1. In termini culturali e giuridici, la decisione assolutoria del Tribunale di Forlì, che ha riconosciuto la non punibilità della diffamazione per la provocazione consistita nell’aver infangato la memoria di alcuni partigiani, si configura come una formidabile occasione per ribadire i fondamenti non solo storici ma anche normativi dell’antifascismo costituzionale democratico[1].
Non sfugge l’attualità della decisione adottata dal Tribunale forlivese, specialmente se si tiene conto che nell’attuale contesto storico-sociale, fortemente segnato da una emergenza pandemica senza precedenti, sta emergendo un rinnovato protagonismo di gruppi più o meno organizzati di c.d. “neofascisti” o comunque simpatizzanti e nostalgici di una realtà storico-politica del tutto archiviata dalla Costituzione repubblicana.
I recenti avvenimenti che hanno visto la magistratura impegnata su più fronti[2], chiariscono ancor meglio come in un clima di incertezze e paure collettive matura l’azionismo di correnti reazionarie ed estreme, la cui forza è alimentata, giorno dopo giorno, anche da singoli episodi come quello oggetto della decisione adottata dal Tribunale di Forlì, solo in apparenza bagatellari.
2. All’origine della vicenda che ha coinvolto l’attore Ivano Marescotti, figlio di partigiano romagnolo, vi è un post pubblicato su Facebook con il quale si denigravano i membri dello storico Battaglione Corbari, brigata partigiana italiana attiva durante il Secondo conflitto mondiale, nei territori di Forlì e Ravenna.
In particolare – a quanto si evince dalla Sentenza n. 822/2021 del Tribunale di Forlì – oggetto della pubblicazione sul social network Facebook erano numerose prese di posizione dell’autore del post, contenenti incitazioni all’odio contro alcuni partigiani della Brigata Corbari, severe critiche alla decisione dell’amministrazione comunale di intitolare un complesso sportivo ad un membro della «famigerata banda di Silvio Corbari», nonché incoraggiamenti a porre un freno alla «resistenza» in una città che, «volente o nolente, è stata in gran parte abilmente disegnata nell’epoca del genio fascista».
A tali esternazioni, l’attore Marescotti aveva replicato – nell’immediatezza della pubblicazione ed in uno stato di ira – postando commenti su Facebook dal contenuto offensivo rivolti all’autore di quei commenti che li aveva ritenuti lesivi del proprio onore e della propria reputazione. Ne scaturiva, così, un procedimento per diffamazione a mezzo social network, ex art. 595 c.p., che vedeva imputato proprio l’attore Marescotti.
Il giudice, nel riconoscere l’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 599 c.p., ha argomentato facendo ricorso agli stilemi propri dell’ordinamento democratico, affermando come, alla luce di precise disposizioni normative, non è accettabile il rifiuto all’emancipazione dall’esperienza fascista e al suo sistema valoriale che «con fatica e sacrificio è stato sovvertito con un processo iniziato nella Resistenza e conclusosi con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana».
Non v’è dubbio alcuno – aggiunge il giudice – «sulla portata offensiva dell’espressione» che l’attore aveva rivolto all’autore del post, tuttavia, «la condotta offensiva tenuta [...] non risulta però meritevole di pena ex art. 599 c.p. perché commessa nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui», in considerazione del retroterra culturale e familiare dell’imputato.
3. La sentenza del Tribunale di Forlì è, in sé considerata, attuale e innovativa.
A differenza di alcuni precedenti provvedimenti giudiziari di merito – che nel recente passato hanno destato qualche perplessità per la leggerezza con la quale i giudici avevano sminuito la rivendicata ascrizione di Casa Pound allo schieramento politico neofascista o per aver ritenuto che «la propaganda del nazismo non è prevista come reato»[3] – il provvedimento in commento, al contrario, restituisce alla collettività una lettura non soltanto storico-politica ma, a ben vedere, normativa dell’antifascismo.
In tale prospettiva, il giudice forlivese ha valorizzato elementi come l’aderenza alla cultura antifascista – trasfusa tanto nella Costituzione quanto in leggi ordinarie – riconoscendo il fondamento costituzionale e normativo della storia di riscatto democratico scritta dall’attivismo partigiano negli anni della Liberazione.
Il giudice, infatti, nel premettere che la provocazione sarebbe consistita nell’aver pubblicamente offeso la reputazione di alcuni partigiani, rigettato esplicitamente il percorso di emancipazione dall’esperienza fascista e apprezzato il sistema valoriale del regime, ha ritenuto sussistente il presupposto del fatto ingiusto altrui di cui al richiamato art. 599 c.p.
Sul punto, già a partire dal 1975 la Suprema Corte aveva affermato che l’ingiustizia del fatto altrui, deve intendersi in senso ampio, e cioè «non deve essere valutata con criteri restrittivi, cioè limitatamente ad un fatto che abbia una intrinseca illegittimità, bensì con criteri più ampi che comprendono anche fatti che la coscienza etica della collettività riprova in un certo momento storico»[4].
Tant’è che la stessa Corte Costituzionale, traendo le fila dalla giurisprudenza ordinaria, affermava, a sua volta, che il fatto ingiusto altrui viene definito come qualsiasi comportamento contrario alle regole sociali che improntano la convivenza civile, a nulla rilevando la sua contrarietà a norme giuridiche[5].
Stando così le cose, il contenuto dei post pubblicati su Facebook – evidenzia il giudice in sentenza – è obiettivamente ingiusto, nella misura in cui il sistema di valori del regime fascista è stato sovvertito «con fatica e sacrificio» proprio da quel processo di emancipazione dall’esperienza nazi-fascista conclusosi con l’iniziativa costituente e l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del 1948.
Già tali affermazioni basterebbero a ritenere l’offesa ai valori della Resistenza un fatto obiettivamente ingiusto, ponendosi come comportamento contrario a quella civile convivenza che proprio sul rifiuto all’ideologia fascista si fonda.
Ma, a ben vedere, il fatto appare obiettivamente ingiusto anche perché contrario a norme giuridiche. Tali indici normativi si rinvengono, chiaramente, nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, nonché in alcune storiche disposizioni di legge ordinaria che compongono, ad oggi, un articolato quadro normativo in materia di apologia del fascismo e di discriminazione razziale, etnica e religiosa.
Dacché, il giudice prosegue osservando che è «la legge stessa che tutela, in diretta correlazione con l’attuale assetto costituzionale, i valori della Resistenza, e dunque indirettamente delle persone che li hanno propugnati combattendo in prima linea come i partigiani».
Ecco perché le invettive immotivate, espresse con linguaggio sprezzante e di mera svalutazione dei valori della Resistenza, travalicano il mero diritto di critica, assumendo i caratteri di asserzioni provocatorie ed obiettivamente ingiuste, tali da scusare la reazione d’ira di colui che da esse, per sensibilità e formazione culturale, sia rimasto significativamente turbato.
4. La vicenda affrontata dal Tribunale di Forlì si inscrive nel più generale ambito dei limiti della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., nonché dell’addentellato diritto di critica ricompreso nell’alveo della libertà di espressione.
Lungi dal porsi come una velata censura, la decisione del giudice di Forlì offre invece l’occasione per riflettere sia sulla effettiva tollerabilità sociale e giuridica di affermazioni apologetiche, sia sullo stato dell’arte della legislazione penale in materia di reati di opinione.
Quanto alla prima questione, non sfugge il carattere antinomico delle affermazioni inneggianti – in qualsiasi misura – al partito fascista che sul piano socio-culturale e politico risultano quantomeno anacronistiche e certamente in contrasto con i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale richiesti dall’art. 2 Cost.
Ma, a ben vedere, neppure sul piano giuridico esse appaiono tollerabili, considerato che l’ordinamento giuridico appronta specifiche disposizioni, tanto sul versante costituzionale quanto su quello della legislazione ordinaria, volte ad impedire – in estrema sintesi – l’apologia del fascismo e i relativi discorsi d’odio, nonché la ricostituzione del disciolto partito fascista.
Il riferimento è, chiaramente, alla già citata XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, alla legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. Legge Scelba) recante «Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione», nonché alla legge 13 ottobre 1975, n. 654 (c.d. Legge Reale), di ratifica e di esecuzione della Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, e alla legge 25 giugno 1993, n. 205 (c.d. Legge Mancino) concernente «Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa»[6].
Vero è che, quanto ai reati di apologia di fascismo e manifestazioni fasciste, l’orientamento interpretativo, tanto dottrinario quanto giurisprudenziale, è ormai nel senso di ritenere tali reati integrati qualora i fatti in essi descritti si presentino in concreto idonei a ricostruire il partito fascista.
Tuttavia, è stato correttamente osservato come tale impostazione finisca per ripercuotersi sul giudizio prognostico del giudice – rendendolo ontologicamente incerto – ovvero sulla concreta applicabilità di tali disposizioni, una volta preso atto che i singoli atti apologetici o le singole manifestazioni, in sé considerati, difficilmente potranno risultare concretamente idonei a ricostituire il disciolto partito fascista, peraltro fatto autonomamente ricompreso dalla disposizione incriminatrice di cui all’art. 2 della Legge Scelba[7].
Il problema, allora, sta nella corretta contestualizzazione delle condotte che vengono in considerazione, atteso che le stesse fattispecie apologetiche di cui all’art. 4 della c.d. Legge Scelba, possono acquistare una maggiore o minore intensità delittuosa a seconda delle condizioni ambientali e del contesto temporale nelle quali vengono poste in essere[8].
Sulla scia di tale impostazione c’è chi si è domandato se – al fine di risolvere il dubbio di legittimità dei reati di opinione a causa del possibile contrasto con l’art. 21 Cost. – non sia preferibile procedere all’abrogazione delle fattispecie di apologia, lasciando in vigore il solo reato di ricostituzione del partito fascista.
Nonostante il valore simbolico della legge Scelba – affermano i sostenitori di tale impostazione – la proposta abrogazione non dovrebbe essere letta come una retrocessione sul fronte della tutela dei valori su cui si fonda il nostro ordinamento giuridico, bensì, nel mutato clima politico e sociale – ben lontano da quello immediatamente successivo alla nascita della Repubblica italiana – rappresenterebbe una presa di consapevolezza della solidità acquisita dal nuovo assetto democratico, che ben può rinunciare a forme così anticipate di tutela penale[9].
Come si accennava in apertura, però, l’attuale contesto temporale e la relativa condizione ambientale si connotano per fatti di cronaca di particolare allarme sociale ove dalle parole si è passati a fatti di rilevante gravità, che gettano quantomeno un alone di sfiducia sulla capacità di alcuni gruppi sociali di prendere le dovute distanze da un determinato clima politico e sociale.
Restano ancora attualissimi atteggiamenti di esaltazione di esponenti, principi e finalità proprie del fascismo alla luce dei quali le norme incriminatrici di cui all’art. 4 della Legge Scelba appaiono, più che obsolete, necessarie, specialmente se si considera che esse sono in un evidente rapporto di progressione criminosa con la più grave fattispecie di ricostituzione del partito fascista.
Forse, prima ancora di optare per la scelta abrogativa dei c.d. reati di opinione, sarebbe necessario incrementare la diffusione della cultura democratica, sulla consapevolezza che quella italiana è una Costituzione antifascista, nata dalla vittoria militare contro il fascismo e dal ripudio della sua ideologia, «tale per cui mai le forze politiche e ideologiche fasciste – in tutte le loro varianti neo-, para- o post- che siano – potranno pretendere di essere trattate alla stregua delle forze politiche e ideologiche non fasciste né, tanto meno, di invocare diritti costituzionali – come la libertà di espressione»[10].
[1] Anche per la Procura della Repubblica di Milano, in un caso del tutto analogo, si applica l’esimente della provocazione che scrimina i commenti offensivi contro una nota influencer che aveva invocato su Instagram l’intervento di Hitler a fronte di un “gay pride”, sul punto cfr., F. Buffa, Hitler, i gay e le reazioni su Instagram: una giusta richiesta di archiviazione, in questa Rivista, https://www.questionegiustizia.it/articolo/hitler-i-gay-e-le-reazioni-su-instagram-una-giusta-richiesta-di-archiviazione_26-11-2019.php
[2] Ci si riferisce alla devastazione della sede della CGIL ad opera di esponenti di Forza Nuova (https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2021/10/10/scontri-al-corteo-no-pass-a-roma-12-arrestati-tra-i-quali-i-vertici-di-forza-nuova-roberto-fiore-e-giuliamo-castellino_99d544bb-0477-4013-b554-2e22c64aea05.html) e alle recenti perquisizioni eseguite nei confronti di esponenti di associazioni sovversive di matrice neonazista e suprematista (cfr. https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/10/19/associazione-sovversiva-neonazista-perquisizioni-polizia_330f64a5-0427-41a1-b3e9-222b81166e37.html).
[3] Su tali vicende, cfr., F. Pallante, La propaganda nazi-fascista via social network e la Costituzione democratica antifascista, in questa Rivista, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-propaganda-nazi-fascista-via-social-network-e-la-costituzione-democratica-antifascista_20-01-2020.php
[4] Cass. Sez. V Sent. 2017/1975.
[5] In tal senso, cfr. Corte Cost., 23 aprile 1998, n. 140.
[6] Con il decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21, sulla c.d. Riserva di Codice, il testo delle disposizioni di cui all’art. 3 della legge 654/1975 e all’art. 3 del d.l. 122/1993, come convertito con legge 205/1993, è stato trasfuso nelle nuove fattispecie di cui agli artt. 604 bis e 604 ter, c.p.
[7] In tal senso, cfr. M. Pellissero, La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione Giustizia, 4/2015, 42.
[8] Sul punto, in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., Sez. I, 25 marzo 2014, n. 37577, Bonazza ed altro.
[9] M. Pellissero, La parola pericolosa, cit., 42
[10] F. Pallante, La propaganda nazi-fascista, cit., in questa Rivista https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-propaganda-nazi-fascista-via-social-network-e-la-costituzione-democratica-antifascista_20-01-2020.php