla, la possibilità di transitare da una magistratura all’altra, e cioè dalla magistratura giudicante alla magistratura requirente, e viceversa. Allo stesso modo, a mio avviso, ben può una legge ordinaria sull’ordinamento giudiziario abolire quel solo passaggio tra le due magistrature che oggi ancora residua.
Di fronte poi al pericolo, che in molti (e forse non a torto) paventano, di un indebolimento nei pubblici ministeri della cultura della giurisdizione da intendere come cultura dell’imparzialità nell’accertamento dell’innocenza e della colpevolezza dell’indagato in ogni fase e grado del processo; di fronte cioè al pericolo che alla separazione delle carriere possa seguire un divorzio tra le due magistrature in termini di cultura volta a perseguire finalità di giustizia, è possibile mettere in campo, sempre a livello di legislazione ordinaria, provvedimenti capaci di sopperire a un tale indebolimento, o di contrastarlo.
Uno è il potenziamento degli uffici del Gip. Questo problema si pone non tanto in termini quantitativi, non dipende cioè tanto da una insufficiente consistenza numerica dei giudici addetti all’ufficio del Gip presso i vari tribunali, la quale peraltro non può che riflettere in proporzione i vuoti nell’organico della magistratura ordinaria, dal che derivando un’ovvia minore capacità di effettivo controllo delle richieste del Pubblico ministero. No, il problema è un altro; e mi spiego.
Premessa. Nel processo “accusatorio” – genere al quale partecipa anche il nostro processo penale, pur con qualche zoppia –, a lume di logica e per come è vissuto nei Paesi d’origine, la fase cruciale è il dibattimento, dove è stabilita l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato. È questa la fase del processo illuminata dai riflettori dell’attenzione pubblica.
Da noi, le cose vanno esattamente al rovescio. Al centro della scena è la fase investigativa, quella in mano al pubblico ministero. La luce dei riflettori è direzionata tutta e solo su di essa. È qui che può aversi la “gogna mediatica”. La successiva fase del dibattimento – la fase decisiva del processo – si svolge invece di regola nel più totale disinteresse dei media. Si capisce quindi la centralità di ruolo che riveste il Gip nel garantire la stringatezza delle indagini preliminari.
Qui nasce appunto il problema, legato ad un fattore specifico e cioè alla modifica dell’articolo 406.1 c.p.p. ad opera della cosiddetta “riforma Cartabia”. Il nuovo articolo 406.1 ha, sì, provveduto a modificare il presupposto giustificativo per la proroga delle indagini preliminari portate avanti del Pm, che nel testo originario del codice consisteva nella «giusta causa» e che adesso consiste invece nella «particolare complessità delle indagini»; ma esso non ha innovato rispetto alla richiesta di proroga, la quale deve pur sempre contenere – oggi come ieri – la sola «indicazione della notizia di reato e l’esposizione dei motivi che la giustificano». Questo comporta – lo ha posto bene in luce Luigi Giordano, Riforma processo penale: la rimodulazione dei tempi delle indagini, in Altalex.com del 17-2-2023 – che il Gip non ha modo di penetrare negli interna corporis delle indagini al fine di misurare il loro livello di complessità, come invece sarebbe possibile a condizione di esaminare, da parte del Gip, l’intera documentazione del fascicolo. Sarebbe quindi necessario riformulare l’attuale articolo 406.1 in modo da allargare la “base conoscitiva” del Gip.
L’altra misura, finalizzata questa volta ad inoculare nei pubblici ministeri dosi di cultura della giurisdizione, è quella di ridiscutere quel ruolo di ricercatore attivo della notitia criminis che il sistema, agli articoli 370, 330 e 335 c.p.p., assegna all’organo promotore dell’azione penale. Dice l’articolo 370: «Il pubblico ministero compie personalmente ogni attività di indagine», mentre l’articolo 330 chiarisce che il pubblico ministero «prende notizia dei reati di propria iniziativa».
Questo significa che il pubblico ministero può andare a caccia egli stesso dei reati e dei loro colpevoli, magari dei colpevoli prima e dei reati dopo. Così stando le cose, quel pubblico ministero è portato – magari in perfetta buona fede – ad innamorarsi dell’ipotesi accusatoria formulata e portata avanti da lui stesso. Con l’inevitabile conseguenza che, senza un penetrante controllo del Gip, rischiano di andare a dibattimento accuse sprovviste di una qualunque ragionevole previsione di condanna. Come talvolta in effetti accade.
Sarebbe sufficiente abrogare l’articolo 370 e i connessi articoli 330 e 335 c.p.p., e a questo punto si verrebbe a ristabilire la fisiologia dei rapporti processuali: il pubblico ministero controlla la polizia giudiziaria che prende notizia dei reati, e la dirige; il Gip controlla il pubblico ministero circa il modo come questi porta avanti le indagini. Attività di polizia, attività giudiziaria, attività di giurisdizione vera e propria, l’una consecutiva all’altra.
Perché, allora, quel ricorso al procedimento di revisione costituzionale di cui è sostanziata la riforma Nordio?
Una risposta potrebbe essere questa: per rendere la riforma non più retrattabile in un futuro di media prospettiva, e inoltre buona e giusta grazie al (possibile, forse probabile) consenso dei cittadini in sede referendaria.
Sì; però, più al fondo, la risposta al quesito è un’altra: mentre ancora funziona la Costituzione del ’48, dovuta al lavoro, anzi al lavorìo, dell’Assemblea Costituente, è in fase di pre-parto una diversa Costituzione, la quale è destinata – nelle intenzioni del Governo in carica cioè delle forze politiche che lo sostengono – a soppiantarla. Una diversa Costituzione che fa perno, a livello di gestione del governo centrale, su due tasselli correlati: il premierato, e appunto la riforma della giustizia. Ne parlerò fra qualche minuto.
Vengo ora al secondo aspetto.
Se lo scopo prioritario della riforma è quello di mettere accusa e difesa su uno stesso piede di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale, adempiendo in tal modo all’imperativo di organizzazione processuale contenuto nell’articolo 111, comma 2, della Costituzione, allora non basta una rigida separazione delle carriere all’interno delle due magistrature; ci vuole altro! Non basta certo rompere il cordone ombelicale dell’unicità di carriera di tutti i magistrati, e creare un secondo CSM, e magari allocare gli uffici del Pubblico ministero in un altro Palazzo fuori e accanto al Palazzo di giustizia, perché accusa e difesa siano poste davvero su uno stesso piano davanti ad un giudice realmente equidistante rispetto alle due parti che si confrontano nel processo. Da questo punto di vista, la separazione delle carriere avrà certo un valore simbolico, ma nessun effetto pratico.
In realtà, soltanto a condizione di spogliare il rappresentante dell’accusa della divisa di magistrato per sostituirla con quella di avvocato del pubblico, invece che di organo dello Stato, come è nel Regno Unito e in altri Paesi più saldamente ancorati alle tradizioni giudiziarie inglesi, che sarebbe possibile – a quel punto – rendere davvero paritarie le due posizioni di accusa e difesa, e nel contempo andare a rafforzare quella equidistanza del giudice dalle parti, quale è prevista dall’articolo 111 della Costituzione. Anche se – lo devo subito avvertire – l’ipotetica recezione nel nostro diritto di una tale prassi (come di altre prassi giudiziarie) del common law rischierebbe (data la grande differenza nelle premesse storico-politiche) di produrre l’effetto paradossale consistente nella minore tutela di ciò che invece si vorrebbe garantire.
A questo punto ho l’obbligo, anche di fronte a me stesso, di affrontare un’ultima questione, forse la più importante. La questione è: davvero la riforma della giustizia portata avanti dal Governo in carica è destinata, nelle intenzioni degli autori o per forza delle cose, a mettere a rischio l’indipendenza del Pubblico ministero, se non della magistratura nel suo insieme, a fare cioè della magistratura la ruota di scorta della Politica?
Qui devo fare un passo indietro nel tempo.
Siamo nel 1981. I giuristi di orientamento socialista, a partire da una relazione di Federico Mancini e Pio Marconi intitolata Il giudice e la politica, relazione tenuta ad un Convegno organizzato dal PSI appunto nel 1981 (Una Costituzione per governare. La grande riforma – proposta dei socialisti, Marsilio editori, 1981, pagg.63-73), portarono avanti lungo tutti gli anni ’80 e fino ai primissimi anni ’90 l’idea di una profonda riforma della giustizia, inquadrata per di più all’interno di una (cosiddetta) grande riforma delle istituzioni (e qui si veda Giuliano Amato, Dal garantismo alla democrazia governante, in «MondOperaio», 1981, n. 6, giugno, pagg. 17-20).
Quel progetto di revisione dell’ordinamento giudiziario passava attraverso 4 momenti-chiave: responsabilità civile dei magistrati, divenuta legge nel 1987; riforma del codice di procedura penale, 1989; abolizione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e conseguente accentramento della politica di persecuzione criminale nelle mani del Ministro della giustizia; collegamento istituzionale del Pubblico ministero con l’Esecutivo.
A fronte di quella proposta, a sostegno della quale contribuii anch’io con innumerevoli scritti, la riforma Nordio appare come una versione “debole”, come una pallida controfigura.
Dati quei trascorsi, oggi dovrei dire a me stesso: meglio una riforma annacquata e un po’ ipocrita, che nessuna riforma. In altre parole, dovrei essere oggi un assertore, benché tiepido, di questa riforma. E invece no. Sono anzi preoccupato.
Mi spiego.
Quando noi giuristi di idee socialiste volevamo cambiare la Costituzione per metterla al passo con i tempi, la situazione della democrazia del nostro Paese era diversa. La differenza è doppia.
In primo luogo, c’erano allora i grandi partiti democratici e c’erano, al loro fianco, le grandi Confederazioni dei lavoratori; che insieme funzionavano da stabilizzatori della democrazia, che insieme assicuravano la tenuta democratica del nostro Paese.
In secondo luogo, avevano messo radici le libertà scritte nella Costituzione e avevano sviluppato il loro potenziale garantista le istituzioni a cui essa affidava il controllo circa i limiti imposti al Potere.
La democrazia italiana era in quegli anni sufficientemente al sicuro da poter sostenere un processo di ammodernamento senza rischio. Era, o appariva essere, una democrazia ben radicata nel Paese, e salda.
Oggi la situazione è diversa. Oggi, per la prima volta dal 1948, abbiamo un Governo che mostra notevoli difficoltà ad accettare l’idea del Diritto come limite del Potere, e in generale che si abbiano troppe intermediazioni, troppi intralci sul percorso degli indirizzi politici di maggioranza. Solo l’Esecutivo deve avere un ruolo. Si sostiene cioè che il Governo, grazie alla delega del voto popolare, non debba avere davanti a sé l’intralcio di Carte e di Tribunali internazionali, che non si vuole che mettano becco negli affari di casa nostra: e quindi non l’intralcio della Corte di giustizia dell’Unione europea, e non l’intralcio della Corte penale internazionale. E sono d’intralcio all’azione di governo anche i giudici nazionali. Sono infine d’intralcio i troppi diritti, sia individuali che sociali.
Il Governo (un qualunque governo) non avrà difficoltà a portare avanti un processo di disboscamento della rete di diritti di libertà e di garanzie, rete oggi ancora fitta e ben funzionante, se e quando entrerà in vigore l’elezione diretta del capo del governo da parte del popolo: “la madre di tutte le riforme” costituzionali, il cosiddetto “premierato”.
In un tale mutato assetto istituzionale – che abbinasse la riforma Nordio della Giustizia al ‘premierato’ –, è anche possibile prevedere che possa prospettarsi una nuova declinazione dei rapporti tra le istituzioni giudiziarie e il Ministro della giustizia: quanto meno per ciò che riguarda il conferimento degli incarichi direttivi. Sarebbe cioè sufficiente al Governo, in sede di (comunque necessaria) riscrittura della legge 24 marzo 1958, n. 195 e successive modifiche, andare a riesumare i lavori preparatori della stessa legge, e segnatamente l’articolo 28 del disegno di legge approvato dal Senato della Repubblica nella seduta del 29 novembre 1956, dove si legge: «Spetta al Consiglio superiore deliberare: 1° su proposta del Ministro della giustizia…», ecc. La Costituzione di riferimento sarebbe, in tal caso, mutatis mutandis, quella del Portogallo. Separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri; due distinti Consigli superiori; gli uffici del Pubblico ministero inseriti accanto ai giudici nell’unità dell’ordine giudiziario; il Procuratore generale della Repubblica è nominato e revocato, su proposta del Governo, dal Presidente della Repubblica (articolo 133, lettera m).
L’idea di fondo è che il Giudiziario, come Potere dello Stato, debba camminare a fianco dell’Esecutivo e nella medesima direzione.
Un progetto, quello del binomio Meloni-Nordio, mirato a modernizzare le dinamiche di governo del nostro Stato. Con questa non lieve differenza, che la democrazia si presenta oggi nel nostro Paese fortemente indebolita. Oggi, senza i partiti tradizionali e senza i grandi sindacati dei lavoratori, la democrazia in Italia è un po’ come un gommone senza chiglia, esposto a slittare sull’acqua non appena il vento si alza.
In questa situazione, la magistratura gioca il ruolo di principale fattore di stabilità del nostro sistema democratico e di difesa della Costituzione voluta dai padri fondatori e fondata su valori e su principi quali l’eguaglianza, la libertà, il diritto al lavoro, l’accoglienza, la solidarietà, il riconoscimento e l’affermazione dei diritti umani individuali, il diritto di tutti, cittadini e stranieri, alla tutela giurisdizionale dei diritti e ad un processo equo; a cui si connettono le garanzie dello Stato di diritto, della separazione dei poteri e di una magistratura indipendente.
La magistratura, in particolare, è un Potere diffuso che ha i suoi momenti di aggregazione nel CSM e nella ANM. Un Potere che ha quale suo compito primario quello di interpretare, applicare e difendere la Costituzione vigente e le altre leggi del Paese, e in questo suo compito identifica sé stessa.
Perciò, il tentativo del Governo in carica di destrutturare le ‘correnti’, di isolare i magistrati gli uni dagli altri, di allontanare i pubblici ministeri dalla cultura della giurisdizione, di depotenziare il CSM; ebbene, tutto questo tentativo, velato nella forma, si presenta come la prima fase di un processo di trasmigrazione dalla Costituzione del ’48 ad una Costituzione diversa, da una democrazia liberale di tutela ad una democrazia di comando: governo forte, controlli indeboliti, diritti a rischio in nome della sicurezza pubblica e dell’interesse nazionale.
Si tratterà, al momento di votare al referendum costituzionale, di scegliere tra due Costituzioni, tra due tipi di ordinamento della Repubblica, tra due differenti livelli nella qualità della democrazia.
Il testo riproduce, con qualche modifica, gli interventi al Convegno telematico su La riforma costituzionale della magistratura del 4 aprile 2025, organizzato dal Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Verona.