1. «Tutto ciò dimostra, a mio parere, che il diritto internazionale è uno strumento vivo, che i suoi principi ancora costituiscono il punto di riferimento a cui richiamarsi anche e soprattutto nei momenti di crisi totale della politica e della diplomazia».
Mi permetto di richiamare quanto scrivevo a marzo dello scorso anno rispetto all’attenzione - senza precedenti a livello mondiale e interno – dedicata ai profili di diritto internazionale rispetto all’aggressione russa dell’Ucraina e all’immediata attivazione dei meccanismi della giustizia internazionale, anche penale, al riguardo (Questione giustizia, 11 marzo 2022). Credo allo stesso modo sia necessario ripartire da questa prospettiva oggi, a fronte dei tragici sviluppi in Israele/Palestina, una situazione che conosco a fondo avendola, come giurista, studiata approfonditamente e da vicino negli ultimi 15 anni.
Ora come allora occorre ripartire dal diritto. Occorre interrogarsi su quale sia il suo ruolo e cosa abbia da dire non solo in tempo di pace ma anche nel corso dei conflitti armati. Mai come oggi il ricorso alla forza armata - anche in funzione difensiva - sta mostrando di non potere essere la via, certo non l’unica, percorribile. Dopo la Seconda guerra mondiale, a fronte delle atrocità inaudite commesse contro i civili, degli stermini di massa, l’olocausto, ci siamo dotati di strumenti di diritto internazionale, in primis le Quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che disciplinano i conflitti armati. L’anno precedente la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo era stata adottata. Sono seguite altre importantissime Convenzioni in sede Onu, tra cui quelle contro il Genocidio (1948) e contro la Tortura (1984). Nel 1998 un passo fondamentale è stato fatto con l’adozione dello Statuto della Corte penale internazionale, poi entrata in funzione nel 2002. La Corte ha giurisdizione sui crimini di guerra, crimini contro l’umanità, il genocidio e l’aggressione, i c.d. “core crimes” del diritto internazionale. 123 Stati ne fanno parte, tra cui tutti gli Stati europei.
Abbiamo di recente visto il supporto che la Cpi ha immediatamente, e giustamente, ricevuto nel caso Ucraina. 43 Stati parte hanno riferito, ai sensi dell’art. 13(a) dello Statuto, la situazione alla Corte, di fatto accelerandone l’intervento, anche grazie al dispiego di fondi e risorse messe adisposizione ad hoc da parte di molti Stati. Si è giunti in tempi relativamente veloci alla emissione di mandati di arresto per crimini di guerra, uno per il Presidente in carica Vladimir Putin.
Ebbene, bisogna prendere atto che tutto ciò non sta avvenendo rispetto alla situazione in Israele/Palestina. Per chi segue la questione da vicino, purtroppo non è sorprendente ma è bene ripercorrere alcuni passi.
2. Già venti anni fa, a fronte del tentativo da parte dell’Autorità palestinese di attivare la Corte internazionale di giustizia (Cig), il massimo organo giudiziario dell’Onu che ha competenza a giudicare sulle responsabilità degli Stati, per avere una pronuncia in merito alle conseguenze della costruzione di un muro da parte di Israele, la posizione di alcuni Stati europei fu di opposizione alla possibilità stessa che la Corte si pronunciasse attraverso un parere in questa situazione. L’Italia, in particolare, dichiarò: «Il Governo è fermamente convinto che la Corte debba rifiutarsi di rispondere alla questione posta dalla risoluzione dell'Assemblea Generale dell'8 dicembre 2003, relativa alle conseguenze derivanti dalla costruzione del muro da parte di Israele, la Potenza occupante, nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est e dintorni». Nonostante le pressioni e opinioni contrarie, la Cig affermò la sua giurisdizione e il parere consultivo (Advisory Opinion) del 2004 ha stabilito alcuni punti fondamentali, tra cui il fatto che il muro (o barriera di separazione, fence), per come costruito e concepito da Israele (in annessione di territorio palestinese occupato) era contrario al diritto internazionale e doveva essere smantellato. La Corte ha tracciato chiare linee per bilanciare le legittime istanze di sicurezza di Israele e la tutela dei diritti umani della popolazione palestinese occupata. Fondamentale è anche ricordare la conclusione della Cig rispetto agli obblighi degli Stati terzi di fronte a tale situazione illegale creata da Israele: «Tutti gli Stati hanno l'obbligo di non riconoscere la situazione illegale risultante dalla costruzione del muro e di non prestare aiuto o assistenza per il mantenimento della situazione creata da tale costruzione; tutti gli Stati parti della Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra del 12 agosto 1949 hanno inoltre l'obbligo, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, di assicurare il rispetto da parte di Israele del diritto umanitario internazionale, come incarnato in tale Convenzione» (ICJ, Advisory Opinion, 9 luglio 2004).
3. Non solo tale parere non ha avuto seguito: negli anni seguenti, com’è noto, il muro ha continuato ad avanzare, il territorio palestinese ha continuato ad essere annesso e colonizzato da Israele anche mediante il trasferimento della propria popolazione, che fonti Onu stimano ammonti ormai a oltre 700.000 coloni, includendo Gerusalemme est (che è parte del territorio palestinese occupato, come riconosciuto dal diritto internazionale). Queste pratiche illegali, che hanno subito una forte accelerazione negli ultimi anni con il governo Netanyahu, continuano da decenni senza incontrare alcuna vera opposizione da parte degli Stati terzi, ed in particolare gli Stati Uniti e i nostri Stati europei, che anzi hanno continuato a ricompensare economicamente Israele anche mediante la stipula di trattati commerciali privilegiati con l’Unione Europea, in spregio alla, c.d “human rights clause” contenuta negli accordi bilaterali dell’Unione.
L'Italia, peraltro, insieme a Germania e Regno Unito, oltre che naturalmente a Israele e Stati Uniti, nel dicembre 2022 ha votato contro la nuova richiesta di parere presentata dall'Assemblea Generale alla Corte internazionale di giustizia sulle conseguenze giuridiche dell'occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele, che è stata ora calendarizzata per febbraio 2024 davanti alla Cig.
4. Quanto alla Corte penale internazionale (Cpi), la situazione è simile. Già nel gennaio 2009, a seguito della devastante operazione c.d. Piombo Fuso sulla Striscia di Gaza, l’Autorità palestinese presentò una dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte ai sensi dell’art. 12(3) dello Statuto di Roma (per intenderci, lo stesso meccanismo su cui si basa la giurisdizione della Cpi in Ucraina), con l’intento di attivare indagini e procedimenti internazionali sui gravi crimini commessi (da entrambe le parti), come accuratamente documentato in decine di report indipendenti tra cui anche una Commissione di altissimo profilo istituita dall’Onu. Tale report aveva tra l’altro concluso nel senso che il blocco di Gaza, imposto nella sua forma più estrema dal 2007 a seguito della presa di potere di Hamas, costituisse punizione collettiva della popolazione civile. Nello stesso senso si sono espressi organismi dell’Onu e il Comitato della Croce Rossa Internazionale. Avevo documentato tutto il processo in un corposo libro intitolato Is there a Court for Gaza?, pubblicato nel 2012 da Springer. A oltre dieci anni di distanza la domanda è ancora attuale.
A causa, infatti, dell’incerto status della Palestina come Stato (obiezione poi superata dalla Cpi stessa a seguito della Risoluzione della Assemblea Generale dell’Onu del 29 novembre 2012 che ha innalzato la Palestina a stato osservatore non membro, unico caso accanto al Vaticano a godere di tale status) per molti anni non è stato possibile avviare le indagini. Nel gennaio 2015, di nuovo a seguito di una devastante operazione su Gaza, c.d. Margine Protettivo, la Palestina ha ratificato lo Statuto di Roma divenendo parte della Corte penale internazionale. Enormi pressioni sono state esercitate sulla Palestina (affinché non ratificasse lo Statuto) e sulla Cpi (affinché non si occupasse di questa situazione). Alcuni Stati, tra cui il Regno Unito, le hanno esplicitate in dichiarazioni pubbliche. Altri lo hanno fatto a livello diplomatico, sostenendo che il ricorso ai meccanismi della giustizia penale internazionale fosse un ostacolo al processo di pace, paragonandolo all’avanzamento delle colonie da parte di Israele: una equiparazione inaccettabile, essendo le colonie illegali in base alla IV Convenzione di Ginevra e potendo costituire crimini di guerra ai sensi dell’art. 8 dello Statuto della Cpi. Altri Stati parti della Corte, come la Germania (un campione in altre occasioni della giustizia internazionale, anche penale, per lo meno dal 1990 in avanti), sono intervenuti nel procedimento davanti alla Cpi mediante la presentazione di pareri come “amicus curiae”, basati sulla loro posizione politica, non riconoscendo la Palestina come Stato, sostenendo che la Corte non dovesse e potesse occuparsi dei gravissimi crimini oggetto di indagine preliminare. Tale posizione, come ben analizzato da professori di Diritto internazionale tedeschi, contrasta con il fatto che la Palestina era a quel punto già stata accettata come Stato parte della Cpi, non essendovi state obiezioni alla ratifica del trattato in sede Onu o di Assemblea degli Stati parti.
Nonostante le pressioni, la Cpi ha finalmente aperto le indagini nel marzo del 2021, ma da allora non si sono visti progressi concreti. È da attendersi che alla luce dei gravi attentati compiuti da Hamas vedremo qualche accelerazione all’Aia. Quel che resta da vedere è se tali indagini saranno giuste e bilanciate, ossia se la Corte sarà in grado di agire anche rispetto alle responsabilità penali di esponenti dell’apparato militare e politico israeliano.
5. La frustrazione dei difensori dei diritti umani palestinesi è andata crescendo con il tempo ed è diventata sempre più esplicita nell’ultimo anno guardando a cosa avviene rispetto all’Ucraina. Il sentimento di abbandono, anche tra coloro che sono stati i fautori della scelta di ricorrere agli strumenti del diritto, superando ostacoli ed esponendosi a rischi indicibili per supportare l’operato della Cpi, interni ed esterni, è diffuso. Parlo di coloro che si sono opposti al modello rappresentato da Hamas, persone che hanno dedicato la vita a battersi per lo stato di diritto e contro alla violenza e l’uso della forza, anche internamente, come Raji Sourani, il direttore del Palestinian Center for Human Rights di Gaza, insignito di innumerevoli premi e riconoscimenti a livello internazionale, peraltro sopravvissuto per miracolo al bombardamento della sua casa di famiglia a Gaza city la scorsa settimana.
Nel suo discorso di martedì scorso Antonio Guterres, Segretario Generale dell’Onu, non ha fatto altro che ricordare che occorre ripartire dal diritto, inclusi i diritti troppo a lungo negati del popolo palestinese. Ignorare le istanze di un intero popolo basate sul diritto all’autodeterminazione, principio di ius cogens, e lasciare che i loro diritti umani, a partire dal diritto alla vita e alla dignità umana, siano sistematicamente violati, al contempo garantendo impunità incondizionata ad Israele, non è mai stata una via volta al raggiungimento della pace. Al contrario ha creato le condizioni perfette perché l’estremismo e il fondamentalismo potessero attecchire e rafforzarsi, fino a giungere ai fatti che sono in questi giorni davanti agli occhi di tutti noi. Questo non significa in alcun modo sminuire la gravità di quanto fatto da Hamas, crimini gravissimi da condannare senza se e senza ma, che il Segretario Generale non ha in alcuno modo voluto giustificare, anzi.
Sono riflessioni certamente scomode ma credo necessarie, se vogliamo che i valori stessi su cui si fondano le nostre democrazie non vadano perduti.