1. La magistratura come una delle forme dell’esercizio della sovranità
È pernicioso parlare di “riforma” in materia di giustizia, se non si parte dai principi fondamentali. E segnatamente da una concezione del ruolo della Magistratura che risale ad un’autorevole linea di pensiero, che va da Vezio Crisafulli a Gaetano Silvestri[1]. Una concezione secondo la quale la Magistratura costituisce una delle molteplici “forme” in cui si esercita la sovranità popolare. L’idea retrostante è che la sovranità popolare possa essere ricondotta ad un rapporto di rappresentanza diretta tra lo Stato-soggetto, il “rappresentante”, e il popolo, il “rappresentato”. Tutte le potestà statuali, esplicazioni delle diverse funzioni, emanano da un’unica fonte di legittimazione, al tempo stesso giuridica e politica. Le funzioni dello Stato non sono altro quindi che forme (o, se si vuole, mezzi) dell’esercizio della sovranità popolare. La fonte originaria di questo rapporto di rappresentanza necessaria è la Costituzione che pone limiti tanto allo Stato-soggetto, quanto al popolo. In questa chiave, la “spendita del nome” del rappresentato è concretata nel caso della funzione legislativa dal divieto di mandato imperativo (art. 67 Cost.[2]) e nel caso della funzione giurisdizionale dall’art. 101 Cost., per il quale «la giustizia è amministrata in nome del popolo».
Occorre immediatamente precisare che il Costituente intendeva il concetto di popolo in chiave marcatamente pluralista non integrale. Il popolo si organizza e si confronta e talora confligge nelle diverse formazioni sociali, i Partiti politici, i Sindacati, l’associazionismo civico, formazioni sociali che contribuiscono al pieno sviluppo della persona umana, alla luce del principio fondante dell’eguaglianza sostanziale. In quest’accezione, non può esservi dubbio sulla preminenza del ruolo della Magistratura come “garante dei diritti”. E aggiungo, secondo un tòpos connaturato al costituzionalismo contemporaneo (da Montesquieu a Kelsen), innanzitutto dei diritti delle minoranze: cioè di quei soggetti che storicamente sono stati esclusi dall’esercizio dei diritti politici, sono vittime di discriminazione, sono vulnerabili. Sono, infatti, le minoranze i soggetti che hanno particolarmente bisogno di far sentire e “rappresentare” all’esterno la loro voce, non avendo in mano gli strumenti istituzionali posti nelle mani della maggioranza.
L’orizzonte muta sensibilmente se, al contrario, si assume una concezione integrale di popolo senza sfumature interne. Qui si annida un potenziale “lato oscuro”, specie se si adottasse una forma di governo basata sull’investitura di un “Capo” che, anche in forza della concessione di un esorbitante premio di maggioranza, traina con sé le due Camere e, potenzialmente, anche le altre istituzioni di garanzia[3]. In questa diversa accezione, la Magistratura avrebbe il dovere di “rispettare” la volontà popolare, intesa, per l’appunto, come la maggioranza contingente e di non interferire con il buon funzionamento della “macchina” del governo.
Il pacchetto di “riforme” in materia di giustizia presentato dall’attuale governo sembra sottendere proprio quest’ultima concezione della Magistratura come “garante” del potere contingente. Si possono leggere in questa prospettiva, per fare solo qualche esempio: le restrizioni di vario genere al ricorso alle intercettazioni telefoniche e allo loro pubblicazione[4]; l’abrogazione, con il consenso bipartisan, del reato d’abuso di ufficio, presentato come un intralcio alla realizzazione delle “grandi opere”[5]; l’ennesimo decreto “sicurezza” intesa non come sicurezza dei diritti per tutti, ma piuttosto come un diritto alla sicurezza dei ceti forti contro i settori marginali della società[6], a cominciare dagli ultimi degli ultimi, i migranti. Fino alla proposta in itinere della separazione delle carriere che, peraltro, è sia pure in forma parziale già vigente dal 2007 con la normativa che limita i passaggi dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti. La lettura complessiva della proposta di revisione suggerisce che il vero obiettivo è quello di rafforzare il controllo politico sulla Magistratura, rischiando di infrangere quel delicato equilibrio tra poteri dello stato stabilito dal Costituente. In breve, si prefigurano due CSM distinti per i magistrati addetti alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti e per ciascun CSM si rafforza la componente politica rispetto a quella togata. Per la scelta di quest’ultima si sostituisce l’attuale sistema di elezione, non esente da difetti, con un sorteggio secco che, come è stato notato, sottende una concezione corporativa della Magistratura che non tollera sfumature interne[7].
2. La Magistratura come “macchina” neutrale
Questa concezione passivizzante della Magistratura come tutela del potere contingente reca con sé un grande equivoco in ordine alla nozione di imparzialità, su cui ha fatto luce un recente fascicolo di Questione giustizia[8]. L’imparzialità è da intendersi come un risultato da conseguire faticosamente all’atto del decidere, facendo la tara delle proprie pre-comprensioni, per aderire alla lettera e allo spirito delle norme da interpretare e applicare. L’imparzialità si trasforma, invece, in vera e propria neutralità, laddove sia intesa come un attributo ontologico dell’attività del giudice. Un giudice che si potrebbe definire “apatico” che dovrebbe altresì rinunciare ad esercitare i diritti fondamentali spettanti ad ogni altro cittadino.
Come noto, l’idea della neutralità del giudice ha diversi precedenti storici. Penso tra le tante alla concezione illuminista del giudice come “bocca che riproduce la legge”, ovvero la volontà del legislatore e della classe sociale che aveva compiuto la rivoluzione. E, a suo modo, alla concezione weberiana per la quale una società capitalistica ben funzionante necessiterebbe di un diritto certo, prevedibile e calcolabile.
In una diversa forma quest’idea di neutralità torna prepotentemente alla ribalta grazie alle straordinarie, oltre che inquietanti, potenzialità dell’intelligenza artificiale basata sull’apprendimento automatico[9].
La “giustizia predittiva”, che fino a poco tempo fa era possibile solo in film distopici[10] ha cominciato ad avere le prime pur sperimentali applicazioni pratiche negli USA e non solo. In particolare, mi riferisco al caso di un algoritmo che “supporta” la decisione giudiziale nella valutazione della propensione alla recidiva dei detenuti sulla base di criteri asseritamente neutrali (si tratta del caso Loomis c. Wisconsin[11]). Peccato, che l’algoritmo tendeva a sovrastimare il rischio di recidiva per i detenuti di colore e specularmente a sottostimare il rischio per i detenuti bianchi. L’algoritmo in altri termini rifletteva il pregiudizio discriminatorio istituzionalizzato nei precedenti giurisprudenziali.
Fin ora – predicano gli “integrati”, il programma di IA costituisce solo un supporto dell’autonoma decisione giudiziale. È probabile che sia così. Ma occorre riflettere se nel contesto in cui l’efficienza fine a sé stessa diventa l’obiettivo prioritario da perseguire da parte della “macchina giudiziaria” (secondo la qualificazione data dal PNRR) e in cui il giudice è chiamato a rispettare gravosi “indicatori di performance”, il giudice stesso, specie di fronte a casi che presentato elementi di fatto e diritto ricorrenti, riuscirebbe a resistere alla tentazione di farsi aiutare (o persino sostituire) da programmi di intelligenza artificiale sempre più “autonomi”[12].
Affidare la decisione giudiziaria a “robot” sarà anche efficiente e garantirà la massima neutralità, ma sicuramente è un viatico per risultati dis-umani. Torna alla mente il racconto di Kafka “Nella colonia penale”. In cui un solerte funzionario che presiede al buon funzionamento di una macchina che esegue atroci condanne capitali a un certo punto dice con ammirazione: «Fin qui si è reso ancora necessario del lavoro manuale, ma d’ora in poi l’apparecchio lavorerà da solo».
3. La Magistratura come interprete dei valori della società
La nozione d’imparzialità non come presupposto logico e a-priori del giudice “macchina”, ma come il risultato concreto da conseguire nell’opera materiale della giurisdizione è avvalorata da quella dottrina che si è imposta in gran parte dei sistemi costituzionali contemporanei caratterizzati dalla rigidità, la dottrina del “bilanciamento”.
La dottrina del bilanciamento che incide tanto sull’opera del legislatore in sede di statuizione normativa, quanto sull’opera del giudice in sede di controllo ha il suo fondamento di legittimazione nella sua capacità di permettere una coesistenza tra i molteplici valori, diritti che contraddistinguono la vita delle odierne società pluralistiche. Nell’esperienza giuridica contemporanea non esisterebbe ex ante una scala di valori, diritti. Questi sono astrattamente posti su un piano di equiordinazione e sarebbe solo il caso concreto a orientare l’esito del bilanciamento[13]. Il diritto cui è assegnata minore rilevanza in relazione al caso concreto non dovrebbe essere sacrificato nel suo nucleo essenziale e potrà aspirare a divenire prevalente in casi diversi.
Questi aspetti enfatizzano le virtù pratiche del bilanciamento, ma ne svelano anche l’ambivalenza. Il bilanciamento ha la caratteristica essenziale di trattare i diversi diritti non quali situazioni giuridiche vincolanti, bensì quali beni fungibili, sostituibili in ragione del valore che il giudice valuta essere nel caso concreto quello prevalente[14]. È indubbio, infatti, che nel bilanciamento in astratto si dia imparzialmente conto di tutti i diritti e interessi meritevoli di protezione che insistono su una certa materia. Ma è altresì indubitabile che il bilanciamento in concreto si deve risolvere con una decisione e, dunque, la prevalenza di uno solo dei diritti concorrenti. Cosicché il giudice, chiamato istituzionalmente a depotenziare i conflitti e a favorire soluzioni di compromesso, mostrerà una tendenza a far prevalere quei diritti che risultano maggiormente compatibili e funzionali con quelli che sono i valori prevalenti in un dato momento storico e in una data comunità.
Quest’ambivalenza del bilanciamento è rilevata in maniera emblematica dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia avente ad oggetto il conflitto tra i diritti sociali dei lavoratori e le libertà economiche di circolazione nel mercato interno: libertà di prestazione di servizi (caso Viking-line), libertà di stabilimento (caso Laval), libertà d’impresa (caso Iraklis)[15]. In questi casi la Corte di Giustizia, sebbene in astratto abbia considerato i diritti sociali delle costituzioni nazionali e le libertà economiche sovranazionali alla stregua di beni equiordinati, nella decisione concreta ha finito per attribuire prevalenza alla sfera della libertà economica, in ragione della sua maggiore compatibilità con il valore della concorrenza nel mercato interno.
4. Contro l’uso “congiunturale” della Costituzione
Le diverse concezioni del ruolo della Magistratura, che si sono delineate in precedenza, se portate alle estreme conseguenze, denotano dunque un potenziale “lato oscuro”: il giudice come garante della maggioranza contingente; il giudice come macchina dis-umana; il giudice come mediatore esclusivo dei valori della società.
Concludo con tre brevi osservazioni riassuntive e conclusive.
Primo. In omaggio al principio della sovranità popolare, la Magistratura come potere costituito non dovrebbe mai smarrire il legame non solo simbolico con il popolo plurale di cui è “rappresentante”, sebbene in forma meno diretta rispetto agli altri poteri dello Stato[16]. Il compito istituzionale del giudice è di garantire prima di tutto i diritti delle minoranze dalle prevaricazioni della maggioranza, anche nei confronti delle opposizioni parlamentari.
Secondo. L’idea del giudice “apatico” si realizza nella forma di una macchina impersonale che trova la sua concretizzazione più recente nella “distopia” di un’intelligenza artificiale che finisce per sostituire la decisione umana. Tuttavia, l’istanza dell’imparzialità come risultato ci suggerisce in positivo che il giudice nella sua delicata opera di ponderazione dei valori e diritti non può (non deve) mai smarrire l’ancoraggio al testo scritto. Il suo giudizio non può cioè sfociare nel diritto libero, in valutazioni occasionalistiche e soggettivistiche che in ultima istanza finiscono per negare l’idea stessa di un ordinamento giuridico unitario, completo e coerente.
Terzo. La “riforma” della giustizia non è altro che l’espressione dell’idea, che ho stigmatizzato in precedenza, per la quale la Magistratura non debba interferire con l’operato del Governo pro-tempore. Governo che si prepara a trasformare la nostra preziosa forma parlamentare in un’acclamazione di un Capo che, potenzialmente, trascina con sé tutti gli altri poteri dello Stato. Si tratta – per riprendere l’espressione recente di Zagrebelsky – di un altro capitolo dell’«uso congiunturale della Costituzione»[17]. Non il primo e temo neppure l’ultimo.
[1] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (note preliminari) (1954), ripubblicato in Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p. 143 ss.; G. Silvestri, Sovranità popolare e Magistratura, in Costituzionalismo.it., n. 3, 2003.
[2] Secondo il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».
[3] Il riferimento è al disegno di legge costituzionale nn. 935 e 830-A volto ad introdurre nel nostro ordinamento il premierato elettivo, una forma di governo senza precedenti salvo Israele che peraltro l’ha abbandonata dopo alcune legislature. In via riassuntiva sul tema vedi il recente G. Azzariti, M. della Morte (a cura di), Il Führerprinzip. La scelta del capo, Editoriale scientifica, 2024.
[4] Per una sintesi della normativa A. Apollonio, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-penale/3154-d-d-l-nordio-intercettazioni-andrea-apollonio
[5] Si segnala, peraltro, la recente ordinanza del tribunale di Firenze che ha sollevato questione di costituzionalità della legge 9 agosto 2004, n. 114. La si può leggere a questa pagina: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2024/09/QLC-ART.-323-C.P.-OMISSIS.pdf
[6] Si tratta del Ddl. Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario approvato in prima lettura alla Camera.
[7] Per un approfondimento si vedano i contributi di S. Bartole, E. Scoditti e N. Zanon alla pagina: https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/it/la-lettera/10-2024-la-separazione-delle-carriere
[8] https://www.questionegiustizia.it/rivista/magistrati-essere-ed-apparire-imparziali
[9] Per semplificare, i “vecchi” algoritmi si basavano su un approccio logico-deduttivo. Il programmatore predeterminava i parametri sulla base dei quali l’algoritmo risolveva una specifica operazione. In altri termini, l’algoritmo si limitava a dedurre in maniera deterministica conseguenze da assiomi prefissati dal programmatore. Con il potenziamento enorme della capacità dei computer di immagazzinare dati e della loro velocità di calcolo, si afferma un approccio statistico-probabilistico. Gli algoritmi di nuova generazione, grazie all’istruzione a cui tutti noi contribuiamo inconsapevolmente (e gratuitamente), sono in grado di elaborare autonomamente criteri di inferenza e formulare proposizioni a partire da determinate premesse. Criteri che, in molti casi, risultano “incomprensibili” persino agli stessi programmatori. Per una ricostruzione a tutto campo si veda Y.N. Harari, Nexus. Breve storia delle reti di informazione dall’età della pietra all’IA, Bompiani, 2024 e A. Garapon, J. Lassègue, Justice digitale. Révolution graphique et rupture anthropo-logique, PUF, Paris, 2018; ed. it. a cura di M.R. Ferrarese, trad. it. di F. Morini, La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà, Il Mulino, 2021.
[10] Qualcuno ricorderà del film Minority Report del 2002.
[11] Per una ricostruzione dei profili costituzionali, A. Simoncini, Il linguaggio dell’intelligenza artificiale e la tutela costituzionale dei diritti, in Rivistaaic, n. 2, 2023.
[12] Sui rischi di un “agere sine intelligere” A. Cantaro, Vita e lavoro nel tempo dell’IA, in https://fuoricollana.it/vita-e-lavoro-nel-tempo-dellia/
[13] A puro titolo esemplificativo si vedano R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano; G. Pino, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in Ragione pratica, n. 1, 2007.
[14] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it., Edizioni scientifiche, Napoli pp. 304 ss.
[15] Per un inquadramento sistematico di questa giurisprudenza, S. Giubboni, Libertà d’impresa e diritto al lavoro nell’Unione europea, in Costituzionalismo.it, n. 3 e se si vuole il nostro Le delocalizzazioni fuori dalla Costituzione. Quali limiti all’iniziativa economica privata?, in Rivista giuridica del lavoro, n. 3, 2022, pp. 372 ss.
[16] La “consonanza” con il popolo è un tema caro al grande compianto Magistrato scrittore Salvatore Mannuzzo di cui ricordiamo, tra i tanti, il romanzo Procedura, Einaudi, 2015.
[17] G. Zagrebelsky, Tempi difficili per la Costituzione, Laterza, Bari-Roma 2023. In verità, l’uso congiunturale della Costituzione fu sdoganato ai tempi della riforma del Titolo V della Costituzione (2001), approvata con una maggioranza di pochi voti e per ragioni di battaglia politica interna ai partiti. Seguirono altri tentativi di uso politico della Carta: dalla proposta di “riforma” in senso presidenziale del centro-destra (2006), alla proposta di revisione Renzi-Boschi finalizzata al superamento del bicameralismo (2016), fino all’odierno patto tra le forze di maggioranza comprendente il premierato, l’autonomia differenziata e la separazione delle carriere.
Il testo, opportunamente rivisto, riproduce la relazione svolta il 19 ottobre 2024 presso Palazzo Gradari a Pesaro, nell’ambito della quarta edizione del festival Parole di giustizia organizzato dall’Università degli studi di Urbino Carlo Bo in collaborazione con Magistratura democratica.