Sempre con me. Le lezioni della Shoah di Emanuele Fiano (Piemme, 2023) ci costringe a riflettere sul fatto che quelle persone, i carnefici, le vittime, avremmo potuto essere noi, potremmo essere noi.
La barbarie della Shoah non come antitesi della modernità ma come sua “faccia nascosta”.
Assume dunque un particolare valore l’invito dell’Autore – a proposito del Giorno della Memoria - a «rifuggire sia da una mitizzazione sacrale della Shoah che la congeli in un culto del ricordo, sia anche da una sua accettazione fatalistica, come priva di spiegazioni storicizzanti, come fosse una parentesi nella storia europea senza antecedenti o senza propaggini».
Rischio particolarmente vivo, alimentato dalla possibile deriva verso la ritualità di cristallizzate celebrazioni e la stanca reiterazione di racconti appiattiti su un facile dualismo buoni/cattivi.
Tutto questo è lontano dal testo di Emanuele Fiano, che interpreta il dovere di non essere rituali, il dovere di non essere vuotamente enfatici, quando si parla dei fondamenti dell’essere e rimanere umani, di un vivere in società fondato sul “perché”.
«Hier ist kein Warum». Qui non c’è nessun perché. E’ il titolo del capitolo che esordisce con un episodio riportato da Primo Levi in Se questo è un uomo. Il prigioniero prende per dissetarsi un pezzo di ghiaccio, che gli viene brutalmente strappato di mano: «Warum?», perché, chiede. Non c’è nessun perché, è la risposta fondata sulla sola forza, che rifugge dal mondo della ragione, «dell’uomo sempre in cerca del ragionamento».
Era una componente del progetto di quegli universi concentrazionari, scrive Fiano, «togliere la ricerca della ragione dall’interesse dell’uomo, togliere la radice umana dalle relazioni, la relazione è l’humus della civilizzazione; bisogna ammazzare l’uomo non solo fisicamente ma prima ancora come fulcro della conoscenza e della fratellanza».
Nel libro le riflessioni storiche, filosofiche, politiche, si alternano con efficacia narrativa (e tragica) alle testimonianze dei deportati.
Il lettore non può non essere colpito profondamente e in maniera duratura dalla storia della vedova del soldato tedesco che, giustificandone le azioni come ordini ricevuti, riferisce di come raccontava il suo “lavoro” in Polonia: «non abbiamo fatto altro che fucilare ebrei, sempre fucilare ebrei; a furia di sparare il braccio mi faceva male»; il racconto di Liliana Segre obbligata, insieme ad altre internate, ad assistere all’impiccagione e all’agonia di due ragazzine e “premiate” per la loro partecipazione con un supplemento di cibo indispensabile alla loro fame; i dobermann, addestrati dalle SS ad addentare ai genitali i prigionieri facendoli morire dissanguati.
E così molte altre ancora, dettagliate, ai limiti del sopportabile.
L’ultimo, breve e denso, capitolo ci mette di fronte alle responsabilità che portano il nome di fascismo: perché è situato nel campo di concentramento italiano di Fossoli il racconto emozionante e delicato di un rapporto familiare (quello tra i componenti, deportati, della famiglia Fiano) che vive la sua intensità nonostante quelle circostanze intollerabili.
Ma le enormi e non dimenticabili responsabilità del fascismo le troviamo in più passaggi del testo.
Uno dei quali si imprime nella memoria di chi legge. E’ la visione del quattordicenne Nedo Fiano che desidera visitare la Biblioteca Nazionale di Firenze, che aveva sempre visto andando a scuola, tornando a casa. Ma l’ingresso gli viene negato: dopo le leggi razziali fasciste era vietata l’entrata in biblioteca agli ebrei.
In qualche modo – ci fa notare l’Autore – quel «divieto feroce», che ferisce un ragazzo desideroso di accedere a un luogo della cultura, è il “fratello minore” dei roghi di libri (Bücherverbrennungen) con cui i nazionalsocialisti volevano “depurare” la conoscenza.
L’abisso del male è sempre in agguato, e potrebbe percorrere vie inattese, prima di ripresentarsi nella sua evidenza.
Scrive Emanuele Fiano: «il mio cruccio, come avrete capito, non è solo quello di raccontarlo il male, quanto di capirne la genesi, di analizzare come mai scoppiò in alcuni un’irrefrenabile frenesia di farlo il male, di commetterlo, di esserne parte, come mai prima nella loro vita. Fare parte di una comunità che viveva del male fatto ad altri. Come questo fu possibile, come è stato altre volte possibile. Come potrebbe essere di nuovo possibile».
Passare attraverso questa necessaria comprensione – che Sempre con me. Le lezioni della Shoah aiuta a raggiungere – consente anche di individuare quale sia la soglia di allarme.
Esprimo la personale opinione, indotta anche dalla lettura di questo libro, che le luci debbano essere sempre accese a illuminare due possibili regressioni: quella della pratica contrazione dell’equilibrio del potere e dei poteri proprio della democrazia costituzionale (che rifiuta le suggestioni della concentrazione e della disintermediazione); e quella della perdita di valore individuale e sociale della cultura (che è strumento fondamentale di contrasto alle derive totalitarie).
Perché, scrive Emanuele Fiano, con efficace sintesi «essere democratici è faticoso e complicato»; vivere la democrazia «significa fare i conti con la complessità, con la difficoltà a volte di dare risposte che non ci sono subito, se usi la razionalità, vuol dire permettere a ognuno spazi di decisione e partecipazione».
I sistemi totalitari, al contrario, possono apparire inizialmente «riposanti e deresponsabilizzanti»; e “quando la libertà diventa un’angoscia la dittatura può essere il tuo riposante porto d’arrivo”; una – falsa - cura per la paura del futuro, la povertà, la marginalità, la deprivazione sociale.
Questione di integrale attualità, che impone di esplorare anche quali siano i presupposti sociologici e antropologici delle derive autoritarie.
Tra le molte puntuali citazioni contenute nel libro di Emanuele Fiano ricorrono quelle di un fondamentale testo di Christopher R. Browning (Polizia tedesca e "soluzione finale" in Polonia) che descrive gli appartenenti al battaglione 101 della Ordnungspolizei, autori di indicibili efferatezze, come gli altri riservisti della “polizia dell’ordine” (contigua, e pericolosa, l’espressione “forze dell’ordine”): «provenivano … dagli strati più umili della società tedesca, e non avevano sperimentato alcuna mobilità sociale o geografica … terminata la scuola dell’obbligo a quattordici anni o quindici anni, quasi nessuno aveva ricevuto un’istruzione superiore».
Uomini mediocri, «che – scrive in un altro passo Fiano a proposito di kapò e SS – dopo una vita magari insulsa e senza potere, avevano il dominio assoluto su altre vite, e questo potere innaturale eccitava proprio la loro parte più frustrata».
Costoro per motivi sociologici, e altri, come gli stessi gerarchi nazisti nelle parole di Hannah Arendt, per «lontananza dalla realtà» e «mancanza di idee», furono per questo disposti ad adorare un “capo” e ad accettare, come scrive Agnes Heller, citata da Fiano, «la logica alla base del genocidio [cioè] l’idea che le singole persone e individui non abbiano valore».
Sempre con la consapevolezza, ribadita dall’Autore, che «la Shoah è la figlia prediletta dei sistemi totalitari» e che quella da contrapporre alla barbarie non è una mera critica morale bensì «l’analisi politica del contesto».
Ciò di cui ci parla Sempre con me. Le lezioni della Shoah è qualcosa che appartiene ad ogni nostro giorno, perché è stato, perché non deve mai più essere.
Dunque, come leggiamo nell’ultima pagina: «tocca a noi. Per sempre».