Magistratura democratica
Magistratura e società

Serve davvero l’esercizio della memoria?

di Ilario Nasso
giudice del lavoro e della previdenza, Tribunale di Vibo Valentia, dottore di ricerca in Diritto costituzionale, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna

Riflessioni sparse su due libri (purtroppo) sempre più attuali

1. Una breve premessa

Le recenti, tragiche vicende del conflitto in Ucraina e, ancor più, il divampare del – colpevolmente – mai sopito incendio nei Territori Palestinesi rendono purtroppo di estrema attualità alcune riflessioni sul ruolo della memoria e del suo linguaggio: il tutto, partendo da due libri diversi per forma e struttura – un romanzo e un saggio - ma sorprendentemente complementari.

Si tratta di un approccio metodologico che consente di esaminare la questione con accenti e toni diversi, e proprio per questo in grado di consentire una comprensione più ampia e integrata del problema, non rimanendo limitata né alla sfera dell’emotività propria del primo, né alla necessaria asetticità critica del secondo.

Scelta necessitata, a ben vedere, perché conseguenza diretta proprio della complessità del tema, che non potrebbe vedere l’analisi esaurirsi in una delle due forme senza esporsi al rischio di apparire incompleta.

 

2. Pentcho, di Antonio Salvati (Castelvecchi editore)

La prima opera è Pentcho, romanzo d’esordio di Antonio Salvati edito da Castelvecchi e preceduto da una pregevole introduzione di Paolo Rumiz. 

Il nome scelto per il titolo, diretto ed evocativo, corrisponde a quello del battello fluviale in completo disarmo con il quale nel maggio del 1941 quattrocento ebrei tentarono una disperata fuga da un’attonita Bratislava, sempre più minacciata dall’arrivo delle truppe naziste.

Particolarmente ambizioso, il loro tentativo, perché avente come destinazione finale non certo le nazioni immediatamente confinanti, tutte particolarmente ostili agli ebrei in fuga, ma addirittura la Palestina: terra alla quale contavano di giungere percorrendo il Danubio per poi attraversare il Mar Nero, lo Stretto dei Dardanelli e il Mar Egeo.

Il loro destino sarà dolorosamente diverso, perché finiranno invece – dopo una serie di tragiche peripezie – addirittura in Calabria, a Ferramonti di Tarsia, dove all’epoca il regime fascista aveva costruito il più grande campo di prigionia  per ebrei stranieri d’Italia.

Dopo aver studiato attentamente i contributi storiografici[1] che, basandosi proprio sulla documentazione originale conservata negli archivi del campo di prigionia, hanno recuperato i dati anagrafici e le professioni di tutti i passeggeri dello sfortunato battello, Salvati chiede a ventidue di queste voci di raccontare l’epopea del Pentcho assieme alla loro storia personale: mescolando, così, avvenimenti realmente accaduti e finzione romanzesca.

Voluto e dichiarato l’omaggio alle suggestioni di un capolavoro come l’Antologia di Spoon River: la storia «restituisce sentimenti ed emozioni alla memoria, e con spietata, ma non esibita, lucidità illumina gli angoli bui di una cronaca che si ripete[2]».

Ogni personaggio racconta quindi una parte del viaggio, dal momento dell’imbarco a Bratislava all’arrivo sul Mar Nero attraversando le terribili Porte di Ferro, e poi oltre fino all’arrivo a Ferramonti e a un inatteso colpo di scena finale.

Succedendosi cronologicamente quasi a comporre un coro greco, quindi, i singoli racconti finiscono per formare una vera e propria voce della coscienza collettiva che impone di raccontare per ricordare, tramandare e impedire così che altri Pentcho, ad altre latitudini, possano prendere il largo.

C’è solo un personaggio che, al contrario, decide di rifiutare l’inutile rito – così lo definisce – dell’esercizio della memoria, trincerandosi in un doloroso silenzio: e non è un caso sia Julia Kunstlinger Presser, l’unica giovane avvocata presente nell’umanità dolente imbarcata sul Pentcho.   

«Non ne voglio parlare. Non voglio ricordare. Anzi, sono qui per dirvi che non dovete farlo. Tutti voi, qui, state commettendo un grave errore. Tutto questo accadrà di nuovo, non dubitate: per quanto voi possiate raccontare, per quanto noi possiamo testimoniare[3]», così afferma con dolore prima di allontanarsi dallo sguardo immaginario del lettore. 

Non v’è dubbio che il suo sfogo e la sua cocente disillusione, alla luce dei tragici avvenimenti ancora in corso, siano ben più che motivati e idonei – per l’appunto - a far sorgere in tutti  noi un dubbio angoscioso: ma è davvero utile, ricordare?

Va subito detto che, dalle pagine del libro, emerge chiaramente come quella di Julia sia in realtà la comprensibile, umanissima reazione di un’idealista delusa, di una giovane giurista la quale aveva creduto nella forza della legge e nella capacità del diritto di frenare le più basse pulsioni dell’essere umano: salvo poi restare delusa di fronte alla piena legittimità formale delle disposizioni di legge che, un passo dopo l’altro, avevano ridotto lei come tutti gli altri ebrei a mere entità sopravviventi prive di diritti[4].

La domanda che lei pone a tutti noi attraverso le pagine del Pentcho, quindi, è in realtà un’altra: cosa occorre fare perché ricordare non si riduca a uno sterile esercizio di commozione, troppo debole per contrastare la tendenza della storia a ripetersi sempre nelle stesse, tragiche forme?

 

3. Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi di Gabriele Nissim, Rizzoli editore 

A questo interrogativo tenta di dare risposta – circostanza in cui risiede, appunto, il collegamento tra i due libri – il saggio di Gabriele Nissim, giornalista e storico, autore di numerosi contributi dedicati alla figura e alle lezioni dei Giusti, ovvero di coloro i quali in ogni epoca si sono spesi contro ogni forma di fanatismo e di violenza compiendo azioni individuali di enorme valore morale «senza essere né santi né eroi, manifestandosi sulla scena quando compare uno spazio vuoto, e agendo quando le istituzioni non solo si dimostrano impotenti, ma prendono una strada pericolosa[5]».

Richiamando la lezione d’impegno civile e di vita di Raphael Lemkin, giurista polacco ideatore del termine “genocidio” e appassionato ispiratore della Convenzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione di tale delitto, Nissim spende parole forti contro il rischio che un utilizzo distorto della memoria e della sua narrazione possa non solo risultare un antidoto inefficace contro le tentazioni revisioniste che animano questi nostri tempi così complessi, ma addirittura ottimo alleato di queste ultime.

A proposito della memoria della Shoah, infatti, considerato come il «male estremo del Novecento[6]», Nissim afferma che utilizzare la memoria piegandola alla necessità di fornire sostegno e supporto alle proprie argomentazioni «può anche diventare una pericolosa scorciatoia perché invece di affrontare i preconcetti contemporanei con parole adatte, si usa lo scandalo del passato che alla fine mette tutti d’accordo, ma che non tocca le aporie del presente[7]». 

Sono tante, troppe le occasioni in cui è stato proprio il richiamo ad una memoria storica ad essere utilizzato come pretesto per riattizzare odi, far ripartire persecuzioni, giustificare genocidi: al punto che, conclude l’autore, è proprio questo uno dei principali segni premonitori delle catastrofi che ciclicamente l’uomo infligge a se stesso.

E se questo non fosse sufficiente, basterebbe anche solo porre mente a quanto indebolisca il formarsi di una coscienza civica ampia il rifiuto di condividere anche solo sul piano della memoria una stagione storica fondativa: e il riferimento, qui, va forte e diretto alle polemiche tante volte in malafede e strumentali sul ruolo della Resistenza, di cui la nostra Costituzione è figlia[8].

Di tutto questo l’opera di Nissim è ben consapevole, e con una struttura che va oltre la dimensione del saggio – il racconto di come Lemkin riuscì a costruire in pieno clima di tensioni postbelliche l’ampio consenso politico internazionale necessario alla nascita della Convenzione del 1948 è un vero e proprio romanzo d’avventura – fornisce anche alcuni importanti suggerimenti.

Il primo, e il più pressante, è quello di sottolineare continuamente nella narrazione della memoria i valori che ne sono allo stesso tempo frutto e insegnamento, e di evidenziare la portata universale di questi ultimi.

Solo in questo modo, continua Nissim, si potrà evitare allo stesso tempo una sua sclerotizzazione di riti e cerimonie, e il tentativo di appropriarsene in questa o in quell’ottica politica, magari stravolgendone i connotati storici.

Tra questi valori universali assume un ruolo centrale il concetto di responsabilità individuale, di ognuno verso l’altro, e nei confronti della collettività, alla base di recenti rivisitazioni teoriche sul fondamento stesso del diritto e dell’amministrazione della giustizia[9].

La notazione più importante, tuttavia, viene riservata al linguaggio e all’importanza delle parole.

È proprio in questa scelta così apparentemente umile che si nasconde una prima, fondamentale chiave per la disarticolazione dei possibili cortocircuiti della memoria.

Usare parole di rispetto, umanità, empatia; evitare di ricorrere a stereotipi, luoghi comuni, fonti mai verificate; evitare la contrapposizione fine a se stessa, lo scontro e l’acritica, aggressiva scelta di campo come normale forma di interazione: sono queste[10] alcune delle minime nozioni di base per consentire alla narrazione del passato di far emergere quello che di positivo e universale può insegnare, anche partendo da posizioni ideologiche, politiche e sociali diverse se non addirittura opposte. 

In questo, il saggio di Nissim tende nuovamente la mano verso il viaggio del Pentcho.

Tra le voci dei personaggi del romanzo è quanto mai potente quella di Alexander Citrom – il visionario e coraggioso ideatore della fuga – quando racconta il succedersi degli eventi che avevano portato quelle quattrocento anime a stiparsi in una bagnarola scalcagnata per provare a salvarsi la vita.

Quella voce, in apparenza, sembra non fare altro che enumerare una serie di eventi neutri, quasi inoffensivi se presi singolarmente: che, però, messi in conseguenzialità causale e temporale dimostrano ben presto la loro natura feroce e spietata proprio perché accomunati dall’uso distorto e violento del linguaggio di tutti i giorni.  

«Già, le parole. Dipende tutto da loro, a pensarci bene. E’ sempre così. All’inizio perdono valore quelle buone, quelle che ti avvicinano all’altro. Sussurrate a voce sempre più bassa finiscono piano piano per sparire, travolte dall’imbarazzo di chi ha timore a usarle per non apparire debole, ingenuo, O peggio, traditore. A quel punto, il loro posto viene occupato dalle altre, da quelle cattive. Finalmente libere, non hanno più nessuno scrupolo a farsi sentire. Al contrario lo pretendono, di essere urlate senza vergogna. In questo modo l’egoismo diventa virtù, l’insensibilità si trasforma in acuta intelligenza, e l’odio per chi è diverso si travesta da sincera fede religiosa o da puro amore di patria[11]».

Tutto già accaduto, tutto già visto: e, difatti, è proprio l’autore del Pentcho ad aver dichiarato di aver tratto ispirazione ancora una volta dalle pagine di Paolo Rumiz, richiamando l’esatto susseguirsi dei passaggi che avevano preceduto il divampare del conflitto nei Balcani[12].

Julia Kustlinger Presser, chiusa nel suo silenzio sdegnato, non avrebbe potuto essere più d’accordo.


 
[1] In particolare, E. TROMBA, A. SORRENTI, S.N. SINICROPI, Il viaggio del Pentcho. Le anime salvate, 2018. https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-06-09/la-fuga-pentcho-barcone-la-salvezza183054.shtml?uuid=ADGZmxY

[2] Così E. LOMBARDO, Quei cinquecento ebrei in mare in cerca della salvezza, su Repubblica.it del 27.1.2022, https://www.repubblica.it/cultura/2022/01/27/news/quei_cinquecento_ebrei_in_mare_in_cerca_della_salvezza-335081939/

[3] A. SALVATI, Pentcho, p. 169 ss.

[4] Le terribili esperienze dei regimi nazifascisti hanno, com’è noto, segnato pagine vergognose quanto all’utilizzo della legittimità formale della produzione normativa come formidabile strumento per la sempre più violente violenta discriminazione antiebraica: basti pensare che nei primi sei anni  della dittatura di Hitler, dal 1933 al 1939, furono oltre 400 le leggi, i decreti e i regolamenti che privarono progressivamente gli ebrei dei principali diritti di cittadinanza. A tale numero andrebbe poi aggiunta la miriade di provvedimenti dello stesso segno – se non persino più restrittivi, a volte - emanati dalle autorità locali. Per un’interessante analisi sull’esperienza italiana, C. NARDOCCI, Dall’invenzione della razza alle leggi della vergogna: lo sguardo del diritto costituzionale, 2019, https://riviste.unimi.it/index.php/irlh/index   

[5] Così in un’intervista resa al Corriere della Sera nel 2016, dove ha anche affermato che i Giusti di oggi sono tutti coloro «che si rifiutano di odiare i migranti, che si battono contro i muri, che prestano soccorso alle barche degli extracomunitari, che cercano di costruire esperienze di dialogo e di convivenza con gente di cultura e religioni diverse»; https://www.corriere.it/esteri/16_maggio_24/chi-sono-giusti-nostri-tempi-724fc4f2-21f0-11e6-91cf 0087f336776f.shtml#:~:text=I%20giusti%20non%20sono%20n%C3%A9,Gariwo%2C%20la%20foresta%20dei%20Giusti
A Gabriele Nissim e all’associazione Gariwo – La foresta dei Giusti, di cui è presidente, si deve anche la mobilitazione di pensiero che ha portato all’istituzione della Giornata europea dei Giusti (in inglese: European day of the Righteous), festività proclamata nel 2012 dal Parlamento Europeo  per commemorare coloro che si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l'umanità e ai totalitarismi.

[6] G. NISSIM, Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi, p. 9.

[7] G. NISSIM, ibidem, p.11.

[8] Così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: https://www.corriere.it/politica/23_aprile_25/mattarella-la-costituzione-nata-dove-caddero-partigiani-ora-sempre-resistenza-ad63b574-e365-11ed-89e2-97aae0cbce13.shtml

[9] Il riferimento è a due interessanti scritti di T. GRECO come La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Laterza, 2021 e, ancor più, a Curare il mondo con Simone Weil, Laterza, 2023.

[10] Non a caso oggetto di approfondite riflessioni nei lavori e nella relazione finale della Commissione Parlamentare Straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza, istituita nel corso della XVIII legislatura e presieduta dalla senatrice a vita Liliana Segre.

[11] A. SALVATI, Pentcho, cit., p. 24.

[12] Il riferimento dell’autore è a P. RUMIZ, Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia, Feltrinelli, 2012.

21/12/2023
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