Gli storici (e non solo) lo sanno: la storia non si ripete mai uguale a se stessa. Non perché – ottimisticamente – gli uomini (o forse, e meglio: i detentori del potere) imparino dagli errori del passato; più semplicemente, ogni tempo è l’espressione di una irripetibile combinazione di fattori politici, sociali, economici, culturali che concorrono a delinearne la specifica identità.
Tuttavia: rinunciare alla storia, o forzare la storia a fare un mestiere che non è il suo, è un affar serio anche per il presente e il futuro delle società. Questo avviene ogni volta in cui un’esigenza argomentativa attuale si proietta sul passato dando vita a letture non interessate a conoscere quel passato e la sua inevitabile complessità, ma a sostenere un determinato punto di vista. Di modo che i richiami alla storia – molto frequenti in questa forma snaturante – non costituiscono uno dei varchi per guadagnare uno sguardo di profondità sullo stesso presente, per avvicinarlo muovendo dalla consapevolezza degli articolati itinerari che gli stanno alle spalle, ma finiscono per costituire un tassello, disinvoltamente maneggiabile, di impianti discorsivi integralmente o prevalentemente schiacciati sull’oggi.
Mi pare che qualcosa di simile si verifichi in occasione di alcune ricorrenze che scandiscono il nostro calendario. Il 25 aprile è tra queste: non se ne contesta frontalmente il significato, ma si ricorre a una serie di distinguo volti a ridimensionare, insieme alla portata della svolta incarnata da quella data, l’impatto che il fascismo ha avuto sulla storia italiana. Mi permetto, in proposito, di fare due minimi riferimenti, strettamente autobiografici. Il primo: un’amica coetanea mi raccontava che nella sua scuola – una scuola cattolica di un quartiere benestante di Roma – si leggevano, in quinta elementare, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana e si cantava, nei pullman delle gite, Bella Ciao. La si cantava insieme a Quel mazzolin di fiori: canzoni affiancate e affiancabili non perché vicine nei contenuti ma perché vissute come parte di una identità comune che poteva tenere insieme una canzone-simbolo della Resistenza e un motivetto sui sospiri d’amore di una giovane donna. Negli stessi anni, in una scuola pubblica fiorentina – la mia – si procedeva nello stesso modo: la maestra – politicamente conservatrice – ci faceva recitare ogni giorno una preghiera e, all’ultimo anno, anche noi leggevano le Lettere (ricordo ancora la copertina Einaudi bordata di rosso). Pure sulle canzoni il discorso era identico. Mentre, da qualche tempo, la decisione, soprattutto da parte degli amministratori locali, di cantare o meno Bella ciao costituisce una scelta di campo, uno dei fronti sensibili rispetto alle interpretazioni del 25 aprile e al modo con cui si decide di celebrarlo.
Il secondo riferimento: poco tempo fa, parlando di Costituzione e di cittadinanza democratica con gli studenti di una scuola superiore, mi è stata rivolta una domanda spiazzante (e sfidante): abituati a stili comunicativi rapidissimi e a ragionare anche per parole chiave e concetti sintetici, i ragazzi mi hanno chiesto di scegliere due termini capaci di identificare e, a un tempo, di marcare la distanza tra fascismo e democrazia. Mi sono sentita di rispondere calcando sulla differenza tra monismo e pluralismo. Assumere il monismo come una delle possibili cifre di lettura del fascismo non significa vedere in esso un orizzonte monolitico, anzi; come ampiamente messo in luce dalla storiografia, il fascismo fu un movimento composito, al quale affluirono diverse sensibilità ideali e che fu diversamente interpretato anche da chi vi aderì con convinzione. Richiamare il monismo vuol essere il modo per mettere in evidenza, al di là delle differenze, un tratto condiviso – la sistematica, programmatica delegittimazione delle voci non allineate – che poté contare su chiare enunciazioni teoriche e su altrettanto incisive traduzioni normative e istituzionali.
Dal punto di vista teorico: le riflessioni della pubblicistica di regime furono pressoché concordi nel sottolineare l’esigenza di ripensare i contorni dell’autorità, in un contesto, come quello primo-novecentesco, nel quale lo Stato sembrava implodere sotto il peso di una società crescentemente organizzata e crescentemente conflittuale (Rocco, 1920: «Lo Stato è in crisi; lo Stato va, giorno per giorno, dissolvendosi in una moltitudine di aggregati minori, partiti, leghe, sindacati, che lo vincolano, lo paralizzano, lo soffocano; lo Stato perde, con moto uniformemente accelerato, uno per uno, gli attributi della sovranità»). A servire non era dunque una riedizione, più o meno rafforzata, di passati autoritarismi (anche se il fascismo fu da molti interpreti, coevi e successivi, letto nei termini di una mera restaurazione autoritaria); a essere invocata fu invece una decisa inversione di rotta («una rinnovazione totale – dice Rocco – dell’idea dello Stato») rispetto alla concezione del potere che era stata tipica dello Stato liberale. Uno Stato, quest’ultimo, che, agli occhi dei giuristi di regime, si era condannato a una lenta e inevitabile agonia per tre essenziali ragioni: perché era uno Stato «agnostico» (Rocco), aperto a ogni ideale e a ogni programma: una «larva» di Stato (Rocco), incapace di farsi latore e promotore di una propria visione del mondo; perché, e in conseguenza di questa sua caratteristica, era uno Stato «immobile e lontano» (Bottai), «estrania[to] dalla concreta vita sociale» (Volpicelli), e perciò destinato a essere percepito dalla società come un corpo estraneo o, peggio, ostile; infine, perché aveva coltivato una visione errata dei diritti individuali, concepiti, anche nelle versioni più marcatamente statualistiche del pensiero ottocentesco, come uno spazio protetto, tendenzialmente inaccessibile (o solo eccezionalmente accessibile) allo stesso potere statuale.
E quindi: in luogo del (presunto) agnosticismo, serviva uno Stato espressione di una chiara ideologia intorno alla quale aggregare l’intera vita nazionale; in luogo di uno Stato lontano dalla società, un potere interessato a penetrarvi capillarmente attraverso una estesa attività di organizzazione e inquadramento del sociale; in luogo di uno spazio privato concepito come zona di esplicazione dell’autonomia e dei diritti individuali, una nuova idea del soggetto, da trasformare in «strumento ed organo dei fini nazionali» (Rocco). Salvo che in alcune declinazioni teoriche radicali, non si auspicò la scomparsa di una branca del giure qualificabile come privata, e distinta, come tale, da quella pubblico-statuale; essa, tuttavia, assumeva le sembianze di uno spazio cedevole, destinato a sopravvivere se e nella misura in cui ciò si fosse ritenuto funzionale alle esigenze del tutto statuale («Il Fascismo – cito sempre da Rocco – non vuole l’annullamento dell’individuo, anzi desidera il suo sviluppo, in quanto vuole utilizzare l’individuo, con tutte le sue passioni e le sue aspirazioni, nell’interesse sociale»; e anche: «la libertà è una concessione dello Stato fatta non nell’interesse dell’individuo, ma nell’interesse dello Stato»).
A emergere con chiarezza – dai discorsi della pubblicistica di regime – sono i contorni di un potere che per realizzare la sua vocazione totalitaria era tenuto ad attivare una pluralità di strumenti e a muoversi su differenti piani: doveva far ricorso a un articolato apparato poliziesco e repressivo (sfruttando anche un ingrediente invisibile, ma essenziale a ogni dittatura: la paura) e doveva, al contempo, adoperarsi per doppiare un obiettivo più ambizioso: conquistare il consenso delle masse e costruire l’italiano nuovo, compiutamente imbevuto della visione del mondo veicolata dal regime (un’opera – come si diceva allora – di «bonifica morale e fisica» dei cittadini). Questo si accompagnava alla lucida e precoce intuizione – tipica, peraltro di altre esperienze totalitarie del Novecento – delle potenzialità omologanti offerte dalla propaganda e dalla politica sociale: fronti di azione differenti, ma egualmente orientati a legare («saldare», secondo un termine al tempo diffuso) le masse allo Stato. Sorprende, al riguardo, la latitudine degli interventi immaginati (e non solo immaginati, come si dirà subito): dallo sport, al cinema all’arte – che secondo la Sarfatti poteva assolvere alla stessa funzione persuasiva svolta dal «manganello» – fino alle politiche socialmente orientate (previdenza, assistenza, infanzia, maternità, dopolavoro), a risultare era l’auspicato ricorso a una molteplicità di linguaggi e strumenti rivolti alla integrale fascistizzazione della società italiana.
Né si restò – lo si accennava sopra – sul piano delle teorie. Le traduzioni normative e istituzionali di questo ideario furono estese e incisive. In ordine sparso e con molte omissioni: è del 1925 la legge sulla stampa (n. 2307) che autorizzava solo pubblicazioni facenti capo a direttori che avessero superato il vaglio prefettizio (cioè governativo); dal 1922, in generale, fu costante l’attenzione dedicata alla stampa e alla propaganda attraverso l’istituzione di differenti organismi che culminò nel 1937 con la nascita del Minculpop. Sempre adottate nei fatidici anni 1925-1926 furono le leggi che spostavano sul Governo, e soprattutto sul suo capo, l’asse dell’ordinamento costituzionale (l. n. 2263 del 1925 e l. n. 100 del 1926); il 1926 è stato pure l’anno della legge sindacale (l. n. 563) che sanciva l’unicità del sindacato riconosciuto; l’anno del T.U. di p.s. (R. D. n. 1848) che, consentendo al prefetto di sciogliere associazioni, enti e istituti che svolgessero «attività contraria all’ordine nazionale dello Stato», determinò la sopravvivenza del solo partito fascista.
Risale al 1926 anche l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato (l. n. 2008), tappa rilevantissima di una nuova giustizia pensata per gli oppositori politici; era un organismo che lavorava con procedure analoghe a quelle dei tribunali di guerra e dunque caratterizzate da particolare speditezza e da una pesante compressione delle garanzie della difesa. Possono essere ricondotte a un’analoga istanza di articolazione degli strumenti di prevenzione e repressione penale – articolazione peraltro tipica di tutte le esperienze totalitarie – la nascita della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (1923) e dell’OVRA (1927), così come la riforma dell’istituto del confino, utilizzato per isolare dal contesto sociale persone sospettate di essere oppositori politici. Il linguaggio intriso di metafore belliche, del resto, testimoniava l’esigenza di differenziare i livelli di pericolosità sociale (c’era il delinquente "comune" e il "nemico interno", l’oppositore politico), ma anche di definire, in positivo, la nuova società (si doveva trasformare – come si diceva allora – il cittadino in un milite e la società in una milizia, in una falange devota alla causa del regime).
Ancora: nel 1928 (legge n. 1019) viene varata una riforma della rappresentanza che chiedeva all’elettore di accettare o meno, in blocco, la lista di deputati stilata dal Gran Consiglio del fascismo. Un modo – disse Rocco, all’epoca Guardasigilli – per conciliare il suffragio universale con l’endemica immaturità politica delle masse e per allontanare, al contempo, ogni riferimento all’idea di sovranità popolare. Nel 1939, si ha invece la sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni (l. n. 129), Camera cui non si accedeva attraverso elezioni, ma in virtù delle cariche ricoperte in altre organizzazioni del regime. Dal 1926, come noto, con l’istituzione dei podestà, erano stati soppressi cariche e organi elettivi anche nei comuni del Regno.
Non meno forti furono gli interventi nel campo del lavoro: oltre alla già menzionata legge sindacale del 1926, val la pena ricordare la legge n. 2300 del 1925 che riconosceva al governo la possibilità «fino al 31 dicembre 1926, di dispensare dal servizio, anche all’infuori dei casi preveduti dalle leggi vigenti, i funzionari, impiegati ed agenti di ogni ordine e grado civili e militari, dipendenti da qualsiasi Amministrazione dello Stato, che, per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio, non diano piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si pongano in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del Governo». È del 1928 la riforma del collocamento che, da un lato, obbligava ad assumere dalle relative liste, e, dall’altro, stabiliva la preferenza, nelle assunzioni, per «coloro che apparten[eva]no al Partito nazionale fascista e ai sindacati fascisti». Dall’inizio degli anni Trenta la tessera del partito divenne necessaria per svolgere alcuni incarichi, per ricevere promozioni, e poi per essere assunti (se ne parlava come di una vera e propria «tessera del pane», indispensabile per sopravvivere). Del 1931 è la nuova formula del giuramento prevista per i docenti dell’istruzione superiore, formula che prevedeva un dovere di devozione non solo alla patria ma anche al regime fascista (R. D. n. 1227). E se la riforma del 1923 aveva già irrobustito i tratti gerarchico-autoritari del sistema scolastico, la Carta della scuola, adottata nel 1939, esplicitava un’idea di scuola concepita come palestra di fascistizzazione della società italiana. E poi, dal settembre del 1938, l’adozione dell’insieme dei provvedimenti che determinarono una privazione progressiva e massiccia, ai danni della popolazione ‘di razza ebraica’, dei più elementari diritti e libertà, fino ai rastrellamenti e alle deportazioni iniziati nell’autunno del 1943.
È a partire da questa cornice, teorica e normativa insieme, tratteggiata – lo ripeto – in maniera del tutto incompleta e cursoria, che si può (si dovrebbe) aprire il dibattito dando spazio alle differenti interpretazioni del fascismo. È a partire da qui – soprattutto negli ultimi anni e in ambienti non certo tacciabili di inclinazioni revisioniste – che, in ambito storiografico, si è discorso e si discorre, a esempio, del rapporto tra fascismo e modernità/modernizzazione: per segnalare, da un lato, il legame decisivo tra il fascismo e il XX secolo, per vedere in esso una risposta, non l’unica né chiaramente la migliore, a specifiche sollecitazioni novecentesche; e, dall’altro, per sottolineare la rilevanza di alcune realizzazioni che sembrarono dar corso a questa anima del regime (si pensi all’ambito urbanistico e architettonico; alle politiche sociali; agli schemi scelti per l’intervento pubblico in economia, per la regolazione del sistema bancario ecc.). Non dunque il modo per censire anche "le cose buone" che il regime avrebbe fatto: ammesso che questa sia una categoria storiograficamente ricevibile, non si tratta di procedere a una dissezione del ventennio, ma di vedere anche in tali manifestazioni i tasselli di una storia più ampia, tasselli pienamente compatibili con il volto autoritario del regime e con lo stesso, pieno spiegamento della sua vocazione totalitaria («Questo è un vero tempio moderno, che oggettivizza i miti del credo fascista. L’idea di forza, espressa dalla mole gigantesca, e l’idea di universalità, rivelata da un classicismo imperituro, sono comprensibili e raggiungono la coscienza delle masse»; sono parole di Marcello Piacentini sul Palazzo di Giustizia di Milano).
Del pari, è muovendo da qui che si sono evidenziati alcuni elementi che avrebbero contribuito a smagliare la vocazione totalitaria del regime e a rendere quella fascista – per usare un’espressione che ha dato il titolo a un recente lavoro di Guido Melis – una «macchina imperfetta»; si è così posto l’accento sui conflitti interni al sistema fascista di potere e, ancor prima, sulle diverse anime del fascismo, anime che avrebbero reso difficile l’identificazione di un’unica e chiara linea programmatica attorno alla quale aggregare ideologicamente la società italiana. Ancora: si è sottolineato il ruolo giocato da resistenze, inerziali o intenzionali, provenienti da diversi ambienti professionali e dagli apparati burocratici, spesso sordi alle novità e tesi alla perpetuazione delle proprie logiche, anche nella trasmissione del potere. Il che ha consentito di distinguere tra i passaggi normativi o istituzionali che si sarebbero prodotti a causa del fascismo da altri che invece si sarebbero realizzati (solo) durante il fascismo. Su altri fronti, infine, si è messo in luce come alcuni interventi del regime possano aver prodotto effetti diversi da quelli perseguiti: tipico il caso della organizzazione corporativa della società che, in alcuni casi, sembrò aver favorito più un sentimento di appartenenza al gruppo e all’organizzazione di cui si il soggetto era parte che alla totalità statuale.
Tenere insieme simili fronti non è solo il modo che permette di rispettare la necessaria unitarietà e complessità di un’esperienza; è anche la via che permette di porre l’attenzione su un diverso e ulteriore aspetto. Che è questo: venti anni sono tanti, tantissimi, se si ha riguardo al prezzo che molti hanno dovuto pagare sull’altare del fascismo, ma sono anche un tempo molto breve, ove si immagini che sia sufficiente a rifondare ab imis la vita politica, istituzionale e sociale di un paese. Bisognerebbe dunque evitare di assumere ogni discrepanza tra intenti dichiarati dal regime e risultati effettivamente perseguiti come elemento atto a depotenziare la rilevanza del fascismo. Mi sembra, in poche parole, che questa "prova di aderenza" tra intenti e realizzazioni – che peraltro nessun altro periodo storico passerebbe a pieni voti – tenda ad assumere un carattere particolarmente stringente con riferimento al solo fascismo. Per la stessa ragione, credo sia importante non schiacciare il volto negativo del regime sui soli provvedimenti di discriminazione razziale: il fatto che abbiano rappresentato il capitolo più ignominioso del fascismo non deve portare a trascurare quanto avvenuto prima. Insomma: se anche quei provvedimenti non fossero stati adottati, non saremmo stati comunque di fronte un mero incremento degli indici di statualismo (e anche di statualismo autoritario) già presenti nell’esperienza liberale.
E dunque: se la democrazia nata sulle ceneri del regime non è stata pensata solo come un metodo, ma soprattutto come un programma, se non si è limitata, cioè, a fissare le regole del gioco, ma ha voluto ancorare il nuovo corso storico a precisi contenuti e riferimenti, l’antifascismo non è, e soprattutto non dovrebbe essere, prerogativa di alcune soltanto tra le forze politiche. Dovrebbe essere la condizione prima per abitare lo spazio democratico. Che è, per definizione, proprio in quanto democratico, uno spazio plurale e pluralista, incompatibile con quella idea di tacitazione delle voci difformi che non ha rappresentato uno dei molti possibili attributi del regime, ma un suo imprescindibile elemento identitario. È infatti a partire dal perimetro tracciato dalla Costituzione che si disegna una certa idea della libertà e dell’autorità, del soggetto e dei corpi intermedi, dei diritti e dei doveri, delle istituzioni centrali e locali e di molto altro.
Per tale ragione, se potessi dare un consiglio a chi occhieggia benevolo al ventennio, mi sentirei di dire questo: non c’è bisogno di richiamare il fascismo per fondare la propria identità politica, per quanto a destra ci si voglia collocare. Perché, lo si è detto all’inizio, la storia non si ripete mai uguale a se stessa (il che, evidentemente, non vuol dire che non vi sia pericolo di derive autoritarie) e perché questo incrocio confuso di passato e presente rischia di generare un monstrum, sì, grottesco, ma capace di provocare pericolosi smottamenti nel terreno sul quale si è costruita la democrazia. Prendere con nettezza le distanze da quel passato non è dunque soltanto un indeclinabile dovere civico e politico, ma anche una grande opportunità. Non un atto di opportunismo, ma un’opportunità nel senso pieno del termine, soprattutto per chi è salito al governo del paese proprio grazie ai meccanismi rappresentativi previsti e offerti a tutte le parti politiche da un ordinamento democratico.
Né la questione mi pare che assuma contorni differenti ove si concentri lo sguardo sul peso e sugli orrori perpetrati da altre dittature, magari di differente segno politico. La conoscenza storica, come il discorso pubblico, non può infatti diventare una sorta di concorso a premi volto a stilare la classifica dei migliori e dei peggiori (o dei peggiori tra i peggiori). Qui si tratta, più semplicemente ma anche più sostanziosamente, di non schivare il confronto con un capitolo rilevante della comune storia nazionale. Analogamente, la presenza di pagine oscure e opache della vita repubblicana non deve rappresentare un alibi per alleggerire il peso di quel passato nel nome di un ‘così fan tutti’. Anzi: è proprio la presenza di una Carta Costituzionale e di un ordinamento ispirato ai valori della democrazia e dello Stato di diritto, il riferimento che consente di denunciare la presenza di quelle pagine, di vedere in esse una deviazione dal corso normale delle cose e di chiedere, di conseguenza, che venga fatta luce e giustizia. Mentre il diritto (non solo l’illegalismo) ha rappresentato sempre, nelle dittature, uno degli strumenti con cui il potere si è affermato e attraverso il quale ha legittimato anche comportamenti persecutori e liberticidi.
Quello che segue non è un testo scientifico, ma una riflessione originata dalla ricorrenza del 25 aprile. Questo spiega la sostanziale assenza di riferimenti bibliografici