Le ribelli di Nando Dalla Chiesa è uscito per la prima volta nel 2006 ed è stata riedito nel 2024.
L’opera descrive, con lucidità e passione, la storia di donne che si sono assunte il compito doloroso di contrastare la mafia nel loro paese.
Il contesto narrativo, evidentemente ricondotto alla tragedia, è caratterizzato da sette «scene»[1], ciascuna dedicata alle più famose protagoniste della lotta alla criminalità mafiosa, che aveva avviluppato anche i loro più intimi contesti familiari. Lotta che tutte avevano portato avanti anche al fine di mantenere viva la memoria dei loro cari, rimasti vittime di brutali omicidi.
Si comincia con Francesca Serio, la madre del contadino Salvatore Carnevale ucciso (per aver fondato a Sciara la prima sezione del sindacato) da quattro mafiosi che vennero, alla fine, tutti assolti per insufficienza di prove; segue poi la scena di Felicia Impastato, madre di Peppino, il quale aveva coraggiosamente deciso di parlare delle ingiustizie del mondo, delle prepotenze diffuse sulla terra ed, in particolare, nel suo paese, attraverso la creazione di una radio libera: Felicia, dopo la tragica fine del figlio, falsamente accusato di essere deceduto durante un atto di terrorismo da lui stesso organizzato, respinse tutti gli inviti a dimenticare il suo eccidio, avvenuto ad opera del boss mafioso che abitava a cento passi da lui[2] e cercò in tutti i modi di allontanare la convinzione che il figlio fosse stato un terrorista, riuscendo ad ottenere giustizia attraverso il processo che si concluse con la condanna di Tano Badalamenti.
Ancora, il libro continua con la vita di Saveria Antiochia, la madre del poliziotto Roberto, ucciso insieme al commissario Ninni Cassarà, e con la descrizione dettagliata e documentata della vicenda che aveva portato alla loro morte, corredata dalle mancanze di tutela che lo Stato avrebbe dovuto fornire a fronte del senso di responsabilità e dell’impegno dimostrato dal figlio che, dopo aver ottenuto il trasferimento a Roma, era voluto rientrare in Sicilia per la voglia di sentirsi utile e di combattere in prima fila la criminalità mafiosa.
L’autore parla della bellezza delle rughe che solcavano il volto di Saveria e che erano «la sua storia» di orgoglio, di pena, di rivolta e di speranza, sulle quali sembrava incisa il luogo e la data (Palermo 6 agosto 1985) in cui era stato consumato l’eccidio del figlio.
Si narrano, poi, le storie di Michela Buscemi, che aveva due fratelli, contigui agli ambienti dei clan e vittime di essi[3]; di Rita Atria, sorella di Nicola, giovane boss dello spaccio, diciassettenne collaboratrice di Paolo Borsellino e disperatamente suicida dopo la strage di via D’Amelio; di Rita Borsellino, sorella di Paolo che, insieme a Giovanni Falcone, è stato il simbolo più alto della ribellione alla mafia.
Ma l’autore - che ha voluto esprimere con la sua opera l’importanza della forza rivoluzionaria dei sentimenti nel contrasto alla criminalità mafiosa, riconducendola soprattutto alle figure femminili - l’ha arricchita, nell’ultima edizione, con altre atmosfere ed una nuova «scena», dedicata alla storia di un processo e di una lotta collettiva che hanno trasformato una vittima, destinata a essere dimenticata per sempre, nell’eroina di una leggenda civile.
Si tratta della storia di Lea Garofalo, giunta a Milano dal paese calabro di Petilia di Policastro insieme alla figlia Denise: entrambe tanto giovani da sembrare sorelle.
Il trasferimento venne deciso da Lea quando scoprì la continuità delinquenziale fra la famiglia di origine e quella del compagno con cui era andata a vivere a Milano dove lei diventò “testimone di giustizia”, decidendo di raccontare ai carabinieri quel che sapeva e che aveva visto nel “fortino della droga” di via Montello, proprio a ridosso del centro della città dove era andata ad abitare insieme al compagno ed i suoi parenti.
La decisione di “parlare” venne presa per garantire alla figlia un futuro diverso.
Ed è proprio Denise che, dopo la scomparsa della mamma (della quale non si rinvenne mai il corpo perché venne dato alle fiamme dai suoi sicari), avendo la certezza che era stata fatta uccidere dal padre, denunciò sia lui che la sua famiglia, trovandosi poi costretta alla clandestinità, sotto scorta, e rinunciando alla sua libertà pur di far trionfare la giustizia.
Ma il cerchio femminile si allarga ancora e l’autore – che ha espressamente affermato, anche durante la presentazione del libro[4], che la mafia è la massima espressione del patriarcato in quanto, secondo la “cultura” che esprime, le donne che si ribellano devono essere uccise – richiama l’importanza del sostegno solidale e corale che molte donne di Milano (che, a vario titolo, avevano partecipato alla vicenda ) hanno fornito alla giovane figlia della vittima: in particolare, nell’ultima «scena», descrive l’impegno sia dell’avvocatessa che è stata accanto a Denise durante la sua testimonianza «nutrendo il proprio mandato professionale di una straordinaria, quasi materna, solidarietà femminile»; sia delle magistrate che si occuparono a vario titolo del processo ( del quale fu necessario rinnovare il dibattimento) e che si preoccuparono, in primo grado, di disporre un calendario ravvicinato delle udienze al fine di ridurre la sofferenza della duplice deposizione della figlia, ed, in grado d’appello, di garantire «il delicato equilibrio fra le forme del processo ed il rispetto dei diritti della giovane testimone».
Al loro importante e faticoso lavoro, si aggiunse quello di migliaia di giovani studentesse che si strinsero intorno al dolore di Denise il giorno dei funerali della mamma che lei poté seguire soltanto in condizioni di protezione, nascosta presso i locali della polizia locale dai quali parlò ai partecipanti alle esequie attraverso un microfono.
L’insubordinazione di Lea nel suo ruolo di moglie che, respingendo la richiesta mafiosa di collusione ed indifferenza, decise di rivolgersi allo Stato per denunciare il marito ed i suoi parenti; il coraggio di Denise nell’accusare il padre, pur in mancanza di evidenze immediate dell’omicidio della madre; la mobilitazione studentesca finale, portata avanti da moltissime ragazze, rappresentano, secondo l’autore, uno straordinario percorso di antimafia al femminile ed incoraggiano la tesi, già proposta nella prima edizione del libro, secondo la quale «l’antimafia è ( soprattutto) donna».
E le donne ribelli hanno sfidato la mafia per amore.
[1] Il libro è diviso in scene e non in capitoli, con evidente assimilazione ad un lavoro teatrale. Nella bibliografia finale si dà atto delle fonti che sono state rielaborate per ciascuna scena.
[2] La storia è magistralmente raccontata nel film I cento passi con la regia di Marco Tullio Giordana, 2000.
[3] Rita Buscemi si costituì coraggiosamente parte civile nel maxiprocesso di Palermo che aprì la strada alla prima condanna all’ergastolo di boss mafiosi e ad una grande mobilitazione del paese in difesa dei diritti delle vittime.
[4] Il libro è stato presentato durante un dialogo fra l’autore e lo scrittore e giornalista Giacomo Mameli nella seconda serata del festival Pensieri e Parole, tenutosi nell’Isola dell’Asinara, baia Fornelli, il 25 agosto 2024.