«Rolf è ora nella condizione di sussurrare singole parole mal articolate, con voce bassa e spenta. Parla raramente ma dice cose sensate, riferendosi a fatti elementari che riguardano la sua persona. Ha colto piccoli fatti dell’ambiente che lo circonda, ma non ha appreso niente di nuovo. Sul piano caratteriale, prevalgono le qualità di bontà e simpatia di Rolf. È affettuoso, gioioso e riconoscente. Rolf è sensibile e gli piace ricevere attenzioni. Il suo umore è spensierato-noncurante, di un’allegria infantile».
Così viene descritto, il 15 ottobre 1940, in una cartella clinica dell’istituto di ricovero per bambini menomati di Brandeburgo-Görden, Rolf Pfunfke, un dodicenne tedesco affetto da paraplegia spastica delle gambe e da disturbi del linguaggio, che era stato lì internato nel 1932. Quando il medico annota questa sua descrizione è già stata decisa la sua eliminazione che avviene, insieme a quella di altri 34 coetanei, il 28 ottobre 1940 nelle camere a gas già predisposte.
Questi assassinii sono il risultato di una pianificazione su larga scala che riguardò complessivamente 200.000 persone tedesche nell’intera Germania, allora in guerra; furono decisi da Adolf Hitler che rese nota la sua decisione di procedere ad una «eutanasia di massa» in una lettera dell’ottobre del 1939; furono organizzati da Joseph Goebbels per motivi invece assolutamente lontani dal concetto di eutanasia, e cioè per «alleggerimento collettivo». Si legge infatti nelle sue annotazioni
«È inaccettabile che, durante una guerra, centinaia di migliaia di persone del tutto inadatte alla vita pratica, completamente istupidite e che non potranno mai più essere guarite, vengano trascinate e gravino sullo stato sociale del Paese a tal punto che non rimangono quasi mezzi e possibilità per una costruttiva attività sociale».
Sono la «zavorra inutile per la collettività» che la Germania deve eliminare, nella piena collaborazione fra apparati di sicurezza e medici e infermieri che operavano negli istituti di ricovero, borgomastri delle città in cui lo sterminio avveniva, alti magistrati: l’eliminazione è decisa per risparmiare i mezzi e gli uomini dedicati ai pazienti; questa zavorra è costituita da malati mentali, epilettici, deformi che occupano spazio nelle strutture dedicate ed impegnano personale medico ed infermieristico, ritenuto invece utile per accogliere malati con guarigione possibile e feriti di guerra.
Questo libro del giornalista e professore universitario tedesco Götz Aly ricostruisce l’intera storia, sottaciuta per decenni, di questa operazione denominata Aktion T4 dall’indirizzo dell’edificio berlinese in cui essa venne pianificata e diretta, edificio che si trovava nella centralissima Tiergartenstrasse, al civico numero 4.
Due sono gli espliciti propositi che l’autore si prefigge: dare un nome a tutte le vittime di questo massacro restituendo loro la dignità di persone umane e dedicare l’opera a sua figlia Karline, colpita da lattante da un’infezione che le indusse encefalite e causò un grave danno cerebrale.
Il bisogno morale di dare un nome alle vittime nasce dalla constatazione di Aly che i fascicoli relativi all’internamento e all’assassinio di massa dei malati erano rimasti per decenni gelosamente conservati (se non nascosti) in istituzioni anche di grande prestigio, quali la Società Max Planck che fu depositaria di centinaia di migliaia di fascicoli e cervelli estratti dai cadaveri, conservati come materiale scientifico utile per ricerche sofisticate; la Società si oppose alle iniziali richieste di Aly di prenderne visione, con la motivazione che non dovesse «ledersi il rapporto di fiducia paziente/medico, che si dovesse rispetto ai parenti delle vittime ancora in vita» e che non fosse «interesse dei defunti» rivelare il loro nome in una vicenda di morte così violenta. Solo l’insistenza di Aly permise di avere ragione della resistenza a tale divulgazione, con scoperta di fascicoli occultati nell’attuale Istituto Max Planck dietro rivestimenti in legno nei corridoi: in essi non ci sono solo i verbali e le classificazioni mediche dei pazienti ma la raccolta anche dei loro scritti, che restituiscono pensieri di una vivezza e ricchezza affettiva ed emotiva qui non adeguatamente descrivibile ma che sicuramente smentiscono la diagnosi fatta allora dai medici sulla «nullità mentale e inutilità esistenziale» di questi bambini destinati per questo all’eliminazione.
Si è detto che la decisione dello sterminio era in qualche maniera collegata allo stato di guerra della Germania. Ma il libro ricostruisce molto bene come in realtà essa lo precorreva anche per altri precisi motivi: il 23 agosto del 1939 si firma fra Russia e Germania l’inaspettato patto Molotov-Ribentropp che, disegnando i confini fra gli Stati, prevede il rientro in Germania di ben 100.000 tedeschi dal Baltico e dalla Lituania. Ebbene: nell’ottobre 1939 e fino alla primavera 1940 si occupano di far spazio in Germania a questi immigrati due reparti delle SS che fucilano o asfissiano in Gaswagen (furgoni appositamente costruiti per funzionare come camere a gas) altrettanti malati di mente tedeschi e polacchi.
I reali motivi di tante morti vengono sottaciuti nelle cartelle cliniche: i certificati di morte portano l’indicazione di «polmoniti», «infezioni fulminanti», tutte malattie indicate come refrattarie alle cure prestate. E questo per poter dare notizie più facilmente accettabili ai familiari che hanno lasciato i loro bambini nelle istituzioni ospedaliere.
E qui si apre il capitolo forse più atroce della ricerca di Aly: consci di come l’uccisione dei malati possa creare dolore e angoscia nei genitori, gli organizzatori di Action T4 predispongono un protocollo per la scelta delle vittime, curando di escludere i pazienti che continuano a ricevere visite dai parenti e conservano dunque con loro dei legami affettivi. Non solo: distribuiscono un questionario preventivo ai genitori spiegando loro che, date le condizioni di malattia del loro bambino, è possibile solo somministrargli un «trattamento estremo» che al 5% potrà avere effetto terapeutico e al 95% letale. Ebbene: salvo rarissime eccezioni, i genitori «acconsentono al trattamento», e questo in massima parte perché non sono in grado di riprendersi in casa il bambino difficile, avendone altri sani a cui badare. Informati poi dell’avvenuta morte, questi genitori tendono in gran parte a giustificarla e, comunque, a sotterrarla nella loro memoria, anche per la «vergogna di aver acconsentito al trattamento e di essere portatori di tare ereditarie».
Orrore nell’orrore, dunque, perché questo libro non è solo la ricostruzione accurata e documentata di un vero massacro ma è anche la spiegazione di come esso possa essere rimasto sotto la cenere, rimosso e spesso ignorato nel totale silenzio da parte di una popolazione orientata a giustificare fra il ’39 e il ’40 qualunque decisione provenisse dall’autorità.
Sono due gli eventi che nel 1941 interrompono bruscamente l’Action T4.
Il 23 agosto Hitler stesso dà l’ordine di cessare immediatamente con le uccisioni dei malati perché il clima sta cambiando.
Il 1° agosto Goebbels annota che «i bolscevichi oppongono una resistenza maggiore di quanto supponessimo»; il 4 agosto le SS informano che l’eccessiva attesa di vittorie tedesche sul fronte orientale «provoca fra la popolazione un calo dell’umore già impaziente» e che si incomincia a pensare che «l’Armata Rossa abbia arrestato l’avanzata tedesca»; il 18 agosto Hitler si mostra irritato per essersi lasciato ingannare circa il «potenziale bellico dei bolscevichi»; nel frattempo, ad ovest, la Royal Air Force compie sistematici attacchi aerei in zone abitate, colpendo soprattutto le regioni cattoliche della Renania e della Vestfalia, e in particolare città come Colonia, Aachen, Krefeld, Rheydt, Mönchengladbach e Münster. Cioè si assiste ad un andamento bellico che influisce direttamente sullo stato d’animo della popolazione che non può più sperare fideisticamente in una guerra breve e vittoriosa.
E c’è poi chi fa una denuncia pubblica del massacro in atto: il vescovo di Münster, il conte Clemens August von Galen, inizia a inserire nelle sue omelie nell’estate del ’41 delle vere filippiche contro l’Action T4: «Regna un generale sospetto, quasi una certezza, che i numerosi e inaspettati decessi di malati di mente non si verifichino per cause naturali, ma siano provocati intenzionalmente, che si segua quella teoria secondo cui si è autorizzati ad annientare le cosiddette “vite indegne di essere vissute”, quindi a uccidere persone innocenti, quando si pensa che la loro vita non abbia più valore per il popolo e per lo Stato, una spaventosa teoria che vuole giustificare l’uccisione di innocenti e che, in sostanza, permette la soppressione violenta di invalidi non più abili al lavoro, di storpi, malati incurabili, anziani deboli».
Von Galen arriva a mettere in relazione il massacro dei malati con i bombardamenti inglesi: è il «castigo divino» che si abbatte su un popolo i cui capi hanno adottato strategie di annientamento dei più deboli perché hanno abbandonato qualunque timore di Dio.
Davanti al rischio che l’inquietudine popolare rispetto alle sorti della guerra si sommi alla denuncia pubblica del vescovo di Münster, così generando il rischio di una resistenza popolare allo sterminio dei malati, Hitler preferisce assumere una decisione di Realpolitik che smussi per il momento la frizione con l’autorità religiosa. Certo, la resa dei conti con questa che appare ai vertici nazisti come un’interferenza inaccettabile è solo rinviata, ma per il momento Hitler e Goebbels battono in ritirata. In privato, nel suo diario, Goebbels annota che «[il comportamento di Galen è] un crimine degno del pubblico ministero […] ma che in questo momento bisogna tenere lontano dal popolo ogni materiale infiammabile. Il popolo è talmente preso dai problemi della guerra che altri problemi finiscono solo per eccitarlo e urtarlo».
200.000 morti, uccisi solo perché mostravano ritardi mentali o malattie che li rendevano improduttivi per lo Stato tedesco.
Un ennesimo orrore che nasce dalla ricostruzione di quello che fu il regime nazista in Germania dal ’33 al ’45.
***
Eppure. Eppure questo libro non è solo questo e non è solo orrore.
Guardiamo la data in cui viene pubblicato in Germania: il 2013.
Guardiamo ciò che lo stesso Aly, professore universitario a Francoforte, dice di aver fatto in uno dei suoi corsi: negli anni 2005 e 2006 affida ai suoi studenti una ricerca sulla variazione nella popolazione della fiducia verso il Führer e la Patria. Ricostruendo il tenore dei necrologi pubblicati sui quotidiani dai parenti dei caduti in guerra, i ricercatori rilevano un crollo della ricorrenza della frase «caduto per il Führer, il popolo e la Patria» che passa dal 90 al 50% fra il primo e l’ultimo trimestre del 1941.
Guardiamo come procede Aly nella raccolta di parte del suo materiale: il 1° settembre 2012 lancia ai lettori del Berliner Zeitung e della Frankfurter Rundschau un invito a ricercare nelle loro memorie familiari tracce di parenti vittime dello sterminio per «eutanasia». Ebbene: riceve da nipoti e pronipoti dei malati soppressi informazioni e soprattutto l’affermazione di una forte volontà di sapere, ricostruire con precisione le loro storie, perché il desiderio di individuare i responsabili delle morti e ridare dignità ai loro parenti è l’unico sentimento che li anima. Della vergogna di essere discendenti di soggetti malati non vi è più traccia.
2013, 2004, 2005, 2012: sono date a noi prossime che indicano un interesse inedito della generazione dei pronipoti dei tedeschi vissuti sotto il nazismo rispetto alle generazioni precedenti che avevano voluto sottacere i crimini del regime.
E, d’altra parte, erano stati i nipoti dei nazisti quegli storici che a partire solo dal 1987 avevano iniziato ad occuparsi e ad interrogarsi sulla storia del nazismo, storia propria eppure rinnegata con cui fare i conti: studiosi come E. Nolte, J. Habermas, K. Hildebrand, J. Fest, J. Kocka, H. Mommsen M. Broszat, R. Augustein, A. Hillgruber, W. Mommes si scambiano contributi intorno al tema Un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca (pubblicato in Italia in quello stesso 1987 a cura di Gian Enrico Rusconi, Einaudi). L’interesse storiografico per la materia rimarrà da quel momento vivo nella comunità degli studiosi tedeschi.
Ma altri esempi di questo continuare a fare i conti con la propria storia nazista da parte delle nuove generazioni li ritroviamo dappertutto.
Chi si trova a passeggiare oggi per Berlino, nuova capitale d’Europa ancora in fase di crescita dopo la caduta del Muro, si imbatte continuamente in cartelloni collocati davanti ad edifici in cui si spiega dettagliatamente in tedesco ed inglese cosa vi avveniva sotto il regime nazista: e cioè che si programmavano e realizzavano crimini contro gli ebrei, i malati, gli omosessuali, gli zingari, i deboli della società. Al numero 4 di Tiergartenstrasse oggi non esiste più l’edificio in cui si programmò e diresse la Action T4, perché esso fu bombardato e distrutto durante la guerra; ma è stato costruito, su decisione del 2011 del parlamento federale un monumento a memoria della strage.
E chi è l’autore delle Stolpersteine (pietre d’inciampo: piccole formelle di ottone contenenti il nome, le date di nascita e di morte dei deportati nei vari campi di sterminio nazisti, collocate nel marciapiede davanti a quelle che erano state le loro residenze) e che ritroviamo in tante città europee per la diffusione di una memoria collettiva degli orrori del nazismo? È un artista tedesco, Gunter Demnig che si è mosso da Colonia nel 1995 ed è arrivato a collocare ormai oltre 56.000 pietre in tutt’Europa.
E ancora: datano 2014 e 2015 gli splendidi film di produzione tedesca Il labirinto del silenzio e Lo Stato contro Fritz Bauer che ricostruiscono i faticosissimi processi tenutisi a Francoforte nel 1958 per iniziativa del procuratore generale di quella città, Fritz Bauer, ebreo riparato all’estero sotto il nazismo, al fine di ricostruire gli eccidi nazisti in un clima generale avverso e orientato piuttosto a dimenticare la storia.
Sicché, se di orrore bisogna parlare leggendo questo libro, c’è anche altro a cui pensare, riconoscendo che i nuovi tedeschi hanno fatto e fanno ancora i conti profondi con la loro storia, nell’aspirazione a che essa non si ripeta mai più. Queste elaborazioni profonde rimangono gli antidoti migliori per contrastare spinte neonaziste che oggi prendono la forma di partiti come l’Afd (Alternativa per la Germania).
E fa piacere chiudere il cerchio notando come Götz Aly oggi insegni al Fritz Bauer Institut dell’università di Francoforte, ricercando la verità storica di quel regime sui cui crimini quel procuratore generale aveva faticosamente indagato.