1. Un drammatico passaggio
Como è da sempre una città di passaggio, collocata su uno dei percorsi fondamentali che connettono l’area mediterranea con quella mitteleuropea. Da qualche secolo è anche città di confine: lo potrebbe essere fin dall’inizio del Cinquecento, quando i cantoni “ultramontani” occuparono la parte settentrionale della valle del Ticino, lo è sicuramente dalla metà del Settecento, quando il Trattato di Varese fissò definitivamente il tracciato del confine moderno tra la Lombardia e “gli Svizzeri”.
Dell’essere città di frontiera ha una consapevolezza parziale, sostanzialmente ondivaga. Si è sedimentata in una certa mitologia “ribelle” con le storie di contrabbando (rapidamente trasformate, nella memoria popolare, da attività economiche che sfruttano l’inosservanza della legge in audaci imprese di audacia e scaltrezza), ma risale con evidenza in superficie solo nei momenti più tragici, perché – per il resto – il confine è sempre quella linea impalpabile che si supera con un rapido cenno del capo al doganiere di turno.
Como fu drammaticamente città di frontiera negli anni della seconda guerra mondiale, non solo perché il controllo divenne effettivo (ben più pressante di quello operato durante il primo conflitto mondiale, riguardo a cui la storia più raccontata a cuor leggero resta quella delle scorribande amorose di qua e di là dal confine del maestro Giacomo Puccini), ma perché intorno a quella separazione si giocarono davvero i destini di una moltitudine di persone: gli esuli antifascisti, gli sbandati dopo l’8 settembre e i renitenti alla leva della Repubblica Sociale, le bande partigiane “sconfinate” per sfuggire ai feroci rastrellamenti nazifascisti. Vicende quasi scivolate via dalla memoria del territorio, ma che si possono “facilmente” recuperare grazie alla documentazione storica (e fotografica: basti pensare alle straordinarie immagini di Christian Schiefer, raccolte nella Guerra vista dal Ticino).
Nei mesi della repubblica fascista e dell’occupazione nazista, intorno al confine si consumò anche il dramma delle tante famiglie ebraiche che cercarono scampo in Svizzera, attraverso quella sottile linea di frontiera che sembrava così facilmente superabile. Molti ce la fecero, in effetti, grazie anche alle numerose reti di supporto allestite in molti paesi del territorio (spesso con il fondamentale coinvolgimento dei parroci), ma tante altre persone in quella rete restarono impigliate: respinte e poi facilmente rimosse dalla memoria.
Così, quando altri drammi si ripresentarono su quella stessa frontiera, qualche decennio dopo, con la presenza dei migranti respinti al confine, la coscienza cittadina ha faticato a recuperare quelle storie e a ritrovare l’indispensabile consapevolezza di essere città di frontiera.
Nell’estate 2016 centinaia di migranti dovettero accamparsi nei giardini avanti la stazione ferroviaria di Como, proprio perché avevano provato a seguire quel percorso attestato da secoli – dal Mediterraneo all’Europa centrale –, ma ne erano stati impediti dalle regole della modernità.
La frontiera si era di nuovo chiusa per loro, mentre una larga parte della città continuava a chiedersi cosa ci facessero lì, incapace di capire che quello era il drammatico esito di una storia non ancora del tutto compresa, non “elaborata” nei suoi tratti fondativi, e men che meno “arricchita” dalla conquista dei diritti fondamentali delle persone.
Superficialmente fidandosi del radicale ribaltamento del concetto stesso di rete: se negli anni della seconda guerra mondiale la “rete” era quella intrecciata di filo di ferro sul confine, all’inizio del Terzo Millennio la “rete” evoca la connessione globale, continua e infinita del mondo virtuale e dei trasporti.
Invece non bisogna dimenticare che il 27 febbraio, esattamente un mese dopo la Giornata della Memoria, cade l’anniversario della tragica morte di Youssouf Diakite, giovane migrante maliano, fulminato dalla rete elettrica sopra un treno della rete ferroviaria lombardo-ticinese, mentre cercava di procedere nel suo viaggio verso Nord, superando le frontiere.
Non a caso, la drammaticità del confine (di quello passato e di quello attuale) è stata ricordata da Aldo Pacifici, omonimo nipote del primo destinatario di una “pietra d’inciampo” nella città di Como, durante la cerimonia di posa di questo primo, piccolo ma importante, segnale di memoria nel 2020, a breve distanza dalla frontiera italo-elvetica di Como-Chiasso (dove Aldo Pacifici senior effettivamente abitava).
2. Una giovane crocerossina
Luisa Colombo Andreani, tra i primi giorni del dicembre 1943 e l’inizio di gennaio del 1944, riuscì a salvare da un carcere suppletivo comasco, con l’aiuto dell’avvocato Edoardo Orsenigo, quattro prigionieri ebrei che lì erano stati arrestati: Viktor Altaras, Mayer Chaim Relles, Gualtiero Schubert e Fritz Michaelis. Luisa Colombo era allora una giovane crocerossina, abitava a Como nella zona delle caserme, dove il padre aveva un negozio e proprio tramite lui aveva saputo di queste persone e aveva deciso (grazie al fatto che il luogo era piantonato dai Carabinieri) di andare a trovarli, per capire se poteva fare qualcosa per loro. Quello che vide la toccò nel profondo.
Racconta la protagonista: «Andavo tutti i pomeriggi, fin che sono rimasti lì, poi li hanno mandati a Fossoli di Carpi e da là mi scrivevano e mi chiedevano di informarmi del marito o di un parente». Uomini e donne erano “ospitati” in condizioni pesantissime nei locali vuoti di una grande fabbrica.
Erano stati tutti arrestati mentre tentavano, invano, di varcare la frontiera con la Svizzera. Alcuni furono catturati prima, altri furono respinti dagli svizzeri e questo significò per loro, in quasi tutti i casi, la morte certa nei lager.
Luisa Colombo Andreani per l’aiuto dato ai quattro che riuscì a mettere in salvo, nel gennaio 2005 (lei purtroppo era morta nel Natale 2004) ha ricevuto il riconoscimento di Giusto fra le nazioni, in quello stesso giorno tale onorificenza fu consegnata anche alla memoria di Ginevra Bedetti Masciadri e di Ugo Moglia, per il salvataggio di Vittorio Rosenberg Colorni, suo fratello e sua madre.
Ad oggi, purtroppo, non si è riusciti a sapere molto di più sul coinvolgimento nei salvataggi dell’avvocato Orsenigo (la sua famiglia ne è al corrente, ma non conosce nessun dettaglio).
Perché tali vicende si svolsero tra i primi di dicembre del 1943 e gli inizi di gennaio 1944? Siamo negli anni più duri e crudi della Seconda Guerra Mondiale. Nell’Italia del Nord si è costituita la Repubblica Sociale Italiana; a metà novembre, si tiene a Verona quello che potremmo definire un congresso fondativo, in cui è approvato un documento che è una sorta di carta d’identità della neonata RSI.
Questo si articola in 18 punti, al punto 7 dice espressamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono ad una nazionalità nemica».
La presenza ebraica in Italia non era numericamente rilevante, ma tra questi “stranieri nemici”, la maggior parte era italiana. Molti erano anziani, qualcuno era fascista. Non avevano abbandonato l’Italia dopo la promulgazione delle leggi razziali (1938), ma si trovarono costretti a cercare di farlo quando il 30 novembre 1943 venne emanato un provvedimento di polizia che prevedeva il loro arresto immediato, la loro concentrazione, la spoliazione dei loro beni che sarebbero poi stati devoluti a quanti avevano subito danni di guerra. Il 1°dicembre 1943 i giornali dettero grande spazio a questa notizia. Si scatenarono allora il panico, le fughe e gli arresti.
Luisa Colombo, allora non ancora sposata, conosce l’avvocato Orsenigo ed è lui a chiederle di collaborare per far fuggire i quattro poi salvatisi. Due, il commerciante Viktor Altars e il chazan (così lo definisce la testimone) Relles Mayer Chaim vengono fatti fuggire la stessa sera. Luisa Colombo entra nella palazzina. Ha procurato una scala. I due fuggitivi con questa atterrano sul terrazzino della domestica di Ginevra Bedetti Masciadri, fondamentale figura dell’antifascismo comasco. Poi il salto in strada. Lì li attende Orsenigo, ma è Luisa Colombo che il giorno dopo riesce a portare a Milano Mayer Chaim Relles (che ha “parcheggiato” per la notte a casa di una delle nuore del magistrato Pier Amato Perretta). Poi ci sono altre due fughe, quella dell’antiquario Gualtiero Schubert e di Fritz Michaelis, un militare.
I documenti attestano i salvataggi. Alla fine della guerra Altars e la moglie tornano a cercare la loro salvatrice. Lo fanno anche i figli della contessa Corinna Corinaldi Segre, morta in un lager, ma partita rincuorata dall’amicizia di quella giovane comasca. Diventa amica di Luisa anche l’infermiera Olga Fleischer, che dopo aver scritto toccanti lettere da Fossoli di Carpi, sarà deportata ad Auschwitz (si ignora dove e quando sia morta).
Non può invece aiutare le donne che ha conosciuto perché, se anche le facesse uscire dal luogo di detenzione, non saprebbe dove portarle. Ed era questo il cruccio, il dolore che si leggeva negli occhi della testimone quando, ormai anziana, raccontò questa storia. Aggiungeva: «Non avevo paura. Non lo so, è l’incoscienza di quando hai 23 anni».
Non va nemmeno dimenticato, del resto, che oltre a Luisa Colombo e a Ginevra Bedetti Masciadri, il riconoscimento di Giusto fra le nazioni è stato attribuito, nel 2006, anche ad Anna Signori Galetti e alla memoria del marito Salvatore, all’epoca giovani sposi, che aiutarono la famiglia Vitali a fuggire da villa Oleandra di Laglio (nota oggi per essere una delle dimore di George Clooney, ma forse maggiormente degna di questa memoria storica).
3. Testimoni della deportazione
Parlando dei prigionieri nella palazzina adibita a carcere, a distanza di tanti anni, Luisa Colombo Andreani diceva: «Tra quanti ho conosciuto c’era il signor Pacifici, direttore di una grande società. Era stato preso. Piangeva. Io gli proposi di farlo scappare, ma lui, un uomo speciale, mi disse che non poteva perché aveva un figlio e una figlia che cantava alla radio svizzera. La ragazza era al sicuro, ma non il ragazzo. Se lui fosse scappato avrebbe potuto avere qualche problema. E non è scappato».
Il «signor Pacifici» è Aldo Pacifici. Suo figlio Dino era militare, sua moglie abitava a Ponte Chiasso. La sua storia è raccontata dal nipote, che porta il suo stesso nome: suo nonno lavorava alla ditta di trasporti Gondrand di Como, ma era nato a Firenze nel 1894 ed è morto il 6 o l’8 agosto 1944, subito dopo il trasferimento da Fossoli di Carpi, ad Auschwitz, dove pure morì anche il fratello Goffredo. Ma la storia si è sedimentata anche in un corpus di 19 lettere scritte alla moglie da Fossoli di Carpi (il campo che raccoglieva gli ebrei prima della loro destinazione finale nei lager). Queste lettere sono un documento particolarissimo, perché fondono la loro importanza storica con un innegabile valore affettivo (i coniugi avrebbero dovuto festeggiare il loro 25° di nozze). Pacifici, laureato in legge, ha la possibilità di alcuni incontri con la moglie che lo va a trovare e a lei scrive parlando anche dei mutamenti che nel tempo avvengono nella gestione del campo, delle persone che incontra e la informa dei vari passi che sta facendo per cercare di tornare libero.
Aldo Pacifici poteva essere considerato un “misto”, perché ebreo sposato a una donna cattolica; su questo si provò a far leva per una serie di ricorsi, che si rimpallano di ufficio in un ufficio, perché nessuno sa o vuole prendere una decisione. È anche la moglie che porta avanti a Como i ricorsi; si arriva addirittura al Ministero dell’Interno per sapere se «il capo di una famiglia mista composta da un ebreo e da un ariano poteva aver revocato il provvedimento di invio al campo di confino»: i vari uffici si dichiarano tutti d’accordo sul fatto di non avere nulla in contrario ad accogliere le istanze presentate, sempre, però, che qualche altro ufficio confermi.
E così in attesa di una conferma mai arrivata, il 30 luglio 1944 Aldo Pacifici scrive l’ultima lettera alla moglie: «Questa mattina abbiamo ricevuto l’annuncio ufficiale che martedì o mercoledì dovremmo partire per altra destinazione. A quanto si dice sembra che ci fermeremo a Verona, ma ignoriamo se la sosta in quella città sarà lunga o breve, come ignoriamo quale sia la nostra definitiva destinazione che potrebbe anche essere la Germania. In questo caso dovremo rassegnarci a stare senza reciproche notizie fino alla fine della guerra […] ma se altrimenti il destino avesse disposto ti prego di ricordarmi ai nostri figli. Ho dedicato a te e a loro tutta la mia vita». Ci sono poi toccanti riflessioni sul suo matrimonio. La lettera finisce con l’affermazione: «Goffredo e Spartaco condividono la mia sorte». Fu davvero così, anche se il cugino Spartaco morì durante l’evacuazione da Buchenwald nell’aprile del 1945.
Il primo paragrafo è di Fabio Cani; le storie successive sono raccontate da Rosaria Marchesi, sulla base della ricostruzione storica da lei stessa condotta nel volume Como ultima uscita. Storie di Ebrei nel capoluogo lariano 1943-1944 (NodoLibri - Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta, 2004).
Su Pier Amato Perretta, magistrato: Giuseppe Calzati, Pier Amato Perretta, Una vita per la libertà, in Questione Giustizia online, 14 settembre 2018 https://www.questionegiustizia.it/articolo/pier-amato-perretta-una-vita-per-la-liberta_14-09-2018.php