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Quali diritti? Come parlarne a scuola e alle generazioni più giovani

di Michela Bianchi
responsabile di MC Editrice e presidente dell’associazione culturale MovimentiCambiamenti

Come riflettere insieme ai più giovani sul significato di diritto umano? Cosa viene incluso e cosa di fatto si esclude osservandolo alla luce dell’esperienza concreta? Nel libro-laboratorio Diritti in gioco (2004) avevamo affrontato il tema in un lavoro collettivo attraverso un cambio del punto di vista, ovvero, partire dalla vita reale e quindi dai bisogni, e verificare se e in che modo erano stati accolti e considerati nell’ambito del diritto. La scelta è stata quella di considerare alcuni beni comuni fondamentali: acqua, terra, cibo, sapere, salute, uguaglianza, pace. Il libro, molto utilizzato nelle scuole, oggi necessita di una ristampa e i cambiamenti in atto (sul piano geopolitico, economico, climatico, le nuove forme di sfruttamento, le guerre continue, le sistematiche violazioni dei diritti - e del diritto internazionale in particolare - che rimangono impunite se non addirittura avallate) richiedono una rinnovata riflessione. Accenniamo qui ad alcune questioni che andrebbero considerate e affrontate: una proposta, nell’intento di svilupparle attraverso un percorso ancora una volta collettivo.

1. Diritti in gioco, un progetto

Come parlare di diritti a bambini e ragazzi? Come riflettere insieme sul senso e sui limiti del concetto di diritto umano e prima ancora di diritto universale? 

Cosa viene incluso e cosa di fatto si esclude nel nostro concetto di diritti umani, osservandolo alla luce dell’esperienza concreta? Vale a dire osservandolo anche dai banchi di scuola dove siedono, vicini, ragazzi e ragazze di diverse culture, provenienti da ambienti anche molto lontani. E osservandolo in relazione a tutto ciò che vive e che dà vita sul pianeta, piante, animali, acqua, terra, energia.

Nel 2004 ci eravamo - io insieme ad un gruppo di persone che collaboravano con MC Editrice - posti l’obbiettivo di elaborare, attraverso contributi collettivi, questi interrogativi in una pubblicazione (Diritti in gioco) destinata alle scuole, come strumento di lavoro anch’esso collettivo. La prima sfida, allora come oggi, è quella di proporre una lettura capace di coinvolgere e stimolare i più giovani in un campo apparentemente complicato ed estraneo come quello dei diritti.

Ero partita dalla considerazione che a scuola, e non solo, il tema dei diritti veniva affrontato a partire dalle leggi internazionali e nazionali e quindi concentrando (e limitando) il discorso al diritto codificato. Terreno ancora una volta lontano, prescrittivo e perciò percorribile con difficoltà.  Per riflettere sulle questioni accennate sopra, occorreva spostare il punto di vista: ovvero, in estrema sintesi, partire dall’esperienza, dalla vita reale e quindi dai bisogni, e verificare se e in che modo erano stati accolti e considerati nell’ambito del diritto. Simone Weil in Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, così si pronuncia: “esiste una sola possibilità di esprimere indirettamente il rispetto verso l’essere umano: essa è data dai bisogni degli uomini che vivono in questo mondo, i bisogni terrestri dell’anima e del corpo”. Dunque dare la priorità ai bisogni e collegarli ai diritti, indipendentemente dal loro riconoscimento formale, rappresentava e rappresenta un’altra importante sfida, culturale, o meglio interculturale, che obbliga a prendere le distanze da alcune certezze e, specie rivolgendoci alle giovani generazioni, a ripercorrere insieme la strada dei valori.

 

2. Dai bisogni ai diritti, apertura al dialogo fra culture

Se l’intento è quello di aspirare a rendere vivibile la globalizzazione in atto, certamente ci si trova di fronte alla questione dei diritti, ma è altrettanto certo che il tema non può che essere sviluppato in modo collettivo e dialogico. Da qui la strada del dialogo interculturale che formi via via un tessuto capace di tener insieme, in un’ideale di giustizia, culture e tradizioni diverse.

La scelta adottata nel libro Diritti in gioco è stata quella di considerare alcuni beni comuni fondamentali - acqua, terra, cibo, sapere, salute, uguaglianza, pace - e raccogliere e annodare le narrazioni che su questi beni hanno elaborato vari popoli del mondo: fiabe, racconti, proverbi, storie, capaci di parlare immediatamente a bambini e ragazzi. Non si tratta ovviamente di proporre un rassicurante folclore, come spesso avviene, inchiodando le tradizioni di altri popoli in una fissità sempre uguale e fuori dalla storia, ma di mostrare ogni volta le trasformazioni in atto attivando la partecipazione e i contributi dei lettori. Per questo, i testi – che narrano di valori e bisogni - si abbinano ogni volta con i dati della realtà economico e sociale e, come accennavo, si mettono in confronto con i diritti codificati e la loro concreta applicazione.

Il libro è stato molto utilizzato nelle scuole, è stato oggetto di numerosi laboratori e lavori teatrali e continua a essere richiesto. Sembra dunque importante proseguire il percorso iniziato, specialmente con ragazzi e insegnanti: è diventata necessaria una ristampa e altrettanto necessario prevedere un aggiornamento. Infatti, se l’approccio di base mantiene tutta la sua validità, il tempo trascorso (vent’anni) e soprattutto gli avvenimenti che lo hanno caratterizzato obbligano a riprendere il filo di alcune riflessioni. Il cambiamento geopolitico, economico, climatico che attraversiamo si accompagna a nuove forme di sfruttamento, a ingiustizie diffuse, a guerre continue, a crimini inconcepibili nel mondo europeo solo qualche decennio fa, a sistematiche violazioni dei diritti - e del diritto internazionale in particolare - che rimangono impunite se non addirittura avallate. Molti dei valori democratici che l’Occidente pretende di “esportare” sono stati immiseriti - anche a causa del modello economico che sì è consolidato di recente - o di fatto inapplicati. Alcuni storici, e non solo, sottolineano, sulla base di una rigorosa documentazione, che i crimini commessi dalle democrazie occidentali negli ultimi anni contro l’umanità sono decisamente superiori a quelli perpetrati dalle dittature.

Nel libro riportavamo le parole di Raimon Panikkar, scritte nel 2002: «dopo l’ultima guerra mondiale ci sono state centinaia di guerre che hanno causato più di 30 milioni di vittime, oltre a tragici effetti indiretti come profughi, miseria, ingiustizie; eppure noi non ci siamo soffermati a pensare se valesse la pena averle combattute né a valutare la situazione disperata in cui avevano gettato tanti esseri umani». La situazione in cui viviamo oggi dovrebbe portare ad una consapevolezza maggiore, consapevolezza che certamente e faticosamente si fa strada, ma quando lievita dai singoli ai movimenti organizzati viene spesso soffocata o oscurata. Cerchiamo comunque di vedere i segnali. Mi sembra si possano cogliere almeno due fattori nuovi in questo, seppur limitato, risveglio: la volontà di fare luce, di fronte ai crimini perpetrati oggi, su quelli commessi nel recente passato, sulle oppressioni e violazioni dei più elementari diritti dei popoli ad opera delle potenze occidentali che per anni sono passati sotto silenzio (dall’Algeria, al Kenia, dall’Iraq all’Afghanistan, alla Serbia e così via).

In secondo luogo, l’emergere della consapevolezza, certo dolorosa e di difficile ammissione, di vivere in una democrazia sempre più condizionata dai poteri economici e dai capitali finanziari e che non può certo essere portata a modello. 

 

3. Domande da riformulare

E questa consapevolezza porta con sé - deve portare con sé - la capacità di una visione diversa e la forza di affrontare il cambiamento che ne deriva. Schemi e certezze che ci hanno rassicurato per anni, in un’ottica democratica e progressista che oggi non regge alla prova dei fatti, devono essere rivisti e coraggiosamente superati.

Del resto, tornando al libro, proprio il cambiamento del punto di vista è stato uno dei motivi ispiratori, con la sfida culturale che ne deriva. Dunque, le domande che ci siamo posti vent’anni fa nel corso della stesura del libro diventano più evidenti, segnano solchi più netti e profondi. Le domande, in sintesi, erano e sono queste:

cosa si intende per diritti umani e per loro difesa? Qual è il significato, il valore delle tante Carte e Dichiarazioni universali? E quanto c’è di “universale” in queste Carte, per poterlo estendere a tutti quei popoli, a tutti quei soggetti che non hanno partecipato alla loro stesura?

Consideriamo il termine “universale” utilizzato nella Carta dei diritti dell’uomo: se ci poniamo dal punto di vista di un osservatore esterno, il termine può far pensare che si voglia indicare quella Carta come riferimento universale per ogni questione riguardante la dignità dell’essere umano nel mondo, dimenticando che ogni cultura ha prodotto una sua visione della dignità dell’uomo; come ha rilevato Panikkar «sarebbe come dire che la cultura che ha dato origine al concetto di Diritti dell’Uomo è anche chiamata a diventare la cultura universale». Aggiungendo che questo potrebbe spiegare quel certo disagio avvertito nei pensatori non occidentali che studiano la questione dei diritti.

Insomma, occorre chiedersi: è possibile estrapolare la nozione di diritti dell’uomo dal contesto della cultura e della storia da cui è nata e farla diventare una nozione valida per tutti?

Norberto Bobbio così scriveva nel libro L’età dei diritti (1997): la dichiarazione universale «contiene in germe la sintesi di un movimento dialettico che comincia con l’universalità astratta dei diritti naturali, trapassa nella particolarità concreta dei diritti positivi nazionali, termina con l’universalità non più astratta, ma essa stessa concreta dei diritti positivi universali». Ma, come fa notare Filippo Pizzolato (nel saggio I diritti: un impedimento per la giustizia? La lezione di Simone Weil) «dietro questa unanimità celebrata si possono celare visioni (o ordini) differenti dei (tra i) diritti e conseguentemente la necessità quantomeno di mantenere aperto lo spazio di una ermeneutica plurale degli stessi».

Simone Weil avvertiva (L’Iliade o il poema della forza) come la tentazione della forza sia presente nella cultura occidentale; nel contesto internazionale, questo atteggiamento ha riguardato e riguarda anche il tema dei diritti: un utilizzo che alcuni hanno definito idolatrico dei diritti, posti al servizio della forza e del potere.

Vorrei, per inciso, riferire di un termine – onticidio - recentemente coniato dalla letteratura e filosofia afroamericana per indicare la negazione dei diritti, e la disumanizzazione operata dal colonialismo e dal modello economico e sociale dominante. «L’individualismo prevalente in Occidente» scriveva Panikkar nel libro Pace e Interculturalità, «rende difficile la comprensione della memoria storica e fa dimenticare troppo spesso che le crociate, la schiavitù, così come le guerre del colonialismo, restano negli archetipi dei popoli di altre culture e soprattutto degli sconfitti».

Si torna, in questi mesi, a riflettere sul termine “genocidio”; ebbene, il termine compare nel diritto occidentale solo nel 1948: si tratta della Convenzione internazionale sul genocidio entrata in vigore nel gennaio del 1951, primo trattato sui diritti umani adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948, vincolante per tutti gli Stati, indipendentemente dal fatto che abbiano ratificato la Convenzione. La parola genocidio si riferiva all’assassinio sistematico ad opera dei nazisti di sei milioni di ebrei. Interessante e da considerare ai fini del nostro discorso, il ragionamento esposto in una recente intervista dall’avvocata Noura Erakat, palestinese, docente di diritto internazionale alla Rutgers University (New Jersey): «il colonialismo di insediamento si basa sull’eliminazione dei nativi. Eppure, questa idea di eliminazione non è quella che si coglie nella Convenzione del 1948 che pur essendo universale, era nata dopo lo sterminio del popolo ebraico in tutta Europa. Non sono stati riconosciuti come genocidi quelli commessi nelle geografie coloniali, che hanno riguardato le popolazioni indigene delle Americhe, dell’Australia o della Nuova Zelanda o la tratta transatlantica degli schiavi. Per sfidare la natura genocida del colonialismo da insediamento non è sufficiente appoggiarsi al diritto internazionale, dobbiamo fare riferimento anche alle esperienze dei popoli».

E tra le critiche emerse nell’ ultimo periodo al diritto internazionale, c’è quella di una sua contraddizione interna, in quanto si tutela sia i diritti degli Stati sia i diritti dei popoli, ma sono moltissimi i popoli che chiedono diritti proprio allo Stato che li danneggia, che è lo stesso Stato che si affida ai sistemi giuridici internazionali. 

 

4. Individui e beni comuni: terra, acqua, cibo, ambiente, salute, saperi

E per tornare a quanto accennato sulle visioni differenti - nelle diverse culture - dei e tra i diritti, non possiamo non tener conto che l’accento principale della moderna concezione dei diritti umani in Occidente è posto sull’individuo: l’essere umano in questa concezione è essenzialmente un individuo e i diritti difendono la sua autonomia. Non è così in altre culture. Per la cultura indiana (e non solo) l’umano non si identifica con l’individuo che rappresenta invece solo un’astrazione, l’individualità non è una categoria sostanziale ma solo funzionale e, quindi, in quel contesto, non può essere soggetto ultimo di diritti. In una concezione come quella orientale per cui tutto è collegato e l’essere umano è un nodo di una rete che comprende l’intera realtà, un’ipotetica dichiarazione dei diritti dovrebbe tradursi in una dichiarazione dei diritti e dei doveri che comprende la totalità del reale e che li mantenga in collegamento fra loro. Si pone, di conseguenza e in questo senso, la questione dei diritti degli esseri viventi diversi dall’uomo e di tutto ciò che vive. Solo di recente la questione (che riguarda la tutela, la salvaguardia di ambiente, piante, animali) si sta affrontando un po’ più diffusamente nella nostra società e anche nelle nostre scuole.

Una concezione non individualistica della società valuta in modo differente anche il diritto di libertà, libertà che viene intesa sempre “in relazione” e in rapporto alla situazione concreta; e qui si apre un altro fondamentale capitolo di riflessione, non certo nuovo in ambito occidentale, ma con scarse ripercussioni sul diritto positivo. Basta ricordare Simone Weil (La prima radice), per cui la soddisfazione dei bisogni ha come unico limite legittimo quello imposto dalla necessità e dai bisogni degli altri esseri umani, cioè «a condizione che i bisogni di tutti gli esseri umani ricevano lo stesso grado di attenzione». O le parole – riportate in Diritti in gioco - di Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista, che nel suo libro Il Mito dell’individuo, nel 1998 affermava che «la libertà si dà con gli altri, non senza di loro», sottolineando che la domanda non è: come «salvare gli individui dal potere e dalle catastrofi provocate dal neoliberismo, piuttosto come liberarci dal potere dell’individuo». E come non vedere che il concetto di bene comune discrimina di fatto lo spazio delle libertà? E’ assolutamente importante che le nuove generazioni comprendano il senso profondo di bene comune e capiscano come si declina in concreto quotidianamente.

Terra, acqua, cibo, ambiente, salute, saperi sono beni tutti collegati che per ovvi motivi funzionali di studio e di comprensione abbiamo esaminato uno alla volta nel libro attraverso l’approccio spiegato all’inizio. Per ognuno l’aggiornamento è necessario e accenniamo qui ad alcune questioni che andrebbero considerate e affrontate.

Tra i diritti individuali e collettivi è assolutamente prioritario quello dell’accesso all’acqua. Senza acqua non c’è vita e senza accesso all’acqua anche gli altri diritti umani diventano privi di senso. Il problema non esiste solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche nel ricco Occidente. Dal 2004, anno di pubblicazione del libro, è aumentata la sensibilità al problema: ci si è resi conto che, con l’incremento dei consumi e la riduzione della disponibilità di risorse idriche, anche nei paesi più fortunati doveva e deve porsi un freno allo sfruttamento dissennato dell’acqua, partendo proprio dalla gestione del patrimonio idrico esistente. Così è avvenuto che, per esempio in Italia, nel 2011si sia tenuto un referendum per dire no alla privatizzazione dei servizi idrici, con una adesione plebiscitaria (oltre il 90% dei votanti), e per riaffermare la necessità della gestione pubblica; e così è avvenuto che la politica ha dovuto tener conto della pressione dell’opinione pubblica, varando in Francia e in Italia provvedimenti normativi che vietano la sospensione della fornitura a chi non sia in grado di pagare. Ma accanto ai successi democratici vanno ricordate le minacce speculative, gravi e incombenti: il 7 dicembre del 2020, per la prima volta, l’acqua è stata quotata in borsa a Chicago. 

L’iniziativa è stata promossa da un noto fondo di investimento internazionale (Black Rock) che ha vantato i rendimenti crescenti (più del 37% solo nel 2021) ottenuti dall’investimento nel settore idrico. E’, quindi, essenziale che sin dagli anni della scuola i giovani cittadini conoscano come si declinano i diritti nella pratica e quali iniziative concrete vanno assunte per contrastare l’appropriazione dei beni comuni da parte della speculazione. 

Micheal Fakhri, relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, nel suo primo rapporto tematico del 2020, considerando anche le ricadute emergenziali che la pandemia ha avuto sul settore dell’alimentazione, rilevava l’urgenza di un nuovo approccio mondiale per la realizzazione del secondo obiettivo dell’Agenda 2030: il diritto al cibo. Diritto che nel suo significato ampio non si limita al concetto di sicurezza alimentare ma riguarda anche l’adeguatezza dell’alimentazione a livello culturale, nutrizionale, sociale ed ecologico, e rientra nella sfera dei diritti umani da tutelare e promuovere. Tutto questo è di fatto compromesso dal sistema del commercio internazionale che attualmente regola il settore dell’alimentazione.

Come viene diffusamente descritto nel libro Cibo Non Cibo, dieci imprese controllano quasi per intero il mercato delle sementi e quello dei prodotti chimici per l’agricoltura; le industrie alimentari si riforniscono da una manciata di multinazionali che trasportano cereali e carni da una parte all’altra del pianeta. 

Il cibo è merce, i fondi di investimento vanno a caccia di terre coltivabili, i prezzi degli alimenti base sono oggetto di speculazione finanziaria; l’agricoltura, come l’allevamento, è un’industria per la produzione di cibo, entrata negli Accordi internazionali di libero scambio, come il TTIP (Transatlantic trade and investment Partnership), in vigore dal 2013.

Per quanto riguarda il tema delle conoscenze - saperi - e il diritto alla salute (e al cibo), accenniamo solo a un problema, emerso in tutta evidenza in questi anni e che riguarda i brevetti su farmaci e piante. La pandemia da covid-19 ha fatto toccare con mano, come mai prima, almeno in Occidente, il potere di vita e di morte conferito alle multinazionali del farmaco. La filiera dei prodotti che presidiano la salute mondiale, ricerca, produzione e distribuzione di nuovi farmaci, è controllata da potenti gruppi economici privati e il sistema ha trovato sostegno su una solida base giuridica: la proprietà intellettuale, cioè i brevetti. Far comprendere come funziona tale sistema, che riguarda anche la brevettabilità delle piante, e come superarlo diventa indispensabile se si vuol parlare concretamente di diritti. 

Queste sommarie considerazioni vogliono essere uno spunto per aprire una riflessione più ampia e soprattutto collettiva da portare nel libro come aggiornamento e, a partire dal libro, nelle scuole e fra quanti intendono dedicarsi al tema dei diritti con le generazioni più giovani.

12/06/2024
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