Sulle radici del suo antifascismo, Bianca stessa ci ha già raccontato tutto (sia nella sua autobiografia curata da Santina Mobiglia[1], sia in altri scritti: tra cui, molto preziosa, è l’intervista realizzata da Paolo Gobetti e Anna Gasco raccolta nel volume La guerra alla guerra[2]). «Le leggi razziali furono la mia vera introduzione alla politica»; furono «il punto di partenza consapevole». Ecco, in poche parole, la molla della sua scelta antifascista.
Nel 1938 Bianca ha 19 anni. Dopo la morte prematura del padre, aveva cominciato a lavorare (continuando a studiare da privatista). La sua famiglia non è ebrea ma molti suoi amici lo sono, a cominciare da Alberto Salmoni, suo fidanzato, che, con le leggi razziali, non può più frequentare l’università.
In questo quadro c’è il famoso episodio dei manifesti contro gli ebrei strappati nel centro di Torino con il gruppetto di amici (Primo Levi, Franco Momigliano, Wanda Maestro, Silvio Ortona, Ada della Torre, Luciana Nissin) di cui Bianca e Alberto facevano parte. Strappano i manifesti al grido «siamo tutti Italiani» (frase che oggi può apparire banale ma non lo era, se teniamo conto che nell’autunno ’43 la RSI emana un decreto in cui gli ebrei sono definiti «cittadini stranieri in tempo di guerra»). E’ un piccolo ma, per l’epoca, pericolosissimo gesto: che definisce il suo primo atto antifascista come reazione ad un sopruso. Un sopruso non contro lei ma a danno di altri.
Fino ad allora, racconta Bianca, lei aveva fatto “la vita normale”, esercitando molti sport e dunque inserita nelle attività di massa del fascismo. Anche se la madre, di origine operaia e poi sarta, le aveva raccontato degli scioperi di inizio ‘900 per la conquista delle 10 ore lavorative: una eco di antiche lotte operaie che in Bianca evidentemente lascerà una traccia.
Insisto su questa molla della scelta antifascista perché, a ben vedere, le leggi antirazziali segnarono la definitiva rottura con il regime per una fascia ristretta della popolazione. Possiamo dire che (a parte i ceti operai che, per la tradizione di inizio ‘900, erano influenzati dal socialismo) le leggi razziali furono accolte negativamente soprattutto nei ceti della media e piccola borghesia intellettuale. Ricordo che Maria Garrone (madre degli eroi della prima guerra Giuseppe e Eugenio e nonna di Sandro, Carlo e Virginia Galante Garrone) all’entrata in vigore dei decreti razziali smise di scrivere il suo diario; non uscì più di casa e invierà a tutte le molte famiglie ebree che conosceva una cartolina, senza parole e solo con la sua firma. Morirà 13 giorni dopo[3].
Ma la massa degli italiani maturerà l’ostilità verso il regime soltanto più tardi, con la guerra: con i bombardamenti, con l’esito disastroso della campagna di Russia, con la fame; insomma con lo scontro con cose molto materiali che dimostravano quanta distanza ci fosse tra la retorica guerrafondaia fascista e la realtà vera della guerra. Ciò sarà immediatamente chiaro per i più anziani, quelli che avevano conosciuto la prima guerra (Carla, sorella di Bianca, ricorda sul suo diario, il 3 settembre 1939, la folla agitata di fronte alla sede de La Stampa. Arriva lo strillone che porta i giornali con un titolo cubitale: «Danzica è stata annessa alla Germania». Carla chiede a un uomo più anziano quasi impietrito di fianco a lei: «che cosa vuol dire?». E l’anziano risponde solo: «vuol dire la guerra!» e si allontana in silenzio.)
Sempre Carla, qualche mese dopo, quando anche l’Italia sarà entrata in guerra e a Torino il 12 giugno, ci sarà il primo bombardamento, racconta il commento in piemontese di un passante che ha visto la prima vittima in via Priocca: «l’hanno sbergnaccato come una tomatica[4] contro il muro». Sono trascorse solo 48 ore dalla folla romana plaudente al proclama del duce («Vincere e vinceremo!») e già la crudezza della guerra presenta il suo conto.
Bianca non ha bisogno di queste dure lezioni di vita per capire che il fascismo segnerà la rovina dell’Italia e che dunque bisogna schierarsi.
Proprio in questo periodo Bianca aveva da poco cominciato a fare qualche piccolo lavoro e infine l’assistente sociale in fabbrica: «Era un mestiere molto bello … voleva dire andare tutti i giorni … ciascuna di noi aveva … più fabbriche; ogni giorno andavi in una certa fabbrica e stavi lì due o tre ore e raccoglievi le pratiche degli operai, parlavi con loro, eccetera, il giorno dopo andavi in un’altra».
Le fabbriche assegnate a Bianca sono la Nebbiolo Macchine (in via Boggio a Torino), la Nebbiolo Fonderie (in via Bologna) e una a Perosa Argentina (che Bianca raggiunge in treno e poi in bicicletta).
Questo suo lavoro segna l’incontro con la classe operaia, l’abbandono dei vecchi ambienti sportivi borghesi, la conoscenza delle condizioni di vita di ceti sociali estranei al suo ambiente (ad esempio, l’impatto con il livello di assistenza sanitaria che, per i poveri, era quasi inesistente).
Qui c’è l’incontro con i comunisti e il partito comunista. Non solo perché, in quello stesso periodo, legge La mia vita di Trotsky ma perché i comunisti sono i più attivi, spesso gli unici presenti, dentro le fabbriche, contro il fascismo. Scelta antifascista e scelta del PCI sembrano a Bianca quasi indissolubili.
Anche qui notiamo una differenza, rispetto alle generazioni di poco precedenti. Alessandro Galante Garrone ricordava come i giovani nati nel primo decennio del secolo (lui, Vittorio Foa, Norberto Bobbio, Giorgio Agosti, Dante Livio Bianco, Franco Venturi) che avevano avuto la fortuna di conoscere vecchi maestri liberali (Einaudi, Ruffini, Croce, Omodeo) abbiano fatto coincidere la scelta antifascista con l’adesione a Giustizia e Libertà. I giovani nati una decina di anni dopo o anche meno (Antonio Giolitti, Giaime e Luigi Pintor, Paolo Spriano, Aldo Natoli, Franco Calamandrei, Furio Diaz) faranno coincidere la scelta antifascista con l’adesione al partito che sembrava più presente e più intransigente contro il regime: il PCI.
Nel ’42, Bianca non paga più la tessera di iscrizione ai GUF (Gruppi Universitari Fascisti); fino ad allora – ricorda - era una cosa automatica che si faceva al momento dell’iscrizione e del pagamento delle tasse universitarie. E nel ’42 quando va a sostenere gli esami non indossa più la divisa (la sahariana) che formalmente non era obbligatoria ma che per consuetudine tutti indossavano; compresi i suoi professori (ad eccezione di Luigi Einaudi).
Quando ci sono gli scioperi dei primi mesi del ’43 lei va davanti alle fabbriche, con alcuni studenti «a vedere cosa succedeva». Si fa così notare da alcuni operai le cui famiglie aveva visitato come assistente sociale. E così viene contattata dal partito.
Lei stessa racconta la sua graduale iniziazione. «Mi arriva un operaio in casa che mi dice: tu hai detto che ti interessava qualcosa sul partito comunista». E così la volta dopo l’operaio le porta degli opuscoli da leggere. Poche settimane dopo, la prima proposta di collaborazione: «Abbiamo bisogno di qualcuno che batta a macchina».
Poi, nell’estate del ’43, nei 45 giorni del “periodo badogliano” tra il 25 luglio e l’8 settembre, una breve illusione di libertà: ci si vede in gruppo, non più clandestinamente, anche con riunioni. Ed arriva così il secondo contatto del partito, con un funzionario: si sta ricostituendo la federazione, avresti voglia di lavorarci? Certo, risponde Bianca; anche se sa che la paga che le darà il partito sarà inferiore allo stipendio che prende come assistente sociale. Tutto è pronto: l’ufficio sarà in via San Francesco da Paola. Bianca dovrà cominciare a lavorarci mercoledì 8 settembre. Sennonché, l’8 settembre…succede l’8 settembre! E così si torna alla totale clandestinità.
Due giorni dopo, nel pomeriggio del 10 settembre, Bianca è sotto i portici di via Po; e da lì vede i carri armati tedeschi che risalgono la via, diretti verso piazza Castello. E’ un’immagine che non si stancherà mai di raccontare. Anche perché, poco dopo, nei pressi della stazione di Porta Nuova, sparando a casaccio contro un tram dai cui finestrini alcuni passeggeri avevano fischiato verso di loro, i tedeschi uccisero tre persone e ne ferirono undici. Nei due giorni successivi, uccideranno altri quarantasei cittadini. Questo fu il biglietto da visita consegnato dai nazisti alla città di Torino.
Qualche giorno dopo, il funzionario comunista dà appuntamento a Bianca nel cortile di un palazzo bombardato di piazza Vittorio Veneto, che si affaccia sul fiume. E qui si svolge una scena che sembra uscita da un film sovietico degli anni ’30. In mezzo alle macerie il funzionario le dice con solennità: «ho da darti una bellissima notizia. Da questo momento fai parte del Partito comunista».
E così Bianca attraverserà tutti i venti mesi della Resistenza come militante comunista. Il suo nome di battaglia è Nerina. La regole della clandestinità sono così rigorose che, per un certo periodo, Bianca non dirà nulla della sua iscrizione al partito neppure al fidanzato Alberto, che già da tempo militava in Giustizia e Libertà. Anche se, fin dall’inizio, la sua attività di resistente si intreccerà continuamente con quella degli amici di GL. E’ proprio a casa di Bianca, in via Montebello, sotto la Mole, che Vittorio Foa, da poche settimane uscito dal carcere, troverà rifugio, insieme ad altri antifascisti, nei primi giorni dopo l’8 settembre. E, qualche mese dopo, è proprio Bianca ad accompagnare in montagna («in banda») Alberto Salmoni. Ovviamente, in bici. Lei davanti, lui dietro. Lei fa da vedetta e, se vede un pericolo, deve dare un segnale. E così canta ad alta voce pedalando in salita da Torino alle valli di Lanzo, con l’intesa che, se dovesse avvistare una pattuglia tedesca, smetterà di cantare («Mica potevo fare il contrario: pedalare in silenzio e mettermi a cantare in caso di pericolo in vista… Mi sarei subito fatta notare… Ma fu una fatica dell’altro mondo»!).
A parte i frequenti contatti con gli amici partigiani saliti in montagna (e sono sempre arrampicate su strade in salita sulla fedele bicicletta, per portare documenti, lettere e anche armi) l’attività clandestina di Bianca si svolge essenzialmente a Torino. Con il preciso compito di occuparsi, per il PCI, della parte sindacale. E di rappresentare le donne nel quinto settore (Centro) del partito.
Tutto secondo i canoni della lotta clandestina in città, con una specifica declinazione al femminile: appuntamenti in strada, brevi riunioni segrete, alcune in appartamenti lasciati liberi dagli “sfollati” in campagna; diffusione di ciclostilati (il primo curato anche da Bianca si chiama Il Proletario: un unico foglio con due facciate). Grande lavoro di propaganda per la parità (a cominciare dalla parità di salario).
E’ in questo contesto, nell’ambito dell’organizzazione femminile, che Bianca incontra Ada Gobetti, vedova di Piero. Sarà una lunga amicizia, intrecciata di continue comuni iniziative politiche e culturali, che durerà fino alla morte di Ada, nel marzo 1968. Insieme – è il dicembre 1943 - Bianca e Ada partecipano alla fondazione dei Gruppi di Difesa della Donna per l’assistenza ai combattenti della Libertà; che raggruppano donne di orientamenti diversi (comuniste, socialiste, cattoliche, azioniste) ed avranno una diffusione capillare, sia sul territorio sia in fabbrica.
Sullo sfondo, a rendere possibile e a sostenere tutto, c’è la solidarietà di popolo verso i combattenti.
Gli episodi raccontati da Bianca valgono più di qualunque saggio nel far capire cosa significasse questo sostegno. Ci sono, fitti, a volte taciti ma non meno sicuri, i rapporti quotidiani con gli abitanti del quartiere. C’è la lattaia che le tiene i documenti. C’è la portinaia che mette a disposizione l’appartamento di una famiglia sfollata, per poter ciclostilare. E una mattina arriva la proprietaria e la portinaia pronta a giustificare: «sono mie amiche che lavorano».
E’ questa solidarietà che – trent’anni dopo – segnerà la differenza rispetto ai terroristi che Bianca si troverà a difendere. Ad alcuni di quei giovani Bianca vorrà anche bene; li vedrà, struggentemente, come propri figli che sbagliano. Li difenderà con tutta la passione del vero avvocato e con il totale rispetto del doppia e difficile lealtà del difensore verso il cliente e verso lo Stato. Ma a quei giovani non smetterà di ricordare la differenza fondamentale: la portinaia che nel ’44 ti proteggeva, nel ’77-’78 sarà la prima a chiamare la polizia.
Nei primi mesi del ’45 l’attività clandestina diventa febbrile. Bianca partecipa alla formazione dei comitati di agitazione, che dovranno preparare lo sciopero insurrezionale di aprile. La fase pre-insurrezionale comincia a metà marzo con l’eccidio della famiglia Arduino: il padre Gaspare, operaio alle acciaierie Fiat ed organizzatore delle Squadre di azione patriottica (SAP); le figlie, Vera e Libera (entrambe operaie; la prima, inserita nei Gruppi di difesa della donna di Barriera Milano; la seconda, staffetta partigiana). Insieme a un loro ospite (Alberto Ellena) e a due vicini (Rosa Ghizzone e Pierino Montarolo) vengono prelevati da casa dalle Brigate nere la sera del 12 marzo. Soltanto Ellena si salverà. Tutti gli altri vengono torturati e trucidati. I loro funerali, nel cuore della Torino operaia, diventano una manifestazione di massa, organizzata dai Gruppi di difesa della donna. Alcune fabbriche sono in sciopero. Partecipano migliaia di persone. Tutte le donne portano qualcosa di rosso (un fiore, un vestito, un nastro). Tutti si inginocchiamo davanti alle bare. Arrivano camion carichi di fascisti: sparano, caricano la folla, arrestato un centinaio di persone. Ma per loro, quel giorno, già hanno cominciato a suonare le campane a morto.
A quei funerali, che ha tanto contribuito ad organizzare, Bianca non partecipa: il partito le ha ordinato di stare in disparte. Deve stare pronta per i giorni seguenti. Si sta ormai organizzando lo sciopero insurrezionale del 18 aprile. Bianca ci lavora instancabilmente, con lo scopo di assicurare che in ogni comitato di agitazione sia presente una donna dei Gruppi di difesa. Lavora al fianco di un compagno anziano di cui conosce solo il nome di battaglia. Soltanto dopo saprà che è Battista Santhià, operaio che nel 1920 aveva partecipato all’occupazione delle fabbriche, aveva collaborato con Gramsci all’Ordine Nuovo e poi si era fatto tredici anni di carcere.
Il 18 aprile è la prova generale: la conferma che la città è ormai pronta per l’insurrezione. Bianca lo capisce quando, trovandosi su un tram che attraversa il centro, all’ora stabilita, vede il manovratore fermarsi, rivolgersi ai passeggeri e annunciare tranquillamente: «Signori, si scende. E’ l’insurrezione».
Ovunque, ci furono comizi volanti di donne dei Gruppi di difesa: davanti alle fabbriche, in strada, agli incroci, magari salendo sui gradini dei lampioni per farsi vedere o magari in sella alla bicicletta, per essere pronte alla fuga. E’ il momento prima della rivoluzione. Come sempre, ancor più bello della rivoluzione. Ricorderà Bianca: «fu il momento più entusiasmante (più ancora del dopo, quando si cominciarono a vedere anche le ombre): allora si sentiva solo lo slancio irresistibile che attraversava tutta la città e che nulla sembrava più in grado di fermare».
E infatti, i dieci giorni che vanno da quel 18 aprile alla Liberazione (che a Torino sarà il 28) saranno giorni di continua agitazione pre-insurrezionale. La parola d’ordine è «abbiamo conquistato la piazza, non dobbiamo perderla».
Le fabbriche sono in mano agli operai in armi.
E qui la memoria di Bianca ci consegna un’altra scena da film del neorealismo: lei che, il 20 aprile, con un’altra compagna, arriva in tram in una fabbrica di via Lanzo. Trova, al cancello, due operai in tuta e armati che l’accompagnano nel refettorio dove era stato riunito tutto il personale (operai, impiegati e dirigenti). Bianca che sale sul tavolo e inizia il suo primo comizio: «Lavoratori, gli Alleati sono sbarcati, le gloriose armate sovietiche sono alle porte di Berlino». Un uragano di applausi. Gli operai davanti a lei che si commuovono. Lei stessa che scoppia a piangere e il suo comizio finisce lì. Commenterà, autoironicamente: «se fosse dipeso dal mio comizio le armate sovietiche sarebbero ancora alle porte di Berlino».
Bianca trascorre il 28 aprile correndo su e giù per la città, portando biglietti. Il partito aveva ordinato: «mettetevi una fascia della croce rossa e girate per la città a portare ordini»; e la sorella Carla le confeziona una fascia bianca con la croce rossa. E sarà quella fascia a salvarle la vita, ingannando un ragazzotto fascista del Ferrante Aporti che la ferma per un controllo (perché negli ultimi giorni la repubblica sociale aveva liberato i detenuti del carcere minorile e li aveva assoldati come combattenti).
Qui finisce la Resistenza di Bianca, nome di battaglia Nerina.
E qui cominciano le sue battaglie civili.
***
Soltanto comprendendo la radice profonda della scelta antifascista e indissolubilmente anche comunista del ’40-’43, si può capire come sia stato straziante, per Bianca, nel 1956 l’uscita dal Partito Comunista. Quando, per giustificare i carri armati mandati contro gli operai ungheresi, si confondeva «la furia di un popolo disperato» con la reazione (con la comoda formula del “terrore bianco”). E Bianca capì che non poteva più stare in quel partito: «mi convinsi che perseverare nella disciplina del partito fosse una forma di tradimento».
Racconterà lei stessa: «Alla fine …semplicemente non rinnovai la tessera. Era un esito obbligato…passavo interi pomeriggi al cinema perché non volevo farmi sorprendere in casa in lacrime. Mi passò la voglia di mangiare, cosa per me del tutto inusuale. Mi ferì profondamente l’isolamento, da parte di molte persone con cui avevo lavorato durante la Resistenza e nel sindacato: funzionari e funzionarie con cui ero stata a stretto contatto per molto tempo. Non mi salutavano neppure più… molti dirigenti mi passavano accanto come fossi invisibile e ripresero a salutarmi solo anni dopo… ritrovai la forza di reagire gettandomi nell’attività professionale, decisa a dimostrare, a me stessa e agli altri, di poter proseguire nello stesso impegno civile e sociale in cui avevo creduto. Anche senza, e non necessariamente contro il partito».
Si verifica così uno strano e straziante corto circuito. Bianca è diventata comunista per essere dalla parte della classe operaia. Esce dal PCI perché trova inaccettabile che, in nome della difesa del comunismo, vengano mandati carri armati contro gli operai. Ma gli operai comunisti italiani (nella loro stragrande maggioranza) non capiscono la posizione degli intellettuali come lei (Italo Calvino, Antonio Giolitti). Quei pomeriggi trascorsi nel buio di un cinema per piangere in silenzio sono, ancor oggi, un pugno nello stomaco.
Molti, al suo posto, sarebbero diventati pazzi. O, perlomeno, feroci anticomunisti. Lei invece non si separa dagli operai, che pure non la seguono. Sta al loro fianco, sempre: nelle lotte sociali, contro le discriminazioni in fabbrica, nella difesa dei diritti, facendo il mestiere di avvocato.
Sarà il suo lavoro di avvocato a salvarla. E chiunque abbia parlato, nei decenni successivi, con qualche vecchio operaio torinese, sa che gli operai, alla fine, la capirono. E riconobbero sempre in lei una compagna inseparabile: «anche senza il partito».
Ogni azione, ogni parola che segneranno l’impegno professionale e politico di Bianca nel dopoguerra saranno espressione della stessa motivazione originaria della sua giovanile scelta antifascista. Saranno il frutto della sua attenzione costante alla persona, al rispetto della sua dignità. E’ un umanesimo che nutre e innerva la politica ma sta a monte della politica. E’ lo stesso umanesimo che 50 anni dopo la Liberazione muoverà Bianca ad un’ampia ricerca sulle donne collaborazioniste del fascismo di Salò. Dirà lei stessa: per «cercare le persone dietro il nemico che stava dall’altra parte»; senza alcun pareggiamento nel giudizio storico delle opposte scelte di campo ma per la ricostruzione di una «memoria al plurale che integri la conoscenza dell’altro». Per capire come donne della sua età, spesso cresciute negli stessi ambienti e con la stessa educazione, avessero potuto collaborare e indossare la divisa di ausiliarie fasciste, senza neppure l’obbligo di reclutamento che incombeva sui coetanei maschi, in un momento in cui già era chiaro a tutti che quella scelta non aveva avvenire.
E’ il tema perenne di chi ha combattuto una guerra civile. E’ il tema della pietas verso il nemico vinto che già nel 1948 ispira Cesare Pavese ne La casa in collina: «Anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso”. Perché “ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione».
Ma, in Bianca, è anche qualcosa di più: è un voler capire le cause e le dinamiche di una guerra civile. Una guerra «combattuta senza linee del fronte», in cui il nemico può essere il vicino della porta accanto o il vecchio compagno di scuola. C’è il voler capire – dirà Bianca – come «possano spezzarsi i legami elementari della convivenza quando la politica precipita in guerra e si insinua nei rapporti tra le persone, porta a vedere nel volto dell’altro il nemico».
Con queste parole Bianca ci parla della Resistenza. Ma ci parla anche della ex Jugoslavia, della battaglia di Sarajevo, ci parla della guerra civile perenne.
Anche per questo, la ricordiamo come una donna straordinaria, una delle più grandi intellettuali impegnate del 900 italiano.
[1] B. Guidetti Serra, con Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Einaudi, 2009.
[2] La guerra alla guerra, Storie di donne a Torino e in Piemonte tra il 1940 e il 1945, a cura di Anna Gasco con prefazione di Anna Bravo, Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, “Giorgio Agosti”, Ed. Seb 27, 2007.
[3] L’11 novembre 1938 Maria Garrone scrive sul suo Diario: «D’ora innanzi farò del mio diario un semplice promemoria. Troppe cose mi turbano. E’ uscita la legge per la difesa della razza. Si deve chiamare così la crudele battaglia antisemita. Dio ci assista. Indignazione crescente».