Magistratura democratica
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Crisi del diritto e dei diritti nell’età della globalizzazione *

di Luigi Ferrajoli
professore emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre

1. La crisi del diritto e della democrazia nel mondo globalizzato

E’ con molto piacere, e ve ne ringrazio, che partecipo anche a questo vostro XXIV Congresso. Di Magistratura Democratica feci parte più di mezzo secolo fa, in un’altra epoca, in un’altra Italia. Ma ho ritrovato in questi giorni lo stesso clima di solidarietà, di amicizia e di passione civile della MD di cinquanta anni fa. La differenza è che gli anni della mia Magistratura Democratica erano anni di progresso. L’Italia conobbe allora l’unica vera stagione riformatrice della sua storia: lo statuto dei diritti dei lavoratori, il nuovo processo del lavoro, la riforma carceraria, la riforma del diritto di famiglia, le leggi sul divorzio e sull’aborto, la riforma sanitaria. Oggi viviamo invece una fase di regressione politica, intellettuale e morale in tema di democrazia e di garanzia dei diritti umani. E’ un momento di crisi sia per il diritto che per i diritti. La democrazia, non solo in Italia ma nel mondo, sta attraversando forse la crisi più grave dalla fine della seconda guerra mondiale. 

Sono in atto due guerre: l’aggressione criminale dell’Ucraina da parte della Russia e il tragico conflitto israeliano-palestinese. In entrambi i casi sono difettati sia il diritto che la politica. Nel caso della guerra all’Ucraina, la tesi dominante è stata l’inesistenza di alternative all’invio di armi agli aggrediti. L’alternativa invece è sempre esistita: la Nato non ha fatto nulla per impedire l’aggressione russa, né per impostare un negoziato di pace. Quanto all’aggressione terroristica di Hamas, il governo israeliano ha risposto con il massacro di migliaia di persone innocenti, anziché con l’asimmetria e la capacità delegittimante del crimine che avrebbe avuto il rispetto del diritto internazionale nell’uso pur necessario della forza. Il risultato è la crescita della spirale degli odi e delle vendette che non avrà mai fine.

Sono inoltre cresciute, nel mondo, la disuguaglianza e le violazione dei diritti. I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E’ stato calcolato che le 8 persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione globale, cioè di 4 miliardi di persone; e che 8 milioni di persone muoiono ogni anno per fame, e altrettante per malattie curabili e non curate. E’ una disuguaglianza, in un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, ben più visibile e perciò più scandalosa che in qualunque momento del passato.

Questa disuguaglianza mondiale è determinata dalla totale assenza di garanzie a livello globale. Sono moltissime le carte dei diritti che promettono pace, uguaglianza e diritti a tutti gli esseri umani del pianeta. Ma nulla è stato fatto per mantenere queste promesse. Diversamente dai diritti patrimoniali, che nascono insieme alle loro garanzie, la pace e i diritti fondamentali richiedono leggi di attuazione che introducano le loro garanzie: un servizio sanitario mondiale, una FAO che garantisca a tutti l’alimentazione di base, un demanio planetario che sottragga al mercato i beni comuni della natura, la messa al bando delle armi, prime tra tutte le armi nucleari. Nulla di questo è stato fatto. Di qui le guerre, la crescita delle disuguaglianze e delle violazioni impunite dei diritti umani.

Ma la globalizzazione dell’economia ha prodotto i suoi effetti perversi anche sulle nostre democrazie. Per un verso si è con essa determinata un’asimmetria tra il carattere globale dell’economia e della finanza e il carattere ancora statale della politica e del diritto e, conseguentemente, un ribaltamento del loro rapporto. Non è più la politica che governa l’economia, ma viceversa. Non sono più gli Stati che dettano regole al mercato, ma sono le grandi imprese che mettono gli Stati tra loro in una concorrenza al ribasso privilegiando, per i loro investimenti, quelli nei quali possono maggiormente sfruttare il lavoro, devastare l’ambiente, corrompere i governi e far abbassare le imposte a spesa delle garanzie dei diritti sociali. Di qui, per reggere questa concorrenza al ribasso, la demolizione delle garanzie del lavoro, l’abbassamento dei salari e delle tasse, la riduzione delle spese sociali, le privatizzazioni, la tolleranza per l’evasione fiscale, la libertà di distruzione e saccheggio dei beni comuni, lo sviluppo industriale ecologicamente insostenibile

C’è poi una seconda concorrenza al ribasso e un secondo effetto della globalizzazione sulle nostre democrazie: la stretta alleanza tra le destre liberiste e le destre sovraniste e parafasciste. C’è stato un vero scambio di favori. La demolizione dei diritti dei lavoratori e la precarizzazione dei rapporti di lavoro da parte delle politiche liberiste ha disgregato le vecchie soggettività collettive – primo tra tutte il movimento operaio – basate sull’uguaglianza e la solidarietà. Ha così offerto ai populismi sovranisti le loro basi sociali, che essi hanno riaggregato dando vita a nuove soggettività politiche basate su supposte identità collettive – “prima gli italiani”, “America first” – e sull’intolleranza per i differenti. In tutto il mondo, il capolavoro ideologico delle destre è consistito nel capovolgimento della direzione del conflitto sociale: non più la lotta alle disuguaglianze ma la lotta alle differenze; non più la lotta dei lavoratori contro i padroni, ma la lotta dei lavoratori precari tra loro per il posto di lavoro; non più la battaglia di chi sta in basso contro chi sta in alto ma quella di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso: i migranti, i poveri, i delinquenti di strada. E i populismi sovranisti hanno ricambiato il favore con le loro politiche contro i poveri e a favore dei ricchi: l’eliminazione dei sussidi di povertà, i tagli alla sanità e all’istruzione, la tolleranza per l’evasione fiscale e l’abbassamento delle imposte. Sono politiche rese possibili dalla verticalizzazione del sistema politico, il quale in tanto può essere impotente e subalterno ai mercati in quanto sia reso potente nelle aggressioni ai diritti sociali. E’ questo il senso ultimo dell’obiettivo della governabilità, dell’emarginazione del Parlamento, della crisi dei partiti e della personalizzazione della politica avvenute in questi anni, il cui massimo coronamento avverrebbe, in Italia, se passasse la riforma, proposta dalla destra al governo, del premierato elettivo.

 

2. Gli effetti della globalizzazione sulla giustizia penale: la disuguaglianza e il suo garantismo 

Qual è stato l’effetto sulla giurisdizione di queste mutazioni indotte dalla globalizzazione, cioè dal capovolgimento del rapporto tra politica ed economia e dall’alleanza da essa promossa tra liberismo e populismo? E’ quella che una volta chiamavamo giustizia di classe e che oggi possiamo chiamare il garantismo della disuguaglianza e del privilegio. Un doppio binario della giustizia penale: diritto penale minimo, mite e garantista per i potenti; diritto penale massimo, inflessibile e senza garanzie per i poveri e gli emarginati.

Questo doppio binario, sviluppatosi in questi ultimi 30 anni, è stato inaugurato, come sappiamo, da Silvio Berlusconi, che ha edificato un vero e proprio corpus iuris ad personam. Ma il garantismo della disuguaglianza e del privilegio è stato proseguito dall’attuale governo, a conferma dell’alleanza strutturale tra gli interessi capitalistici e le destre post-fasciste. Un solo esempio: la legge di conversione n. 199 del 30.12.2022 del decreto-legge n. 162 del 31.10.2022, mentre ha previsto una pena da 3 a 6 anni di reclusione per i raduni musicali in edifici altrui ed ha aggravato la durezza dell’ergastolo (non più 26, ma 30 anni di reclusione prima che si possa concedere la liberazione condizionale), ha fatto un regalo ai soli condannati per peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione sopprimendo per tutti costoro il regime del carcere ostativo previsto dall’art. 4-bis, che ad essi era stato esteso dalla legge n. 3 del 9.1.2019[1].

Il risultato di questa doppia politica penale è rivelato dalle statistiche carcerarie. Il numero dei detenuti per l’insieme dei reati dei cosiddetti colletti bianchi – dai peculati, le corruzioni e le concussioni alle bancarotte e ai reati fiscali – si aggira intorno al 3,5% della popolazione carceraria, composta per il 96,5% da migranti, tossicodipendenti, soggetti emarginati, condannati prevalentemente per reati di strada o di sussistenza[2]. La parola sicurezza ha cambiato di senso: non significa più, nel lessico delle campagne populiste, la sicurezza sociale, cioè la sicurezza del lavoro, della salute, della previdenza e della sopravvivenza. Tanto meno designa la sicurezza, di cui parlò Montesquieu, delle libertà individuali contro gli arbitri polizieschi o giudiziari[3]. Ancor meno significa sicurezza dalle catastrofi provocate dal riscaldamento climatico e minacciate dalle possibili esplosioni nucleari. Significa solo “pubblica sicurezza” dalla criminalità di strada.

L’aspetto paradossale di questa involuzione classista del diritto penale è che essa è avvenuta in coincidenza con un mutamento di segno esattamente opposto della fenomenologia criminale. La criminalità che oggi minaccia maggiormente i diritti e i beni fondamentali, contrariamente a quanto propagandato dalle campagne sulla sicurezza, non è più la tradizionale delinquenza di carattere individuale, né tanto meno la vecchia criminalità di sussistenza messa in atto da soggetti devianti prevalentemente emarginati. Questo tipo di delinquenza, ci dicono le statistiche, è letteralmente crollato. Il numero degli omicidi che fu di 1.938 nel 1991, oggi è di circa 300 l’anno. Sono diminuite anche le violenze sessuali, le lesioni e perfino i furti, benché si sia notevolmente ridotta la loro cifra nera, cioè la mancata denuncia delle une e degli altri. 

Quella che invece è cresciuta ed è sempre più lesiva dei diritti, della democrazia e dell’ambiente è la criminalità dei potenti: un fenomeno non già marginale né eccezionale, come è la criminalità tradizionale, bensì inserito, con posizioni di potere, nel funzionamento normale delle nostre società. Possiamo distinguerne due tipi: in primo luogo i poteri criminali, cioè la grande criminalità delle mafie e delle camorre, sviluppatasi in dimensioni globali fino a diventare uno dei settori più fiorenti, ramificati e redditizi dell’economia mondiale e dotata di una potenza militare e di una capacità di condizionamento politico senza precedenti; in secondo luogo i crimini dei poteri, messi in atto dai grandi poteri economici transnazionali e dai pubblici poteri, politici e amministrativi, talora tra loro collusi mediante le varie forme di corruzione e di appropriazione dei beni pubblici e favoriti dal vuoto di diritto pubblico, e soprattutto di diritto penale internazionale, che caratterizza la globalizzazione. Senza contare quelli che ho chiamato crimini di sistema – dalle devastazioni ambientali alle guerre e alle violazioni massicce dei diritti fondamentali – non trattabili dal diritto penale ma ben più catastrofici per l’umanità dell’intero insieme dei delitti[4]. Non si tratta di fenomeni criminali netta­mente distinti e separati, ma di attività tra loro intrecciate per le collusioni, fatte di complicità e di reciproca strumentalizzazione, tra poteri criminali, poteri economici e poteri istituzionali. 

Ci sono quattro aspetti relativamente nuovi di queste forme di criminalità dei potenti che le rendono gravemente minacciose per il nostro futuro, anche perché il diritto non si è affatto portato alla loro altezza: in primo luogo il fatto che esse non sono messe in atto, come la criminalità di strada, da soggetti deboli, bensì da soggetti potenti, di solito integrati nel sistema politico ed economico; in secondo luogo la loro tendenziale alleanza e integrazione, non esistendo tra di esse un confine rigido, bensì una fitta rete di cointeressenze, di complicità e collusioni; in terzo luogo il loro naturale sviluppo in forme tendenzialmente globali, dovuto alla mondializzazione delle comunicazioni e dell’economia non accompagnata da una corrispondente mondializzazione del diritto e delle sue tecniche di garanzia; in quarto luogo la loro tendenziale impunità e invisibilità, che si manifesta nella costruzione occulta di una sorta di infra-diritto, con proprie regole e propri codici, cresciuti al di sotto dello stato di diritto e degli ordinamenti costituzionali. 

 

3. La crisi del garantismo penale e il punitivismo compulsivo

Ebbene, a questo mutamento della questione criminale – una criminalità dei potenti in crescita e la tradizionale criminalità degli emarginati in diminuzione – non solo non ha corrisposto una riduzione del carattere disuguale e classista della nostra giustizia penale. Ha corrisposto, al contrario, una crescita ulteriore della disuguaglianza penale ad opera delle destre populiste, che nel doppio binario del garantismo della disuguaglianza – tolleranza e diritto penale minimo per la criminalità invisibile del potere e diritto penale massimo e disumano, a colpi di sempre più iniqui “pacchetti di sicurezza” per la ben più visibile delinquenza di strada dei poveri – hanno scoperto una fonte inesauribile di consenso elettorale.

Le cifre, di nuovo, sono impressionanti. Negli ultimi trent’anni la vecchia criminalità individuale, in Italia, è crollata: gli omicidi, come ho già ricordato, si sono ridotti a meno di un sesto di quelli di 30 anni fa. Ma la popolazione carceraria è quasi raddoppiata: i detenuti erano 31.053 nel 1991 e sono oggi 58.083; gli ergastoli sono più che quadruplicati, passando dai 408 del 1992 agli attuali 1867, due terzi dei quali aggravati come “ergastoli ostativi”, cui non sono applicabili i benefici di pena previsti dall’ordinamento penitenziario del 1975 e dalla riforma Gozzini del 1986[5]. Al tempo stesso è regredita, in Italia, la cultura del ceto politico. Ancora negli anni Novanta, il 30 aprile 1998, il Senato, dopo una discussione introdotta dalla bella relazione di Salvatore Senese, votò a larghissima maggioranza l’abrogazione dell’ergastolo, poi non portata, purtroppo, al voto della Camera. Venticinque anni dopo, in occasione di una penosa aggressione di uno dei capi della destra a quattro parlamentari che avevano fatto visita a un ergastolano in fin di vita, quasi tutte le forze presenti in Parlamento hanno respinto con sdegno l’accusa di essere a favore dell’abolizione non diciamo dell’ergastolo, ma perfino del cosiddetto ergastolo “ostativo” alla concessione di qualunque beneficio di pena.

E’ dalla mitezza delle pene, scrisse Montesquieu, che si misura la civiltà di un paese[6]. E’ quindi chiaro che questo enorme aggravamento delle pene nel nostro paese è l’effetto di una riduzione delle garanzie del corretto processo, del declino del garantismo nella cultura sia del ceto politico che del ceto giudiziario e del prevalere di una subcultura autoritaria e antisociale. I tratti distintivi di questa politica penale sono due. 

Il primo è la sua disumanità nei confronti dei ceti più deboli: una disumanità esibita e ostentata dai populismi per soddisfare la domanda sociale di punizioni severe e vendicative, del resto da essi stessi alimentata attraverso la mobilitazione dei loro elettori contro immigrati e devianti. L’effetto inevitabile è l’abbassamento del senso morale a livello di massa: quando la disumanità e il disprezzo per i deboli sono ostentati dalle istituzioni diventano contagiose. Non capiremmo, altrimenti, il consenso di cui godettero il fascismo e il nazismo.

Il secondo tratto distintivo di questa politica è l’invenzione, nel sostanziale silenzio della cultura penalistica, di un nuovo metodo legislativo: lo sviluppo, a partire da una prima legge base, di una serie ininterrotta di leggi – di solito decreti legge, tutti emanati senza nessun’altra necessità o urgenza se non quelle dettate dalla demagogia – che volta a volta hanno aggravato e reso più disumane le leggi precedenti, infierendo sempre più crudelmente sui loro destinatari, estendendone i presupposti, accentuandone la durata e l’afflittività. Sono due tratti distintivi che si sono manifestati, soprattutto, nei confronti delle due categorie di persone più adatte, per i populisti, a incarnare la figura del nemico: i migranti e i detenuti.

La politica in materia di migranti è assolutamente vergognosa. Emigrare è un diritto fondamentale, stabilito dall’art. 35, 4° comma della Costituzione italiana, dagli artt. 13 e 14 della Dichiarazione dei diritti umani del 1948 e dall’art. 12 del Patto internazionale sui diritti del 1966. E’ anche il più antico dei diritti umani, essendo stato proclamato fin dal 1539 da Francisco De Vitoria a sostegno della conquista del “nuovo mondo”, insieme al diritto di reagire con la violenza alla resistenza illegittima degli indigeni al suo esercizio. Cosa che fu fatta. All’origine dell’età moderna c’è stato un genocidio: la distruzione delle civiltà precolombiane e il massacro di decine di milioni di persone. Da allora lo ius migrandi è diventato una norma fondamentale del diritto internazionale consuetudinario, quale fonte di legittimazione delle colonizzazioni, quando erano solo gli europei a “emigrare” per invadere il resto del pianeta. Oggi che l’asimmetria si è capovolta e l’esercizio del diritto di emigrare è diventato un’alternativa di vita per milioni di disperati in fuga dai loro paesi, non solo se ne è dimenticato il fondamento nella nostra stessa tradizione, ma lo si reprime con la stessa ferocia con cui lo si brandì alle origini della civiltà moderna a scopo di rapina e colonizzazione. Le nostre leggi e le nostre pratiche contro i migranti sono responsabili del massacro – 30.000 persone negli ultimi 15 anni solo nel Mediterraneo – prodotto dalle chiusure delle nostre frontiere. Queste morti pesano sulle nostre coscienze, e quanti le hanno provocate dovranno, un giorno, vergognarsene, se non altro per il debito enorme che quasi tutti i paesi europei hanno nei confronti dei paesi di emigrazione, da essi per secoli colonizzati e depredati.

Il secondo tratto distintivo di questa legislazione è il suo carattere espansivo. La legge base è la legge Turco-Napolitano n. 40 del 6.3.1998, che ha introdotto la detenzione amministrativa dei migranti, a mio parere contraria allo spirito della Costituzione, ma limitata originariamente ai soli casi di volontaria inottemperanza dei provvedimenti di espulsione. Ma l’eccezione si trasforma nella regola del trattenimento coattivo con la legge Bossi-Fini n. 189 del 30.7.2002. La persecuzione si aggrava con il d.l. n. 241 del 14.9.2004 che ha affidato la competenza dei giudizi in materia di migranti ai giudici di pace. Si carica di espliciti connotati razzisti con la legge n. 94 del 2009 sul reato che di ingresso illegale in Italia: la legge più turpe della storia della Repubblica, con cui ha fatto la sua ricomparsa in Italia, dopo le leggi razziste del 1938, la figura della persona illegale per la sua sola esistenza. Continua con la legge 129 del 2011, poi con il decreto Minniti n. 13 del 2017, poi con il decreto Salvini n. 113 del 2018, poi ancora con il cosiddetto “decreto ong” del 23.2.2023 contro i salvataggi delle persone in mare. Infine l’ultima trovata, che forse non sarà realizzata ma che testimonia il disprezzo per il diritto e per i diritti della destra al governo: la deportazione dei migranti in Albania, una sorta di Guantanamo italiana, in violazione del diritto d’asilo e dell’habeas corpus. Le persone non sono cose e la privazione della loro libertà necessaria per trasferirle in Albania contro la loro volontà è chiaramente un sequestro di persona.

Ma il punitivismo compulsivo si manifesta ancor più nello sviluppo sadico di ben due regimi del carcere duro, quelli introdotti con l’art. 4-bis e con l’art. 41-bis nell’ordinamento penitenziario. L’originario art. 4-bis, del 1991, prevedeva che per i condannati per taluni reati, come i delitti di mafia, i benefici penitenziari fossero condizionati all’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Con un decreto-legge del 1992, emanato dopo la strage di Capaci, questa condizione negativa è stata trasformata in quella positiva della “collaborazione con la giustizia”. Poi con leggi del 2001, del 2002, del 2012 e del 2015, l’applicazione dell’art. 4-bis è stata allargata a una lunga serie di altri reati. 

La stessa legislazione ad aggravamenti progressivi è stata adottata per il carcere durissimo previsto dall’art. 41-bis. Originariamente, nella legge Gozzini del 1986, questo art. 41-bis si limitava ad affidare al Ministro della giustizia il potere di sospendere in una o più carceri, in casi eccezionali di rivolte, le «normali regole di trattamento». Con il decreto n. 306 del 1992 è stato introdotto un secondo comma, che attribuisce al Ministro tale potere anche «nei confronti dei detenuti o internati» per taluno dei delitti previsti dall’art. 4-bis, onde impedirne i collegamenti con le loro associazioni criminali. Prorogato più volte, questo regime speciale è stato reso permanente dalla legge n. 279 del 2002, che ha così dato vita stabilmente al regime carcerario speciale ex art. 41-bis, poi ulteriormente inasprito da nuovi decreti legge nel 2009, nel 2020 e nel 2022.

Attualmente, dei 1.867 ergastoli, più di due terzi – 1.267 – sono “ostativi”. Ma il medesimo regime “ostativo” a qualunque beneficio di pena non riguarda solo gli ergastolani. Riguarda, alla data del 22 agosto 2023, ben 9.369 detenuti colpevoli, pur dopo la condanna, di mancata collaborazione con la giustizia. Al regime previsto dall’art. 41-bis sono invece sottoposte 743 persone. Sono cifre altissime, che si spiegano solo con il carattere burocratico, arbitrario e vessatorio assunto dall’applicazione del carcere duro. 

 

4. Il ruolo di Magistratura Democratica: la tutela dei diritti dei più deboli 

Domandiamoci a questo punto: qual è il ruolo che deve svolgere MD rispetto a questa deriva? E’ il ruolo, ribadito nella relazione del segretario Stefano Musolino, della difesa delle garanzie dei diritti fondamentali, che sono tutti leggi del più debole, contro le leggi del più forte che vigono in loro assenza o violazione. 

Fu questo, nella sostanza, il ruolo che ha sempre svolto fin dalle origini Magistratura Democratica e che più ne definisce l’identità. L’ancorammo, fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, all’art. 3, 2° comma della Costituzione sul «compito della Repubblica» di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto l’uguaglianza e la libertà dei cittadini». Assumemmo infatti il punto di vista della divaricazione tra principi e realtà espresso da questa norma con quello, esterno all’ordinamento, dei soggetti deboli e sfruttati, che sono «di fatto» le principali vittime delle violazioni, da quegli «ostacoli» determinate, dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti. Questa e non altro fu la cosiddetta “scelta di campo” di Magistratura Democratica, che tanto fece scandalo, mentre altro non era che l’opzione per la garanzia dell’uguaglianza, e dunque per i titolari di diritti fondamentali violato o insoddisfatti, imposta dalla Costituzione. Di solito viene contrapposta alla giurisdizione la legittimazione democratica delle funzioni di governo consistente nella rappresentanza politica della volontà popolare. Ma la legittimazione anti-maggioritaria della funzione giudiziaria – l’accertamento della verità processuale e la garanzia dei diritti fondamentali – è non meno democratica di quella rappresentativa. Sia il corretto accertamento del vero che i diritti fondamentali si riferiscono infatti al popolo in un senso ancor più pregnante: nel senso che riflettono l’interesse di tutti.

Oggi la cultura garantista – quella del garantismo dell’uguaglianza e non certo quella del garantismo del privilegio – è una cultura minoritaria. Ma proprio per questo essa è più che mai preziosa quale argine alle derive autoritarie del ceto di governo. Questa cultura e questa pratica, grazie al loro orizzonte costituzionale, valgono a mutare il ruolo della giurisdizione: non più la semplice applicazione del diritto esistente, bensì la critica e la bonifica della sua illegittimità sulla base dei principi di giustizia – l’uguaglianza, i diritti fondamentali, la dignità delle persone – stipulati nella carta costituzionale. 

Si è d’altro canto prodotto un fenomeno singolare. La politica odierna, non solo in Italia ma in gran parte del mondo, è in crisi. E’ sempre più impermeabile alle domande di giustizia, sempre più assoggettata ai poteri economici e finanziari che la costringono ad aggredire lo stato sociale e i diritti alla salute, all’istruzione e alla previdenza. Ebbene, di fronte a questa abdicazione della politica alle sue funzioni tradizionali di tutela degli interessi generali, la giurisdizione è chiamata, ancor più che in passato, a una funzione di garanzia dei diritti. E’ infatti cambiato, rispetto a 60 o 50 anni fa, il rapporto tra politica e giurisdizione. A causa del discredito della politica, della sua subalternità ai mercati e della sua distanza dalla società, le domande di giustizia vengono rivolte in misura crescente al potere giudiziario, sollecitato a intervenire dalle violazioni legislative, amministrative e contrattuali dei diritti in tema di lavoro, di ambiente, di tutela dei consumatori, di questioni bioetiche e di abusi di potere[7]. In passato avveniva il contrario. Erano la politica e la legislazione i luoghi del progresso, tramite la costruzione dello stato sociale e delle garanzie dei diritti fondamentali. La giurisdizione, al contrario, aveva un ruolo conservatore o peggio reazionario. E lo stesso poteva dirsi della scienza giuridica. Oggi il rapporto tra diritto e politica, tra giurisdizione e legislazione, si è ribaltato: mentre la giurisdizione svolge un ruolo di tutela dei diritti, la politica e la legislazione svolgono il ruolo opposto della loro restrizione, non attuando ma al contrario riducendo le loro garanzie primarie. Non a caso MD, l’Associazione Nazionale Magistrati e la maggioranza dei giuristi si schierarono in difesa della Costituzione contro i tentativi di revisione costituzionale promossi prima dalla destra nel 2005 e poi dal Pd di Renzi nel referendum del 2016. E’ questo, oggi, il ruolo di MD: la critica e la garanzia dei diritti di fronte alle politiche illiberali e antisociali e, insieme, alle manomissioni della Costituzione promosse dalla destra. Indicherò, in particolare, tre questioni – in tema di reati, di pene e di ordinamento giudiziario – a proposito delle quali dovrebbe manifestarsi l’impegno garantista di Magistratura Democratica.

 

4.1. La prima è la rifondazione quantitativa e qualitativa della legalità penale. C’è un solo modo per contrastare l’inflazione legislativa e il dissesto del linguaggio legale e per garantire così la soggezione dei giudici alla legge e la separazione dei poteri e porre fine al conflitto estenuante tra giustizia e politica: la trasformazione della riserva di legge in materia penale in una riserva di codice, formulata nella costituzione e accompagnata da una norma che imponga la chiarezza e la precisione del linguaggio legale. Solo così il legislatore sarebbe costretto a far bene il suo mestiere, cioè a produrre norme chiare e precise e perciò a garantire la soggezione dei giudici alle leggi. I codici diverrebbero testi normativi più voluminosi degli attuali, ma esaustivi dell’intera materia penale, conoscibili dal cittadino e dotati di interna coerenza e sistematicità. Verrebbero accresciute la loro certezza e la loro capacità regolativa nei confronti tanto dei cittadini quanto dei giudici. La tabula rasa dell’attuale caos normativo offrirebbe l’occasione per decidere non già ciò che va depenalizzato ma ciò che va penalizzato, sulla base di un radicale ripensamento del catalogo dei beni meritevoli di tutela penale in accordo con i principi della Costituzione.  

Ne risulterebbe eliminato tutto l’enorme diritto penale burocratico che oggi impegna ed ingolfa la macchina giudiziaria, a cominciare dalle contravvenzioni e dai reati puniti con sole pene pecuniarie, ed anche quello chiamerò diritto penale declamatorio – in passato le norme sull’aborto, oggi quelle sulla droga – che di fatto non è in grado di mettere al riparo dalle loro lesioni i beni giuridici che dichiarano di tutelare, ma solo di proclamarne l’illiceità. La giustizia penale non può essere disturbata né tanto meno disturbare i cittadini per illeciti scarsamente offensivi o, peggio, che non è in grado di prevenire ma solo di rendere clandestini.

 

4.2. La seconda questione è la battaglia civile che Magistratura Democratica dovrebbe condurre contro l’ergastolo e contro quella vergogna che è il carcere duro. In entrambe le sue versioni – il 4-bis e il 41-bis – questo regime carcerario è in contrasto con la Costituzione. Sotto tre profili. E’ incostituzionale perché consiste, a causa della sua lunga durata e delle possibili proroghe, nei “trattamenti contrari al senso di umanità” vietati dall’art. 27, comma 3° Cost. Lo è soprattutto perché è in contrasto con il principio di legalità penale previsto dall’art. 25, comma 2° Cost. Il carcere duro è infatti una pena nella pena, applicata senza che ricorra il “fatto commesso” in assenza del quale, dice l’art. 25, comma 2° della Costituzione, “nessuno può essere punito”. Infine la violazione più incredibile: il regime speciale previsto dall’art. 41-bis, essendo deciso da un’autorità politico-amministrativa quale è il Ministro della giustizia, è in contrasto con il principio di giurisdizionalità stabilito dall’art. 13 della Costituzione, in base al quale tutte le restrizioni della libertà personale devono essere decise o quanto meno convalidate da un giudice.

Ma in tema di pene, l’opzione garantista impone una riforma ancor più radicale. Dobbiamo riconoscere che la pena detentiva, contrariamente al suo modello teorico di pena uguale ed esattamente predeterminata dalla legge, è una pena profondamente disuguale e indeterminata nei contenuti. Le carceri sono tutte diverse l’una dall’altra e, all’interno di ciascun carcere, è diversa, di fatto, la condizione di ciascun detenuto. La reclusione, proprio perché consiste in una lunga serie di afflizioni non previste dalla legge, difetta di tassatività, in violazione, quindi, sia del principio di stretta legalità penale che dei principi di uguaglianza e di dignità della persona del detenuto[8]. Ebbene, il solo modo per realizzare la tassatività della pena detentiva è la soppressione di tutte le vessazioni e le afflizioni che di diritto o di fatto si aggiungono, nella detenzione carceraria, alla privazione della libertà personale, a cominciare da tutte le forme di carcere duro. Si darebbe così attuazione al principio, più volte stabilito dalla Corte costituzionale italiana – dalle sentenze n. 114 del 1976 e n. 26 del 1999 – che la pena detentiva deve consistere nella sola privazione della libertà personale; sicché tutti gli altri diritti – il diritto all’integrità fisica, l’immunità da maltrattamenti, le libertà di riunione, il diritto alla salute e all’istruzione – dovrebbero restare garantiti a tutti, anche ai detenuti. Il solo tipo di carcere idoneo a realizzare la tassatività delle pene sarebbe perciò il carcere modello, quale quello realizzato in Italia dal carcere di Bollate.

 

4.3. La terza questione riguarda la difesa dell’indipendenza non solo esterna ma anche interna della giurisdizione, inevitabilmente minacciata dalla restaurazione delle carriere che la MD della mia generazione era riuscita ad abbattere. Altrettanto inevitabilmente le spartizioni delle cariche dirigenti hanno screditato, come è emerso con lo scandalo Palamara, il ruolo di autogoverno affidato al Consiglio Superiore della Magistratura. Nel dibattito pubblico questo malgoverno è stato addebitato al potere delle correnti in esso rappresentate. Si sono così scambiati gli effetti con le cause. L’involuzione delle correnti è infatti un effetto del potere acquisito dalle loro rappresentanze consiliari in materia di nomina dei capi degli uffici: un potere che le ha trasformate, appunto, in gruppi di potere. 

Io credo che effetti e cause verrebbero meno se la carriera fosse sostanzialmente abolita. La carriera, infatti, è incompatibile con l’indipendenza interna dei magistrati, che richiede che essi esercitino le loro funzioni sine spe et sine metu. Contrasta con ben due principi costituzionali: con il principio della loro uguaglianza, stabilito dall’art. 107 comma 3°, e con quello della loro soggezione soltanto alla legge, stabilito dall’art. 101, comma 2° della Costituzione. Del resto c’è un nesso, sperimentato dalla storia del potere giudiziario, tra indipendenza dei giudici e garanzia dei diritti, cioè tra i due valori – separazione dei poteri e diritti – in assenza dei quali, dice l’art. 16 della Déclaration del 1789, non c’è costituzione. Contro carriere e carrierismi, mi pare pertanto che si possano suggerire due rimedi, consistenti in altrettante riforme, peraltro già sperimentate in passato.

In primo luogo, onde ridurre le ragioni soggettive del carrierismo, occorrerebbe diminuire quanto più possibile i poteri degli uffici direttivi e perciò l’ambizione a ricoprirli. Andrebbe in particolare abolita la pessima riforma del pubblico ministero operata dalla legge Castelli del 2005 ma confermata dalla legge Mastella del 2007, che ha fatto del Procuratore capo il titolare esclusivo dell’azione penale e ha trasformato i sostituti in suoi dipendenti in contrasto con l’art. 107, 3^ comma della Costituzione sull’uguaglianza dei magistrati che esercitano uguali funzioni. In secondo luogo, onde ridurre le ragioni oggettive del carrierismo, occorrerebbe riabilitare, quale criterio di scelta, il vecchio principio dell’anzianità. Con due correttivi, l’uno nel caso che il più anziano abbia chiaramente demeritato, l’altra nel caso opposto che un candidato meno anziano goda di una stima generale. 

Ai fini della deroga del primo tipo, i giudizi di professionalità potrebbero limitarsi alla sola segnalazione dell’inidoneità del magistrato a svolgere funzioni direttive. Ai fini della deroga del secondo tipo, si potrebbe prevedere il conferimento dell’incarico a un candidato diverso dal più anziano solo se votato dai due terzi dei componenti del Consiglio o almeno dalla loro maggioranza assoluta, in modo che il giudizio sia frutto di una generale condivisione e non di una scelta di parte e meno che mai di una corrente. Si eliminerebbe in questo modo l’inevitabile logica compromissoria e spartitoria degli uffici direttivi. E si porrebbe fine ai ricorsi contro i provvedimenti del Consiglio, a causa dei quali molti uffici direttivi sono oggi in realtà conferiti dagli organi della giustizia amministrativa. 

Le correnti cesserebbero così di essere centri di potere e tornerebbero ad essere associazioni di carattere ideale e culturale. E’ chiaro che su questo terreno il ruolo e l’egemonia culturale di MD non potrebbero che aumentare. A beneficio non solo dell’intera magistratura ma anche della democrazia nel nostro paese.

 

5. Il ruolo di MD e della cultura giuridica progressista nell’età della globalizzazione 

Ma io credo che il ruolo di MD e, più in generale, della cultura giuridica progressista deve oggi consistere nella difesa dei diritti umani, stipulati in tante carte costituzionali e internazionali, ben oltre i confini nazionali. Sotto questo aspetto un sicuro banco di prova della cultura garantista è l’atteggiamento a sostegno dell’emigrazione e delle garanzie del diritto di emigrare.

La globalizzazione impone una rifondazione sia del costituzionalismo che del garantismo. Essa ha cambiato radicalmente la geografia dei poteri e delle loro aggressioni ai diritti e ai beni fondamentali. I poteri che contano – quelli economici e quelli finanziari, ma anche i poteri politici degli Stati più potenti perché dotati di armamenti nucleari – sono tutti fuori dei confini nazionali. E ben oltre i confini degli Stati sono le grandi sfide e i giganteschi problemi dalla cui soluzione dipende il futuro dell’umanità: il riscaldamento climatico, che se non fermato renderà inabitabile in meno di un secolo gran parte del nostro pianeta; il pericolo di un conflitto atomico, essendo solo un miracolo che qualcuna delle 14.000 testate nucleari, 50 delle quali sarebbero sufficienti a distruggere l’intera umanità, non sia caduta nelle mani di un pazzo o di un criminale; la crescita della disuguaglianza e della povertà di cui ho parlato all’inizio; lo sfruttamento selvaggio del lavoro, dovuto alla possibilità delle imprese di dislocare le loro produzioni dove possono pagare il lavoro meno di un dollaro l’ora; il dramma dei migranti, ciascuno dei quali fugge da una di queste tragedie.

Nessuna di queste sfide era presente in quella straordinaria stagione costituente che furono gli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando furono emanate la costituzione italiana e quella tedesca, la Carta dell’Onu e la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nessuna di esse può essere fronteggiata dai singoli governi o dai singoli poteri economici e finanziari, né tanto meno dalle odierne istituzioni internazionali, di fatto impotenti di fronte alle lesioni della pace e dei diritti umani in quelle carte stabiliti. Se dunque le costituzioni consistono in sistemi di limiti e vincoli ai poteri altrimenti selvaggi della politica e dell’economia, allora l’alternativa è drammaticamente semplice e radicale: o il costituzionalismo si porterà alla loro altezza, oppure l’umanità è destinata a non sopravvivere alle catastrofi sopra elencate, alcune delle quali già in atto. Queste catastrofi non possono essere fronteggiate dal diritto penale, difettando di tutti gli elementi costituitivi dei reati, dalla determinatezza dell’azione e dell’evento alla responsabilità personale. Ma non sono neppure fenomeni naturali. Esse dipendono infatti dalle nostre politiche o dall’assenza di politiche alla loro altezza. Per questo le ho chiamate crimini di sistema, che la politica e il diritto devono prevenire con adeguate garanzie: la creazione di un demanio planetario che sottragga alla privatizzazione e alla dissipazione i beni vitali della natura, come l’acqua potabile, l’aria, le grandi foreste e i grandi ghiacciai; la messa al bando di tutte le armi – di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali – e lo scioglimento degli eserciti già auspicata da Kant[9]; la creazione di istituzioni globali di garanzia della salute, dell’istruzione e della sussistenza; l’unificazione del diritto del lavoro e delle sue garanzie; il riconoscimento e la garanzia dell’effettività del diritto di emigrare.

E’ il progetto di una Costituzione della Terra, che sta ricevendo innumerevoli consensi. Le critiche e gli scetticismi riguardano soprattutto due questioni: l’idea che le costituzioni suppongano un popolo e un territorio determinati e il carattere irrealistico, ovvero utopistico, del progetto di un costituzionalismo globale.

La prima questione investe il senso stesso delle costituzioni e del costituzionalismo. Secondo un pregiudizio fortemente radicato nella cultura giuridica esisterebbe un nesso concettuale tra costituzione, stato nazionale e popolo[10]. Non a caso questo ancoraggio del costituzionalismo allo Stato nazionale ha avuto il suo sostenitore più illustre in Carl Schmitt che, non dimentichiamo, era un giurista nazista[11]. Esso esprime una concezione nazionalista e identitaria del costituzionalismo letteralmente smentita, a me pare, dai principi universali stabiliti in tutte le costituzioni avanzate: la pace, la dignità di persona di ogni essere umano e i diritti fondamentali quali diritti spettanti universalmente a tutti. L’attuazione di questi principi richiede, ben più che istituzioni di governo, istituzioni globali di garanzia. Le istituzioni di governo infatti, essendo legittimate dalla rappresentanza popolare, devono essere quanto più possibile locali – gli Stati, le regioni, i comuni – cioè vicine agli elettori. Le istituzioni di garanzia – un servizio sanitario globale, un’istruzione di base garantita a tutti, un demanio planetario, un reddito base universale, finanziati da un fisco globale di carattere progressivo – essendo legittimate dal principio di uguaglianza e dalla garanzia dei diritti e dei beni fondamentali sono al contrario tanto più necessarie, oltre che legittime, quanto più sono globali. E questo perché ben maggiori a livello globale che a livello nazionale sono le differenze personali che una Costituzione deve garantire tramite i diritti di libertà e le disuguaglianze economiche che deve ridurre tramite i diritti sociali. In breve, l’universalismo dei diritti fondamentali, se presi sul serio, implica ed impone il carattere universale delle loro garanzie. Costituzionalismo e garantismo globale rappresentano il punto d’arrivo del percorso storico del costituzionalismo, logicamente implicato e normativamente imposto dal carattere intrinsecamente universale – internazionalistico e non nazionalistico – dei diritti e dei beni fondamentali.

La seconda questione, ben più seria, riguarda il carattere irrealistico della prospettiva di una Costituzione della Terra. Ovviamente lo stato del mondo non consente nessun ottimismo. Dobbiamo tuttavia distinguere ciò che è improbabile da ciò che è impossibile: per non legittimare lo stato di cose esistenti come privo di alternative e per non deresponsabilizzare la politica, che tale stato di cose tollera e legittima in base alla tesi “realistica” che “non esistono alternative”. Benché ne sia improbabile l’attuazione, nessuna delle 100 norme contenute nel progetto di Costituzione della Terra che stiamo diffondendo è di impossibile attuazione.

Penso perciò che dobbiamo distinguere due tipi di realismo. Il realismo espresso dalla tesi dell’inesistenza di alternative è un realismo ideologico, che naturalizza ciò che è artificiale, cioè la politica e il diritto. A questo realismo volgare occorre opporre un realismo critico e razionale: il realismo di Hobbes, di Kant, di Marx, ma anche il realismo delle nostre costituzioni che, a garanzia della pace, della dignità e dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani, stabiliscono il dover essere della politica e del diritto, imponendo loro limiti e vincoli a garanzia dei principi costituzionalmente stabiliti.

Questo realismo critico e razionale suggerisce oggi una nota di ottimismo. L’alternativa è possibile, pur se ostacolata da interessi e pregiudizi tanto potenti quanto miopi. Il mondo è sempre più interdipendente. Sessanta anni fa eravamo 2 miliardi di persone, ma ciò che accadeva dall’altra parte del pianeta restava per noi sconosciuto e irrilevante. Oggi siamo otto miliardi, ma il mondo è assai più piccolo di allora: basti pensare al virus della pandemia, che è nato in Cina ma non conosce confini ed è dilagato in pochi giorni in tutto il mondo. «Il mondo è rimpicciolito», scriveva Piero Calamandrei 70 anni fa: «lo Stato ha oggi, sotto il profilo dell’importanza geografica e politica, minore importanza di quella che aveva cinquecento anni fa un Comune... Ormai i popoli, attraverso questa conversazione intercontinentale alla quale ognuno di noi può partecipare aprendo la radio nel suo salotto, sono molto più unificati e omogenei di quello che potrebbero far credere i confini degli Stati, vestigi di una finzione politica che sta per essere cancellata dalla realtà sociale che la sorpassa[12]». Oggi, aggiungeva, si è «compreso che la guerra si scongiura non col rafforzare i confini, ma col farli crollare: aprendo in essi sempre più larghe brecce attraverso le quali i popoli possano uscire all’aperto e incontrarsi in una patria più vasta[13]».  

Ebbene, in questi ultimi 70 anni le comunicazioni mondiali hanno raggiunto forme inconcepibili nel 1953, quando furono scritte queste pagine. L’umanità è sempre più integrata, più fragile e, ripeto, più interdipendente: perché siamo tutti interconnessi; perché tutti siamo governati da poteri economici e finanziari globali ed esposti alle stesse minacce e alle stesse emergenze sovranazionali; perché i confini non hanno più senso e tra russi e ucraini, tra palestinesi e israeliani, tra statunitensi e cinesi, tra europei e africani non ci sono differenze e opposizioni, se non quelle artificialmente costruite dai nazionalismi e dai fondamentalismi dei ceti politici in difesa dei loro miserabili poteri. 

Per la prima volta nella storia esiste perciò un popolo globale: l’umanità, meticcia e differenziata, ma unificata perché interconnessa, perché esposta alle medesime sfide e alle stesse minacce globali e perché accomunata dal medesimo interesse alla pacifica convivenza e sopravvivenza. Nell’età della globalizzazione la difesa degli interessi nazionali operata dagli odierni sovranismi è illusoria e mistificante, non solo perché i veri sovrani sono oggi le grandi potenze politiche, militari ed economiche, ma anche perché nessun interesse nazionale è superiore all’interesse comune di tutti alla sopravvivenza del genere umano. 

La forza e la novità del salto di civiltà prospettato da un processo costituente globale quale è quello che dobbiamo mettere in moto consiste, diversamente da qualunque altro progetto rivoluzionario del passato, nell’essere nell’interesse di tutti, ricchi e poveri, deboli e forti, potenti ed emarginati, non essendo contro nessuno ma a beneficio di tutti. Naturalmente questa prospettiva è destinata a incontrare ostacoli potentissimi: nella miopia del ceto politico, interessato a mantenere i propri piccoli poteri e privilegi, e negli interessi, parimenti miopi se vogliono avere un futuro, dei grandi poteri economici e finanziari. I tempi dei processi costituenti, purtroppo, sono assai più lenti dei processi distruttivi messi in atto dai crimini di sistema. Ma di fronte alle sfide e alle minacce che accomunano tutti, poveri e ricchi, deboli e forti – la Terra, dice un vecchio slogan, è per tutti l’unico pianeta che abbiamo – un risveglio della ragione è inevitabile. Siamo tutti sulla stessa barca. Dobbiamo essere consapevoli che la presenza sulla Terra dell’umanità è un fenomeno effimero, che può cessare e probabilmente cesserà se non ci sarà un cambiamento di rotta, e che abbiamo poco tempo, prima che sia troppo tardi, per cambiare strada. E’ ancora Kant che ci insegna a non cullarci nel pessimismo disfattista e paralizzante, destinato a convertirsi nella rassegnata accettazione dell’esistente. Senza la «speranza di tempi migliori», egli scrisse, «un serio desiderio di fare qualcosa di utile per il bene generale non avrebbe mai eccitato il cuore umano[14]». Giacché la speranza del progresso forma il presupposto sia dell’impegno morale che di quello politico. 

 

 
[1] Testualmente, la legge sopra citata stabilisce, con riguardo al primo comma dell’art. 4-bis, che «le parole “314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis”, sono soppresse».

[2] Secondo il rapporto Statistiques pénales Annuelles du Conseil d’Europe relativo al 2021, in Italia i detenuti per reati dei cosiddetti “colletti bianchi” – corruzioni, peculati, bancarotte reati finanziati – erano solo il 3,5% del totale.

[3] C. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, [1748], tr. it. a cura di S. Cotta, Utet, Torino 1965, vol. I, lib. XII, cap. II, pp. 321-322: «La libertà politica consiste nella sicurezza, o per lo meno nella convinzione che si ha della propria sicurezza. Questa sicurezza non è mai posta in pericolo maggiore che nelle accuse pubbliche o private».

[4] In Crimini di sistema e crisi dell’ordine internazionale, in Teoria politica, n. 9, 2019, pp. 401-411; in La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari 2021, §§ 8.4-8.8, pp. 411-438 e in Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli, Milano 2022, cap. 4, pp. 40-47.

[5] Sono i dati fornitimi da Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, che qui ringrazio. I dati sono aggiornati al 22 agosto 2023.

[6] C. Montesquieu, Lettres Persanes, (1721), LXXX, in Id., Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1951, vol. I, p. 252; Id., Lo spirito delle leggi, cit. parte prima, libro VI, capo IX, pp. 168-169: «La severità delle pene si adatta di più al governo dispotico, il quale ha il terrore come principio, che non alla monarchia e alla repubblica… Si potrebbe provare facilmente che in tutti o quasi gli Stati europei la diminuzione o l’aumento delle pene ha sempre coinciso con l’avvicinarsi o l’allontanarsi della libertà… La mitezza impera nei governi moderati».

[7] Così S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 169-186.

[8] E’ la tesi sviluppata da T. Effer, La pena in bianco. La legalità “nella misura del possibile”, in corso di pubblicazione.

[9] I. Kant, Per la pace perpetua, (1795), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, Utet, Torino 1965, edizione a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, sezione prima, § 3, p. 285: «"gli eserciti permanenti" (miles perpetuus) devono col tempo scomparire… Ciò perché minacciano inces­santemente gli altri Stati con la guerra, dovendo sempre mostrarsi armati a tale scopo, ed eccitano gli altri Stati a gareggiare con loro in quantità di armamenti in una corsa senza fine».

[10] «Il collegamento tra Stato e costituzione è un dato che ha condizionato lo sviluppo del costituzionalismo moderno, e dal quale sarebbe impossibile prescindere» (G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 15).

[11] «La parola "costituzione"», scrisse Carl Schmitt, «deve essere limitata alla costituzione dello Stato, cioè all’unità politica di un popolo»: essa esprime «l’unità del popolo come totalità politica», in accordo con «l’assioma democratico dell’identità della volontà di tutti i cittadini» (Dottrina della costituzione (1928), tr. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, § 1 p. 15). «La democrazia presuppone», aggiunse Schmitt, ivi, § 17, III, p. 308, «un popolo in sé omogeneo, che ha la volontà di esistere politicamente». E’ poi inevitabile che questa supposta unità politica del popolo si incarni nella persona e nella volontà di un capo: «Il presidente del Reich è eletto da tutto il popolo tedesco» ed è perciò in grado «di produrre contro il parlamento un’unione diretta con i cittadini elettori… Egli è idealmente raffigurato come un uomo che… unisce a sé la fiducia di tutto il popolo» (ivi, § 27, III, 4, p. 459).

[12] P. Calamandrei, Contro le belve, contro le intemperie. Un progetto per l’Europa (1953), a cura di Anna Longoni, Edizioni Henry Beyle, Milano 2021, p. 20.

[13] Ivi, p. 24.

[14] I. Kant, Sopra il detto comune: ‘questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica’ (1793), in Id., Scritti politici, cit., p. 276.

[*]

Relazione al XXIV Congresso di Magistratura Democratica, Napoli, 9-11 novembre 2023

20/11/2023
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