Magistratura democratica
Magistratura e società

Un'allieva e il suo professore

di Sara Cocchi
avvocata in Firenze, consulente UE e OCSE

Storia di Eda e del suo professore Raffaello Ramat, attraverso la Firenze fascista e repubblicana

Da che ho memoria, il cognome “Ramat” ha sempre avuto un posto speciale nelle storie della mia famiglia, ed in particolare nei racconti della mia nonna paterna, Eda. 

Raffaello Ramat, padre del futuro magistrato Marco, era stato il suo professore di lettere al “superiore”, così chiamava lei l’Istituto magistrale “Giovanni Pascoli” di Firenze, dove si era diplomata nel 1941.

La nonna nominava Ramat con gratitudine e profondissimo rispetto. Talvolta, forse, con un po’ di malinconia.

Nata nel 1923, cresciuta in pieno Ventennio, la nonna era stata tra quelle alunne di scuola elementare che avevano inaugurato nel 1931, con un “saggio ginnico”, lo stadio di Firenze progettato da Pier Luigi Nervi e intitolato a Giovanni Berta, il figlio del proprietario delle Fonderie delle Cure ucciso in uno scontro fra squadre d’azione e militanti comunisti. Alunna diligente, aveva vinto varie volte premi scolastici, consistenti in libri per ragazzi, che decenni dopo avrebbe letto a sua nipote. La premiazione solenne, con le autorità schierate a consegnare i libri con il frontespizio recante in bella mostra la data con l’anno dell’era fascista in numeri romani, avveniva al Teatro Comunale di Firenze. Nel 1938, per la visita di Hitler a Firenze, a lei come a molti altri suoi coetanei fu insegnato a scuola l’inno nazionale tedesco, da cantare per accogliere il Führer alla Stazione di Santa Maria Novella, appena terminata nello stile razionalista del “gruppo toscano” diretto da Giovanni Michelucci.

Imbevuta – o come diceva lei, “rintronata” – dall’educazione di regime, lei stessa mi raccontava di aver discusso spesso con il suo amatissimo babbo, operaio specializzato delle ferrovie, diplomato di “sesta elementare” e socialista “di Nenni e Saragat”, che si era impegnato il quinto dello stipendio per far studiare quell’unica figlia quando da bambina gli aveva detto di voler fare la maestra.

Dopo il 1938, quando già lei era appunto al “superiore”, e le leggi razziali erano ormai vigenti, Eda, quindicenne, sedicenne, si trovò a notare che di tanto in tanto, qualche sua compagna di classe non veniva più a scuola. Si veniva poi a sapere che le famiglie si erano trasferite. «E voi?», le ho domandato tante volte. «E noi, nulla… non ci si chiedeva il perché. Si capì dopo». Durante il sabato fascista, insegnanti e studentesse andavano a scuola in uniforme fascista. Solo uno dei suoi professori si distingueva, indossando la divisa da alpino: il suo professore di lettere, Raffaello Ramat. 

Studentessa curiosa e appassionata, quale poi è rimasta intimamente per tutta la sua lunga vita, la nonna rimase colpita, folgorata, da quel professore diverso, severo, integerrimo, che spiegava Manzoni, Alfieri, Carducci, prendendosi il rischio di proiettarli sull’attualità. Tante domande cominciarono ad affacciarsi alla mente di Eda: «Se non fosse stato per lui…», mi ha detto qualche volta, senza finire la frase. 

Intanto, l’Italia era ormai in guerra. Non potendo sostenere l’esame di maturità, Eda e le sue compagne di classe furono valutate con il solo scrutinio finale. Dopo il diploma, la preparazione all’esame di ammissione alla facoltà di Magistero. Per tutta l’estate del 1941, Raffaello Ramat preparò lei e altre quattro compagne di classe con lezioni supplementari (ovviamente gratuite) di letteratura e latino. Spesso la nonna mi ha raccontato di quei pomeriggi di gioventù, e a me pareva di vederla, ragazza, fare ciò che le piaceva di più. A ottobre furono ammesse tutte al Magistero. Ogni tanto venivano a sapere che qualche amico era morto al fronte. 

Nel 1942, Ramat fu mandato al confino, a Larino. Per tutto il tempo, l’allieva e il professore mantennero rapporti epistolari. In famiglia ancora conserviamo alcune lettere: qua e là, frasi cancellate dalla censura. 

Poi, l’8 settembre 1943. Nel 1944, Eda andava all’università in via del Parione, in centro, camminando sulle macerie del Ponte Santa Trinita, bombardato: «Si camminava all’altezza dei primi piani dei palazzi». Per contribuire al pagamento dei propri studi, cercava lavoro. Fu Ramat a metterla in contatto con la casa editrice La Nuova Italia, diretta da Ernesto Codignola, per un lavoro di segreteria. Qui, di tanto in tanto, smistava o trasmetteva messaggi per gruppi della resistenza. Di questo, però, la nonna non mi ha mai detto altro. Lei stessa mi confessò di non aver mai avuto molti dettagli su ciò che le veniva chiesto. Chissà, forse lo stesso Ramat voleva evitare di esporla. 

A poco più di 22 anni, Eda vota per il referendum costituzionale. Vota per la prima volta in vita sua. Le ho chiesto una volta se fosse stata emozionata. «Mah… eravamo inebetiti, era una cosa talmente nuova; non si aveva la consapevolezza…». Niente retorica. 

Eda si laurea nel 1946, la prima della sua famiglia (sulla sua pergamena di laurea, la firma del rettore Piero Calamandrei), e nel 1949 si sposa. Negli anni successivi, continua di tanto in tanto a scrivere al suo professore del “superiore”, ormai notissimo accademico e consigliere comunale a Firenze, informandolo di come la sua vita si andava costruendo. Ciò fino alla morte di Ramat, nel 1967. 

Così, attraverso i racconti della mia nonna, la storia di questo intreccio è giunta a me. 

08/02/2025
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