Questo passaggio racchiude il nucleo, teorico e morale, della lettera circolare indirizzata dalla dirigente del liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Firenze agli studenti, pochi giorni dopo l’aggressione di due ragazzi davanti al liceo Michelangiolo, per cui sono stati identificati sei esponenti di Azione studentesca.
Nel discorso Il fascismo eterno, pronunciato a un simposio organizzato dai dipartimenti di italiano e francese della Columbia University il 25 aprile 1995, per celebrare la liberazione dell’Europa, Umberto Eco ha posto la questione fondamentale: che cos’è il fascismo? come lo si può e lo si deve interpretare? e soprattutto, cos’è il fascismo oggi.
I totalitarismi non sono solo una realtà storicamente determinata e inerente ai regimi del Novecento. Sono anche un modo del pensare e dell’agire politico che celebra la forza, al posto di una religione, come ciò che può dare alle vite individuali il senso che cercano, e alle collettività organizzate tutta la potenza della massa indistinta che spezza la critica e il dissenso calpestandoli come granelli di polvere.
Visti da un’ottica giuridica, i totalitarismi si definiscono anzitutto per negazione, o meglio per contrapposizione: dove c’è del totalitarismo non c’è del diritto. Può esserci ‒ c’è stata, c’è ‒ della legalità formale, la quale però, come ci insegna Radbruch con la storica Formula, quando è piegata alle ragioni del totalitarismo diviene qualcosa di totalmente altro dal diritto, tanto da non poter nemmeno essere definita “diritto ingiusto” ma solo “non diritto”. Perché il diritto, anche nella sua dimensione più conservativa, e persino regressiva, deve pur sempre contenere almeno una pur minima aspirazione a sottrarre l’umanità alla legge della forza mentre se si piega del tutto a essa, facendosene il braccio istituzionale, smarrisce irrimediabilmente la propria natura genetica di ius.
Il pericoloso circuito che lega il primo pestaggio su un marciapiede qualunque ‒ in cui il branco aggredisce gli individui compiacendosi di quella forza fisica che gli dà ragione su di loro, senza la fatica di scindersi in persone autonome e pensanti ‒ alla tentazione esponenziale di uno Stato Nazione di imporsi allo stesso modo sugli altri Stati con l’aggressione, con la guerra, con la minaccia nucleare, la deportazione forzata e gli stupri di massa, è stato al centro dell’elaborazione culturale dal Secondo Dopoguerra a oggi.
Hannah Arendt, con gli studi sull’origine dei totalitarismi e sul trattamento degli apolidi, Jacques Derrida con lo studio del Geschlecht (ciò che indica la natura umana nel suo rapporto costante e sincronico con il sesso, la razza e la nazione) e, nondimeno, Norberto Bobbio e lo stesso Umberto Eco hanno continuato ad avvertire di questa banalità ricorsiva del fascismo eterno.
Quell’attitudine ad agire non prima ma al posto di pensare, spesso ambiguamente lusingata anche dall’esasperato individualismo occidentale e occidento-centrico, vuole vincere l’incertezza del proprio stare sulla Terra, il senso di precarietà, l’horror vacui, in estrema sintesi la paura della morte, con l’impulso a forzare contro gli altri. Sentirsi migliori nel fare sentire niente, nullificare, l’altro da noi, identificato per separazione in ragione della sua diversità. Perché così noi ci sentiamo invece qualcosa, e questo sentirci qualcosa ‒ che è più forte quanto più una collettività organizzata ci fa sentire parte di qualcosa più grande di noi, come una identità nazionale ‒ ci fa illudere di essere potenti e di non poter essere preda, noi, di quella precarietà e di quella incertezza, e di quella paura di morire.
L’ontologia del fascismo prova a vincere la paura della morte, di sentirsi un niente immerso nella natura smisurata e nella necessità che essa esercita su di noi, facendo sentire l’altro in questo modo, sotto di noi e in balia del nostro potere: non lo vedo, non lo sento, lo calpesto e basta perché è così. Posso rinchiuderlo, se voglio, separarlo dai suoi bambini e strapparglieli dalle braccia; posso ferirlo, posso vederlo annegare in diretta e ciò nonostante respingerlo, pensando “me ne frego”.
I muri e il filo spinato alle porte degli Stati, i campi di concentramento per i migranti e gli apolidi, l’aggressione e la guerra, la discriminazione e l’emarginazione sociale sono il fascismo eterno, e anche la guerra eterna e la forza eterna che stritola l’umanità.
Ma se questo descrive una parte, molto importante, della realtà non la esaurisce però tutta.
L’aspirazione a una base giuridica sovranazionale ‒ letteralmente al di sopra della sovranità nazionale ‒ che agisca come argine alla forza degli individui nello Stato e al contempo come argine alla forza degli Stati usata gli uni contro gli altri, è passata da una dimensione puramente teorica e utopica a una dimensione giuridico-programmatica proprio a partire dal Secondo Dopoguerra, grazie alla comune intelligenza delle Costituzioni europee antifasciste e dell’impegno civile che per generazioni le ha sostenute.
Il diritto internazionale, che era stato additato come cintura di castrazione alla potenza della nazione e della razza da Autori come Schmitt e Heidegger, compromessi con il nazismo, ha imboccato negli ultimi settant’anni una strada del tutto diversa e dalla quale non si può, non si deve, tornare indietro: verso la meta di una giurisdizione universale permanente, di contrasto ai crimini di guerra, ai crimini contro la pace e contro l’umanità, e di elaborazione euro-allargata (ma non euro-centrica) dei diritti umani degli individui e dei popoli.
Un percorso ancora molto imperfetto, frammentato in accordi, fonti e Corti, che ogni tanto dà l’impressione di avvitarsi su sé stesso senza riuscire a essere incisivo, ma che non per questo deve deflettere.
Ed è questo che, come giuristi e giuriste, noi riconosciamo come il “nostro” futuro e il nostro campo di azione: il diritto contro l’eterno non diritto, l’eterno fascismo, l’eterno pestaggio al marciapiede qualunque, l’eterna deportazione e l’eterno campo di concentramento.
È giusto che le ragazze e i ragazzi lo sappiano, loro che rappresentano il futuro della nostra specie, che sappiano dell’eterna lotta senza sosta fra le ragioni del diritto e quelle della forza, in cui sono immersi da prima di venire al mondo, da sempre e per sempre.
È bene che ne diventino, anche da giovani, anzi soprattutto da giovani, davvero consapevoli.
Per questo la lettera della dirigente scolastica di Firenze rappresenta un «esempio di sensibilità civile e di pedagogia repubblicana» come l’ha definita in una nota ufficiale l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia; ed è peraltro scritta con garbo e sobrietà tali da non poter urtare nessuna sensibilità culturale e politica che si riconosca nell’arco costituzionale e nel profondo spirito antifascista che lo sorregge.