E’ possibile raccontare la Storia non dal punto di vista di noi umani? E’ possibile liberarsi dal nostro antropocentrismo e dal nostro specismo, per «toglierci dal centro del palcoscenico. Metterci, noi umani, quanto più ai margini, anche per comprendere la nostra, di Storia»?
E’ questa la scommessa con cui si misura Il Gelso di Gerusalemme, l’ultimo libro di Paola Caridi.
Dopo lo straordinario e monumentale Hamas, dalla resistenza al regime, storia documentatissima del movimento palestinese e delle sue evoluzioni ed involuzioni, capace anche di mettere in discussione punti di vista diffusi e smontare luoghi comuni abusati, Paola Caridi prova a parlare di un’altra Storia, abbandonando (almeno apparentemente) quella «piccola e crudele» a cui noi umani abbiamo dato vita «con il sangue di altri umani. Troppo sangue», per porsi nella inusuale prospettiva degli alberi.
Non che la Storia di noi umani, se riguardata da una prospettiva nonumana (secondo l’ortografia della Caridi) muti di molto: resta quella consueta, misera, fatta di violenze e sopraffazioni; ma, almeno, viene relativizzata, sino quasi a diventare insignificante a fronte del radicamento (simbolico, ma anche tanto reale e vitale) degli alberi, nella loro sacrale immobilità.
Dalla Storia come comunemente ci viene narrata, fatta di un succedersi di cronache incentrate solo sull’umano e basate sull’assioma, che risale alla scuola sofistica di Protagora, dell’uomo metro e misura di ogni cosa, Paola Caridi passa così ad uno sguardo più distaccato, probabilmente consapevole (senza necessità di enunciati scientifici) del fatto che, come ricorda sovente il botanico Stefano Mancuso, noi esseri umani rappresentiamo solo lo 0,01 per cento della Vita del pianeta, e raggiungiamo, con l’intero mondo animale, appena lo 0,3 per cento, a fronte di un 87 % di tutto ciò che vive costituito da piante, con il loro modello di organizzazione lontanissimo dal modello animale.
Le pagine di Paola Caridi sono sorprendentemente (per chi sin qui l’avesse conosciuta solo per i suoi lavori giornalistici o storici) venate di nostalgia verso un mondo in cui le piante, gli alberi, caratterizzavano altri modi di abitare città e villaggi, ed in cui il mondo vegetale in qualche modo addolciva anche quello umano. Questa nostalgia colora innanzitutto esperienze e ricordi personali: la casa dei nonni, in una campagna romana del dopoguerra, oggi fagocitata dall’espansione urbanistica della capitale, dove l’Autrice apprende la fatica della campagna in «una relazione semplice, senza fronzoli tra umano e nonumano»; lo struggente abbraccio al pino piantato nel Giardino dei Giusti tra le Nazioni di Gerusalemme dedicato alla famiglia di Vittorio Citterich; l’incontro, descritto con delicatezza e quasi con pudore, con una donna palestinese, Umm Ahmed, che difende, con la fatica del suo lavoro nei campi, innanzitutto la propria dignità, karama in arabo, «pilastro su cui anche le libertà si costruiscono»; infine, la rabbia ed il dolore, quasi fisico, per la scoperta della mutilazione subita per mano ignota da un gelso dalle more rosse, lasciato rigoglioso e frondoso in un cortile di Gerusalemme, e ritrovato amputato dopo anni.
Ma Paola Caridi è anche o soprattutto una storica attenta e rigorosa (basta sfogliare la ricca bibliografia che accompagna anche questo suo lavoro), ed una conoscitrice straordinaria delle vicende di quella che ostinatamente chiama Asia Occidentale (per manifestare, anche nel linguaggio, la consapevolezza della arbitrarietà del nostro modo di guardare ai fatti del passato attraverso lenti deformanti, come quelle del colonialismo europeo rispetto a ciò che comunemente definiamo Medio Oriente).
Ed ecco, allora, che le memorie personali subito si confondono con la tragica attualità, con gli alberi che, oggi, bruciano sulle colline di Galilea e nella parte meridionale del Libano; con il muro che cinge Gaza dove un tempo svettavano immensi sicomori, attorno ai quali si riunivano famiglie ed interi villaggi.
E la narrazione “botanica” serve anche a mettere in luce fatti ed a disvelare falsi miti e luoghi comuni. Come nella storia delle arance shamouti, le arance di Jaffa, una pregiata varietà diffusasi grazie alla sapienza di contadini ed agronomi palestinesi già a metà dell’ottocento, facendo di Jaffa e del suo porto, ben prima dell’arrivo dei primi migranti sionisti, un polo di crescita anche economica, in una Palestina che non era affatto un deserto incolto; storia che, però, dopo il 1948 e dopo la nakba (in arabo, la catastrofe, cioè l’esodo forzato della popolazione palestinese durante la prima guerra arabo – israeliana), cambia segno e viene «risignificata», con una narrazione da parte del giovane stato di Israele che si appropria, insieme a quelle terre, anche di quei frutti, per farne un simbolo della propria laboriosità e della propria presenza nel mondo, come se prima non vi fosse stato nulla.
Sono tanti gli episodi, i racconti in questo libro di Paola Caridi, denso di Storia e storie, dalla cui lettura, peraltro davvero agevole grazie ad una scrittura sempre piana e netta, residuano anche angoscianti domande: quanto (poco) vale il nostro tempo umano rispetto a quello della Vita sul nostro pianeta? Riusciremo mai a comprendere una Storia che non sia soltanto umana, ma – come dice l’autrice – «globale, intraspecie, interconnessa»? E soprattutto: riusciremo mai ad «imparare dagli alberi, e chiedere perdono»?