Premessa
Classe 1942, nato a Francoforte sul Meno, nel suo percorso umano e professionale Christoph Ulrich Schminck-Gustavus ha incrociato non solo la cultura giuridica italiana, ma anche la storia dell’associazionismo giudiziario negli anni che vedevano la nascita di Magistratura democratica, stringendo una profonda amicizia con Federico Governatori.
Storico del diritto, esponente del gruppo di intellettuali progressisti che hanno fatto di Brema e della sua giovane università un laboratorio culturale d’avanguardia nel panorama europeo, Schminck-Gustavus ha dedicato la sua ricerca alla lettura di un’epoca attraverso le testimonianze orali, l’attenzione per il documento, la centralità della microstoria (importanza della durata, contesti circoscritti, ricostruzione di storie di vita, analisi del dettaglio e della psicologia degli attori). Nel suo lavoro si è interessato al ruolo della giurisdizione al tempo del nazionalsocialismo, al processo di de-nazificazione in Germania e, durante decenni di ricerca sul campo in Epiro, alla deportazione degli ebrei greci dalle zone di occupazione italo-tedesca dopo l’8 settembre e alle sue ripercussioni.
In occasione di un seminario tenutosi il 21 maggio nell’ambito del dottorato in scienze giuridiche dell’Università di Firenze, Schminck-Gustavus, dopo aver parlato della sua singolare esperienza, ha presentato un caso ricostruito a partire da uno specifico fascicolo processuale, terminato con la condanna a morte di un sedicenne, Walerjan Wróbel, deportato nel Reich dalla Polonia come lavoratore forzato [1]. A seguito dell’intervento, ha accettato di rilasciare un’intervista per Questione Giustizia. Il testo che segue, da intendersi come un’auto-narrazione in divenire, che coniuga tracce ricostituite di passato con le incognite del nostro tempo, è frutto di questo incontro.
1. Disvelamento
«Sono in pensione da 12 anni, ma continuo a dare lezioni all’Università di Brema perché la mia cattedra è tuttora scoperta. Sembra che a molti la storia del diritto non interessi più, così proseguo da volontario. Ho sempre studenti che si interessano al lavoro svolto fin qui». Christoph U. Schminck-Gustavus (da qui in poi: “Christoph”) si presenta ricordando, oltre all’amore per la cultura umanistica, l’ambiente bremese degli anni che più avrebbero influenzato il suo percorso professionale e umano.
«Volevo fare il pittore. Spinto da mia madre, intrapresi gli studi di giurisprudenza controvoglia. Fortunatamente, il docente di storia del diritto era un italofilo e, nel 1964, riuscii a ottenere una borsa di studio per la “Normale” di Pisa. Più tardi, ultimati gli esami, mi trovavo a Berlino per la specializzazione quando sentii parlare di Brema». Il 1971 è l’anno di fondazione dell’Università pubblica di Brema: «Con una “risposta” politica, il governo socialdemocratico di quel piccolo Land apriva le porte a giovani disposti – non tanto a “fare la rivoluzione”, ma – a essere protagonisti di una riforma radicale dell’istituzione. Ho pensato: devo andarci perché là si cambia tutto, in un sodalizio unitario fra teoria e pratica! Di questo fermento, oggi, rimane qualcosa» – il “modello Brema” è storicamente improntato a una forte apertura verso l’esterno dell’accademia, con particolare attenzione ai problemi sociali, all’interazione tra diverse discipline e alla ricerca applicata.
«A 32 anni, senza abilitazione, ho vinto la cattedra di Storia del diritto a Brema. L’ho utilizzata per fare cose che mi sembravano importanti, cose di cui, nel percorso di studi, non avevo mai sentito parlare: per esempio, dei crimini commessi dai giuristi tedeschi durante il periodo nazista. La de-nazificazione ha comportato il rientro di magistrati e funzionari già impiegati nella pubblica amministrazione, reintegrati nelle vecchie posizioni. Se penso ai miei studi giuridici, questo argomento non esisteva. Solo molto più tardi, durante i movimenti di protesta studenteschi, si iniziava a interrogarsi sui trascorsi dei nostri professori: cosa avevano fatto fino al 1945? Erano stati iscritti al partito? Dov’erano e che posizioni occupavano? Capimmo che molti di loro avevano nascosto il loro passato». Per Christoph è come se si levasse un velo capace di rompere il silenzio sulla voragine aperta di un passato tangibile, eppure in qualche modo già rimosso. «Dai civili tedeschi», racconta l’Autore – testimone fra testimoni – in Inverno in Grecia [2], «si sentivano solo storie sulle città bombardate, sull’orrore nei rifugi antiaerei, sulle pene del dopoguerra. I crimini della Wehrmacht nei Paesi occupati, le “terre bruciate”, le rappresaglie contro i civili: tutti argomenti sconosciuti nella memoria di molti anziani in Germania». Sui banchi di scuola, fa eccezione un insegnante che parla a Christoph e ai suoi compagni di genocidio: «Ci lesse alcune pagine di un rapporto sulla marcia di ebrei verso le camere a gas e si diffuse un silenzio profondo: pareva che nessuno in classe ne avesse sentito parlare. Per questo raccolgo queste voci e scrivo le memorie non dei militari, ma delle vittime, di gente che spesso non ha potuto neanche parlare» [3].
La madre di Christoph, avvocatessa, che nutriva un odio profondo per il regime nazista, tuttavia si mostrò critica sulle sue indagini: «Mi diceva: “cosa stai facendo?” Chi ha vissuto quei tempi non ne vuole più sapere. Tale era l’atteggiamento dei molti che non facevano parte del regime e non lo appoggiavano, ma che l’avevano sofferto, e questo vale anche per i miei genitori». Christoph racconta che, in una delle lettere al marito, nel maggio 1933 (tre settimane dopo il boicottaggio nazionale delle imprese ebraiche), sua madre riferisce di essersi trovata per la via in compagnia di un amico ebreo dall’aspetto poco “nordico”: «Anche lei, del resto, aveva lunghi capelli neri. Hanno affrontato una tale aggressività da parte dei passanti, gente comune incontrata per strada, che sono fuggiti in un cinema, dove era buio e non li avrebbero visti! Capisco perché odiasse tanto il regime». L’anno successivo sarebbe stato istituito il «Tribunale del Popolo» (Volksgerichtshof), competente per i delitti «contro la patria e il popolo tedesco», che ha fatto eseguire 5200 condanne a morte, tra il ‘34 e il ’45. «In tutti quegli anni mia madre ha sofferto molto. Dopo il 1° aprile 1933, giornata di boicottaggio delle attività svolte da ebrei in tutta la Germania, mia madre rilevò, insieme a mio padre, lo studio legale di un avvocato ebreo molto noto a Francoforte. Come tanti altri avvocati e giudici ebrei, quel giorno era stato catturato dai nazisti all'ingresso del tribunale e trattenuto per una notte nel carcere vicino all’edificio; l’indomani fuggì immediatamente in Olanda e, in seguito, in America. L’uomo fu molto grato ai miei genitori per aver mandato avanti la sua attività, accettando di continuare ad assistere i suoi clienti».
Negli anni settanta, Christoph decide di proseguire nelle ricerche. «Mi considero un privilegiato, i colleghi di Brema, con la spinta positiva di Hagen Fleischer (tra i massimi esperti della Grecia ai tempi dell’occupazione), mi hanno lasciato fare, anche perché pubblicavo e il mio lavoro aveva un certo impatto sul pubblico. Per questo provo gratitudine nei loro riguardi e verso quell’università così diversa, che mi ha accolto». Lo scavo retrospettivo sul coinvolgimento degli operatori del diritto nella logica totalizzante – e aberrante – di «difesa del sangue e dell’onore tedesco» (valori iscritti nella seconda legge di Norimberga, del 15 settembre 1935), lo porta a fotografare momenti emblematici, in cui l’efficacia simbolica ha il primato sulle coscienze e l’“uomo nuovo” della Weltanschauung nazista scaturisce da un processo riuscito di disumanizzazione.
Ottobre 1933. Il giornale dei magistrati tedeschi pubblica la foto del giuramento di fedeltà di giuristi e magistrati davanti alla Corte suprema del Reich a Lipsia. Si innalzano i simboli: la svastica, l’aquila, la spada e la bilancia della giustizia. «Si può immaginare il clima. L’oratore principale è Hans Frank, l’assassino della Polonia, poi condannato a Norimberga, posto al vertice della giustizia del Reich. Dopo l’atto solenne, i giuristi sfilano attraversando la città. In ogni aula di tribunale, a partire dal 1935, sarà presente un ritratto fotografico di Hitler». Peraltro, non erano coinvolti solo i giuristi: «Anche intellettuali e artisti collaboravano, con gratificazioni varie: regalie, esonero dal servizio militare, vantaggi fiscali, promozioni ufficiali, nomine accademiche honoris causa, ricevimenti per artisti “di Stato”, etc. Il regime cercava di comprare anche la loro fedeltà». Christoph mostra un ritaglio di giornale datato 1939: poco prima dell’inizio dell’attacco alla Polonia, a un concerto dei Berliner Philharmoniker assistono Hitler, Goering e Goebbels. Al termine dell’esecuzione, il direttore Wilhelm Furtwängler si inchina davanti al Führer, che si alza subito per stringergli la mano. «Sono cose che non bisogna dimenticare. Oggi parole naziste sono di nuovo in circolazione».
Il 20 aprile 1942, mentre la Wehrmacht si prepara a una grande offensiva sul fronte orientale (nota come “Fall blau”, “Operazione blu”), Furtwängler dirige il concerto per il compleanno di Hitler: «Quella data era giorno di festa nazionale in Germania e, fino al 1945, si cercò di celebrarla. A pochi giorni dalla sconfitta totale, a Berlino si tenne un ultimo festeggiamento. Lo dico per dare un’idea della situazione generale. Tanti che hanno collaborato avrebbero poi detto: “Non potevamo fare diversamente, era il nostro dovere”».
2. Strade
«Ho camminato in montagna per trovare il “popolo che manca”, coloro che non sono stati ascoltati dalla storiografia ufficiale» [4]. Christoph è stato chiamato da alcuni colleghi “lo storico scalzo”, e non se ne dispiace. Gran camminatore, con l’abitudine di avere con sé un registratore portatile, le sue geografie umane scandiscono il tempo “ritrovato”: i luoghi, anche i più remoti, formano una mappa della memoria capace di restituire circolarità progressiva agli incontri che, nella durata, hanno segnato la sua esperienza.
Alla Grecia dei “vinti” Christoph arriva – come è solito dire – «quasi per caso», accettando l’invito di un suo studente greco, grato al docente per l’aiuto da lui ricevuto nella preparazione degli esami in tedesco. «Non sapevo nulla delle atrocità commesse dai militari tedeschi in Epiro, né mi sarebbe stato possibile capire senza i racconti di chi, avendole vissute, le teneva chiuse a chiave nella memoria». Su richiesta dello storico Giorgio Rochat, che lavora alla ricostruzione delle circostanze che portarono allo sterminio della Divisione «Acqui» a Cefalonia (21-28 settembre 1943), Christoph accetta – nonostante una certa diffidenza, connaturata alla sua formazione giuridica, sull’attendibilità di tale fonte – di trovare testimoni greci disponibili a riferire il vissuto di quella tragedia. La sua oral history si sviluppa nel suo stesso “farsi”: senza sovrastrutture, coprendo distanze a piedi, bussando a porte blindate, cercando persone che accettino di rompere il silenzio. Questa esperienza sarà il filo conduttore di un futuro saggio [5].
L’indagine sugli anni dell’occupazione (1940-1944) lo porta, a partire dall’agosto 1978, a scoprire la cancellazione di un’intera comunità dalla Storia. Gli ebrei di Giánnina giunsero nella regione anticamente, anche rispetto all’esodo sefardita dalla Spagna (1492). Romanioti, il loro arrivo in Grecia è attestato da fonti orali nel I secolo d.C. Nel 1935, soltanto a Giánnina, si trovavano circa 4.000 ebrei (100.000 nell’intera Grecia), in gran parte commercianti e operai; quattro anni più tardi erano meno della metà, spinti a emigrare dalla guerra nei Balcani verso le principali città greche, la Palestina o gli Stati Uniti.
Arrivare ai fatti, per Christoph, non è semplice. Diverse giornate trascorrono senza evoluzioni nella ricerca: i pochi abitanti incontrati nel kástro (il quartiere ebraico, nel centro storico della città) scuotono la testa finché, durante una lunga passeggiata sulle alture circostanti, non avviene l’incontro accidentale con la prima persona disposta a parlargli della deportazione. «Pare che in montagna, tra camminatori, sia più facile comunicare». Iniziano, tra i margini, ad aprirsi pagine non scritte: pratiche di autoalienazione tra gli occupanti (come il prendersi cura del proprio cane per poi ucciderlo, ripetendo l’operazione con nuovi cani, più volte nel tempo; o inseguimenti simulati saltando da un balcone, terminati con la bastonatura del “fuggitivo”), orrori subiti dagli abitanti concepiti al solo scopo di creare un clima di terrore, catture notturne, urla impresse nelle orecchie dei ragazzi di allora, provenienti dalle cantine dove la gendarmeria militare procedeva agli “interrogatori”, fughe sui monti, collaboratori e spie in città e villaggi – diversi informatori erano già operativi prima che la guerra iniziasse –, delazioni a danno di partigiani, feroci azioni di rappresaglia. Moltissimi paesi, come Linkyades o Asprángeli, furono interamente rasi al suolo dalle fiamme.
La mattina del 25 marzo 1944, nel giro di poche ore di rastrellamento, 1725 persone – bambini, donne e anziani compresi – sono tradotte su 80 camion militari disposti in colonna. È stato loro annunciato un “trasferimento a Est”, in nuovi insediamenti. Deportati ad Auschwitz, sopravviveranno in 92. Appena partita la colonna verso il Passo di Katara (1690 m), le case ebree di Giánnina sono saccheggiate. L’intero quartiere, svuotato con la deportazione, è progressivamente rioccupato dai senza tetto scesi dalle montagne: i loro paesi erano stati bruciati dalla Wehrmacht perché sospetti di aver appoggiato i partigiani. Adesso, ai senza tetto sono assegnate stanze nelle «case di ebrei». Ma le famiglie greche, «chiamiamole “cristiane” (…) [a]ppena entrate in quelle case, cominciarono a frugare dappertutto: toglievano pavimenti, pareti e soffitti per cercare i “tesori”» [6] dei “finti poveri”, metà dei quali – come più sopra ricordato – era emigrata altrove, mentre chi era rimasto lavorava come operaio o artigiano, o si dedicava al piccolo commercio. L’esigenza di raccogliere testimonianze che «sarebbero altrimenti scomparse nel nulla» si scontra con la reticenza a raccontare, alimentata da una sorta di rimozione collettiva: «si ricordano solo le proprie sofferenze, quelle inflitte agli altri vengono rimosse» [7].
«D'altra parte», osserva lo storico, «molte persone che hanno sofferto non sono in grado di parlarne: neanche ai loro figli hanno raccontato le tragedie che hanno vissuto».
Christoph prova forte fastidio verso chi si autogiustifica: «Abbiamo solo eseguito gli ordini; i partigiani, tutti assassini criminali!» [8]. Le sue remore sull’affidabilità dei testimoni hanno un fondamento obiettivo: c’è chi lo fa per trarne un vantaggio, per emergere («molti dicevano di avere preso parte alla resistenza quando, invece, avevano vissuto nascosti»); chi non ha interesse o è contrario all’inchiesta e adotta tattiche di depistaggio; ancora, chi esercita il potere sull’altro mediante il rifiuto di condividere informazioni di cui è a esclusiva conoscenza, eludendo le domande con altre domande, talvolta mostrando spregio o dileggio.
Le geografie instaurano forti corrispondenze: la disumanizzazione come pratica costante dei carnefici, le reticenze a testimoniare, la ricostruzione mentale – l’unica possibile – dei luoghi bombardati o cancellati da un incendio, domande che hanno la stessa ragion d’essere, in Epiro come nella Germania post-bellica. Il disvelamento si rinnova, non senza resistenze: in quegli anni Christoph scopre nuovi “muri” levati contro il dovere di memoria, avvertendo la voragine che nascondono, e fa domande pertinenti: le medita, le fissa, ne rinviene la matrice. Le domande sono punti fermi nel buio.
Le strade di Christoph si intersecano, per invenzione, in una rete di incontri fortuiti e affinità umane e intellettuali, una “parentela” costruita nei luoghi che saranno la cassa di risonanza della sua storia orale.
«Nel 1980, mi trovavo in Italia per un anno sabbatico. Durante una manifestazione in ricordo dell’eccidio di Sabbiuno (14-23 dicembre 1944), conobbi un signore anziano, un IMI (internato militare italiano), che con esitazione e molti dubbi iniziò a ricordare il tempo della sua prigionia in tre diversi lager allora attivi a Brema. Uscii scosso dall’incontro: non essendo bremese, amavo molto la città che mi aveva dato lavoro, accolto e aiutato nella vita. Presi così a registrare quello che Attilio Buldini, l’ex-soldato, mi raccontava». «Se non fossi venuto tu, mio marito sarebbe rimasto come un libro mai aperto» [9]. A parlare è la moglie di Buldini, Gigina Querzè. «Gigina», rammenta Christoph, «è stata per me importantissima. Ho trascritto le testimonianze di entrambi: l’inganno dopo l’armistizio del 1943, la deportazione e la permanenza di Attilio a Brema (dove il mestiere di barbiere, sua principale occupazione nella vita civile, gli restituì un grammo di dignità), ma anche quello che sua moglie aveva patito negli stessi anni. Fino ad allora si pubblicavano soltanto i ricordi degli ex-prigionieri, dimenticando quelli di chi era rimasto a casa». Le strade incrociate sono popolate da “donne e uomini-libro”, non perché essi si siano imposti, come nel romanzo di Bradbury [10], di mandarne a memoria il contenuto, ma – inversamente – per i fatti che hanno vissuto in prima persona. L’affermazione di Gigina rimanda, in tutt’altro contesto, a un proverbio africano che permea, nella sua portata, il discorso tenuto all’Unesco il 1° dicembre 1960 dallo scrittore maliano Amadou Hampâté Bâ: «Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia» [11].
3. Amicizia
Nuto Revelli (1919-2004) rappresenta per Christoph un padre spirituale. Ufficiale degli alpini in Russia, poi comandante partigiano nel Cuneese per la Divisione «Giustizia e Libertà», storico di quei “vinti” figli di una Liberazione che «si era spenta troppo in fretta» [12], la sua lezione «non può invecchiare». Due generazioni al lavoro si confrontano, integrando a più riprese affinità intellettuali e parziali divergenze di approccio in quello che diventerà un sodalizio tra amici. «Chiunque abbiamo di fronte», lo ammoniva Nuto, «non dobbiamo nascondere il registratore mentre parla. Il testimone deve essere responsabilizzato». Ma è sempre possibile?
«Per Nuto lo era perché, come ex-comandante militare e, in seguito, partigiano, possedeva un’autorità che obbligava il testimone a dire le cose com’erano. Insomma, il testimone non poteva inventare... Questo suo tratto induceva nel locutore un meccanismo di auto-responsabilizzazione che lo rendeva affidabile». Negli anni Ottanta, Christoph legge La strada del davai [13], in cui ritrova la Grecia occupata, teatro dell’assurdo che vede scontrarsi due “popoli fratelli” (italiani e greci), poi la guerra in Albania e quella sul fronte orientale, con la tragica ritirata dell’Armir nel gelo dell’inverno russo (gennaio-febbraio 1943). «Lo incontrai la prima volta nel 1987 a un convegno sui deportati italiani nei lager organizzato a Torino dall’allora “Istituto storico della Resistenza in Piemonte”, nella sala del Consiglio regionale di Palazzo Láscaris. Uno dei relatori era un mio amico e collega, Karl Heinz Roth che, non parlando l’italiano, mi chiese subito di intervenire al posto suo. Dapprima opposi resistenza, trovandomi là come semplice uditore, ma alla fine accettai perché sapevo che Nuto avrebbe presieduto la seduta del pomeriggio, e tenevo a ringraziarlo per l’importanza del suo lavoro. Questo lo colpì, poiché Nuto nutriva sentimenti negativi verso i tedeschi. Mi ha sempre chiamato con affetto “il tedesco di Cuneo”, diverso da quelli contro cui aveva combattuto da partigiano». Da quel momento, Christoph coglierà ogni occasione per andarlo a trovare, anche mentre è diretto in Grecia. La storia del disperso di Marburg [14] li avvicina. Nell’indagare, Christoph non disdegna azioni fortuite: «Quando cercavamo il “disperso”, non so se io fossi più audace, non credo; però», nota sorridendo, «ho bussato a tante porte!». Altri elementi di prossimità si aggiungono: «In quel periodo, con mia grande sorpresa, sono diventato padre e Nuto è contemporaneamente diventato nonno. Questo ci ha ulteriormente uniti».
L’alea, componente “di terreno” inevitabile, è posta al servizio dell’inchiesta: forse questa può essere una specificità di Christoph rispetto a Revelli, in sintonia con l’abitudine del primo a spostarsi, anche per lunghi periodi, adattandosi alla situazione, talvolta avventurandosi su piste che non portano a nulla. «Non saprei dire. Sicuramente Nuto si trovava in una posizione più forte della mia, però mi colpì sin dall’inizio la sua grande generosità, che notavo anche tra le pagine dei suoi libri. Le cose che racconta e il modo in cui lo fa stanno lì a dimostrarlo». L’attenzione portata dallo storico al fenomeno della fedeltà al Reich, al suo manifestarsi come adesione collettiva, che certo toccava non soltanto i magistrati, rimanda ai confini porosi tra alienazione e obbedienza acritica a un potere dispotico, un processo di neutralizzazione delle coscienze pronto a riemergere nell’Europa contemporanea.
Ma il percorso di Christoph si lega con un’altra vicenda italiana di rivisitazione critica del passato. Oltre mezzo secolo fa, mentre la società era entrata in una concitata fase di trasformazione, Magistratura democratica dava vita a una rinascita “eretica” [15], capace di incrinare i vecchi rapporti di forza interni alla giurisdizione, chiamando in causa quelle coscienze che non volevano essere “neutralizzate”. Federico Governatori (1929-2009), primo segretario generale di Md nel luglio 1964, incarna questa riconfigurazione: fonda Quale giustizia, dove si iniziano a pubblicare le sentenze di primo grado, con tutte le questioni che sollevano. Mentre la politica italiana è attraversata da nuove ombre e la violenza armata esplode nelle piazze, la rivista tratta argomenti come i licenziamenti dei politici o dei delegati della Fiat, le responsabilità dei neofascisti non sottoposti a processo per le stragi, le vicende che ruotano intorno al “Processo 7 aprile” (1979) e molto altro. Nella sua visione delle dinamiche istituzionali, Governatori, pretore del lavoro, restituiva il ruolo del magistrato alla società e alle sue istanze di giustizia.
«L’incontro con Federico è stato il preludio a un’amicizia molto stretta. Non so come, ma sapeva che insegnavo a Brema, in quell’università progressista appena fondata (ero docente dal 1974), che parlavo l’italiano e mi interessavo alla storia del suo Paese. Comunque sia andata, mi invitò per un intervento a un convegno di Md che si teneva a Chianciano. Durante l’anno sabbatico (1980) avevo scelto Bologna perché lì viveva e lavorava Federico, che mi aiutò anche a sistemarmi. Ci siamo frequentati molto, anche con la sua famiglia, con cui ho mantenuto bellissimi rapporti.
Già nel 1974 avevo scritto un contributo per Quale giustizia contro il “Berufsverbot” nella Germania federale, che impediva a molti giovani di avere accesso a pubbliche funzioni (da insegnanti nelle scuole, da magistrati nei tribunali, da impiegati nelle amministrazioni statali) perché iscritti in partiti od organizzazioni politiche di sinistra [16].
Federico mi procurò allora l’invito a intervenire a un congresso dell’Anm a Bari. Chiamato a parlare, feci un intervento contro il “divieto di esercizio della professione” appena entrato in vigore nella Germania federale, presentando anche una mozione di protesta. Era una cosa impensabile allora in Italia: con un Pci così forte, poteva esserci il divieto di professione con la motivazione di essere comunisti? Ricordo la mia partenza per Brema e, a un chiosco della stazione di Bari, il numero de La Repubblica che riportava in prima pagina un articolo sul “tedesco” che aveva “diviso il congresso dei magistrati”. Da allora, Federico Governatori è stato per me non solo un amico, ma anche un maestro di vita».
4. Il silenzio e la voce dello storico
Firenze, 21 maggio 2019. In un’aula al secondo piano della Palazzina «D5» del Polo universitario di Novoli, le tende sono tirate. Christoph espone la vicenda atroce di Walerjan [17], sedicenne originario di Fałków (Polonia centro-meridionale), condannato a morte per decapitazione nel 1942 da un tribunale speciale del Reich. Sede dell’istanza è la stessa città che, trent’anni più tardi, “adotterà” Christoph: «Il Tribunale speciale di Brema emise 56 pronunce di condanna a morte − uomini e donne, molti giovani, giovanissimi come Walerjan. Sulla Germania nazista pesa il numero di 30.000 condanne, rispetto alle 93 della Repubblica di Weimar». Tre anni di lavoro prendono le mosse dagli atti di un processo durato meno di un’ora. Christoph si reca sul posto, visita i luoghi, scatta fotografie, anche in notturna. Al momento dell’indagine, il tempo intercorso da allora sembra annullarsi: «L’aula del tribunale era sempre quella, c’erano ancora il chiodo al quale era appeso il ritratto del Führer e l’iscrizione «Temi Iddio, fai il giusto, non temere nessuno».
«Quando ho sfogliato le carte di questo processo, mi sono sentito male scoprendo, negli atti ingialliti, gli stessi moduli con cui avevo “familiarizzato” durante il mio perfezionamento giuridico a Berlino, nel Kriminalgericht Moabit, cioè nello stesso tribunale in cui fu scattata la famigerata fotografia dei giudici che alzano la mano destra giurando fedeltà al regime nazista. Se fossi stato giurista nel 1942, cosa avrei fatto?».
Nella presentazione del caso, corredata dalle immagini fotografiche e dai documenti raccolti, Christoph si sofferma sulle parole: il verbale indica l’origine − «Pole» («polacco») e l’accusa di tentato incendio di un fienile, il suo alloggio di lavoratore forzato, che lo stesso Walerjan aveva provveduto a estinguere poco dopo averlo appiccato. Nella perizia razziale allegata, il ragazzo è definito «soggetto ostico» perché di “razza inferiore”, ragione sufficiente a motivare il rifiuto della conversione della pena in detenzione lunga in un Lager richiesta dal procuratore, e quindi a confermare la condanna. Christoph proietta altre immagini: pochi cerini (il corpus delicti); le celle in cui Walerjan è trasferito; la lettera ai genitori, che scrive il giorno della condanna e consegna al parroco – i genitori la riceveranno quando Walerjan sarà già morto –, nella quale disegna il profilo nitido di una testa di cavallo. Nel testo, il flusso di pensiero del giovane affiora con un messaggio di solidarietà all’intero genere umano. Dagli atti non risulta cosa gli sia successo nei quaranta giorni che lo separano dall'esecuzione: «Non lo sappiamo. Sembra che sia rimasto calmo fino all’esecuzione: questo, sì, emerge anche del verbale della sua ultima notte.
Mentre scorrono, Christoph rilegge le didascalie rispettando le pause, senza ridondanza: presta la voce a tutti i frammenti di testo raccolti, perché di quanto ha subito Walerjan è impossibile fare un commento. Le didascalie, le pause e la cruda materialità degli eventi sono la grammatica di questa storia. Adattando la geologia ai fatti degli uomini, la realtà emersa si oppone efficacemente al moto dell’“onda” che sommerge. La domanda sul perché del fatto è il suo presidio.
Nella microstoria, la lingua del potere burocratico e le trascrizioni di testimonianze orali entrano in sinergia con la fisica degli eventi. La materialità del dato storico è parte fondamentale – a volte preponderante – della ricostruzione dell’Autore: può essere l’ultimo rancio di Walerjan prima di essere assassinato; può essere l’odore dei morti insepolti a Cefalonia, che attirano stormi di cornacchie dalla costa; oppure Nuto che, mentre risale una vallata insieme a Christoph, rimane taciturno, poi dice: «Quante volte l’ho fatta correndo con il fucile in spalla! Sai, c’erano i tedeschi…». Può essere che un modo di coltivare la memoria storica possa passare per linguaggi materiali, non parlati? Non sempre è possibile tradurre verbalmente, provando a razionalizzare. Nel salto tra generazioni, proprio per la mancanza di vissuto, si avverte un bisogno di recupero e di trasmissione elementale. Se i depositari rifiutano di parlarne, la loro generazione rischia di chiudersi come un anello. Lo storico potrebbe evitare questo iato definitivo operando un riavvicinamento temporale attraverso una moltitudine di linguaggi che comprende – potentemente – la materia delle cose. Ci si riappropria degli oggetti, dei luoghi, di tutto ciò che è “documento”. In questo senso, la storia diventa un luogo abitabile, una casa comune per il futuro.
«Non ho mai sviluppato un meta-discorso», ammette Christoph, riflettendo sul metodo applicato alla ricerca e spiegando subito la ragione di tale ritrosia: «L’ho fatto sempre in maniera molto spontanea. Come oggi, ero interessato a trovare storie capaci di “imprimersi” nel lettore. Non partecipavo alle diatribe metodologiche fra colleghi: ho sempre pensato che lo scritto deve convincere e non può dipendere da decisioni formulate in anticipo e a tavolino. Volevo che i miei libri fossero letti, non che fossero metodologicamente corretti. Senza dubbio, l’obbligo di leggere così tanti contributi metodologicamente corretti nel corso degli studi giuridici mi ha influenzato nella direzione opposta». Eppure i suoi resoconti, nella polifonia delle narrazioni che li animano, sono molto strutturati. Ciò che traspare dalla lettura delle sue pagine, è invece che l’oggetto di questa produzione – le voci del “popolo che manca” – rifiuta ogni apriorismo. Il metodo è inscritto nel modo di procedere, nelle distanze coperte a piedi, nella ricorsività temporale degli incontri. Quanto alla scrittura, essa è già, di per sé, elaborazione.
La ricerca di Schminck-Gustavus si riflette nella sua parabola esistenziale, presentando fortissime affinità con gli etnografi: scienza impura per eccellenza, scienza «“bastarda” che accetta suggerimenti e innovazioni dai gruppi umani più ininfluenti», come la definisce l’antropologo Leonardo Piasere [18], l’etnografia racconta il pensiero e le pratiche di persone prive di potere: i «vinti», i dimenticati, i «sommersi»… Tutti soggetti che turbano la memoria collettiva.
«L’attualità europea è attraversata da pulsioni che ricordano in maniera preoccupante gli anni 1932-1933: poco prima della presa del potere, i discorsi erano quasi identici. Svanito il miracolo economico, oggi le vittime sono gli “immigrati”, ma la logica è molto simile. Un amico di Giánnina mi ha inviato dei filmati tratti dalle assemblee di “Aurora dorata” in Grecia e dei neonazisti in Germania. Oltre che triste, è molto difficile pensarci».
«È uscito un film [19] su questo “paese martire”, Lyngiádes – si dice in italiano “paese martire”? La famiglia del regista, Chrysanthos Konstantinidis, fotografo di professione, è originaria di Lyngiádes. Chrysanthos ha letto il libro [20] e, in occasione di un mio passaggio per Atene, ci siamo incontrati. Mi ha chiesto i nastri che avevo registrato venti anni prima! Il film, che abbiamo presentato sia in Grecia che in Germania, non contiene solo le testimonianze dei nipoti delle vittime o di altri che avevano sentito qualcosa sulla vicenda, ma anche paesaggi e digressioni musicali, che danno respiro allo spettatore. È un’opera anticonvenzionale, lontanissima dal linguaggio ipertrofico al quale siamo da tempo costretti. Per esempio: a un bombardamento succede un paesaggio con nuvole. È un contrappunto molto importante. Ripenso ai piani-sequenza di 2, 3, 4 minuti di Théo Anghelopoulos. Questo linguaggio è molto più realistico! Anche la storia, a pensarci, è un po’ così: per un tempo indefinito, non succede nulla».
Una parte essenziale della storia di Christoph, che sottende alla presa di posizione politica verso la storiografia ufficiale una domanda di giustizia [21], si intreccia a quella dei suoi testimoni: vita e ricerca si fondono, i piani spazio-temporali si avvicinano nel coprire una distanza a piedi, i luoghi e le domande si corrispondono, i testimoni tendono a sparire: «Ci sono tanti Boves, tanti Marzabotto, tanti Lyngiádes…». Camminare in salita verso un confine, partire dal bombardamento della sua città “adottiva” per scoprirne il passato torbido, tenere in mano i documenti che legittimarono gli orrori di una “piccola storia” lo porta a ritrovarsi in un affresco in movimento che si fa da sé, e ad esserne parte. La sua vocazione per la pittura, in fondo, non è andata dispersa.
[1] La storia di Walerjan è argomento del saggio Mal di casa. Un ragazzo davanti ai giudici (1941-1942), Bollati Boringhieri, Torino, 1994 (edizione originale: 1986).
[2] È il secondo saggio della sua “trilogia greca”, una ricostruzione dettagliata della deportazione degli ebrei dalla città di Giánnina ad Auschwitz nel 1944 e della vicenda giudiziaria che, il 22 gennaio 1971, portò il Tribunale di Brema a confermare il non luogo a procedere nei confronti dei responsabili, con conseguente archiviazione dell’istruttoria. Inverno in Grecia. Guerra, occupazione, Shoah – 1940-1944, Golem, Torino, 2015 (prima edizione, in lingua greca: 2008; seconda edizione, in lingua tedesca: 2010).
[3] Ibid., p. 114.
[4] C.U. Schminck-Gustavus, Camminare con il registratore sottobraccio, intervento all’Accademia delle Scienze di Torino in occasione di una giornata di studio in ricordo di Nuto Revelli (1919-2004), 28 marzo 2014 (https://www.accademiadellescienze.it/attivita/iniziative-culturali/nuto-revelli). Il popolo che manca è anche il titolo dell’ultimo libro di Revelli, pubblicato postumo da Einaudi nel 2013 a cura di Antonella Tarpino.
[5] C.U. Schminck-Gustavus, I sommersi di Cefalonia, Il Combattente, Firenze, 1995.
[6] C.U. Schminck- Gustavus, Inverno in Grecia, op. cit., p. 102.
[7] Ibid., p. 75.
[8] Ibid.
[9] C.U. Schminck-Gustavus, Il lungo ritorno. Esperienze degli internati italiani nelle testimonianze dei reduci, in Id., L’attesa. Cronaca di una prigionia al tempo dei lager, Editori Riuniti, Roma, 1989, p. 174, riedito in versione riveduta dall’Autore: Ci hanno rubato gli anni più belli. Cronaca di un amore al tempo dei lager - 1943-1945, Istituto storico della Resistenza, Cuneo, 1998.
[10] Il riferimento è al romanzo di Ray Bradbury Fahrenheit 451 (Ballantine Books, New York, 1953) che rimanda, a sua volta alle bücherverbrennungen , le cataste di libri scritti da ebrei e bruciati tra il 10 maggio e il 21 giugno del 1933.
[11] Il contenuto dell’intervento è disponibile sull’archivio web dell’Istituto nazionale francese per i beni audiovisivi (Ina): https://www.ina.fr/audio/PHD86073514.
[12] N. Revelli, Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino, 1997 (1977), p. XXI dell’Introduzione.
[13] N. Revelli, La strada del davai, Einaudi, Torino, 1966.
[14] N. Revelli, Il disperso di Marburg, Einaudi, Torino, 1997. In quest’opera Revelli tenta di ricostruire l’identità di un ufficiale tedesco, Rudolf Knaut, ucciso dai partigiani nel 1944, su cui l’Autore nutre una speranza di umanità. Si fa strada l’idea del “tedesco buono” che esce a cavallo da una caserma nei pressi di Cuneo, in piena zona partigiana, e parla con le persone, anch’egli forse animato da sentimenti di pace sociale. Schminck-Gustavus appoggiò Revelli in questa ricerca quasi ossessiva del giusto – che troverà un “approdo” d’eccezione nella figura di Don Raimondo Viale, parroco di Borgo San Dalmazzo (Cn) –, dove la questione epistemologica coincide, per lo storico in quanto uomo, con un’intima necessità della coscienza.
[15] Vds. L. Pepino, Appunti per una storia di Magistratura democratica, in Questione Giustizia trimestrale, ed. Franco Angeli, Milano, n. 1/2002, in particolare pp. 11-18, e L. Ferrajoli, Associazionismo dei magistrati e democratizzazione dell’ordine giudiziario, in Questione Giustizia trimestrale, n. 4/2015, http://www.questionegiustizia.it/rivista/2015/4/associazionismo-dei-magistrati-e-democratizzazione-dell-ordine-giudiziario_296.php.
[16] C.U. Schminck-Gustavus, La contestazione dell'“ortodossia” giuridica in Italia, in Quale giustizia, n. 29/1974, pp. 611-618. Scrive l’Autore: «L’esistenza stessa di “Magistratura Democratica” nella Germania Federale sarebbe un fatto impensabile, dato che attraverso il cosiddetto “Berufsverbot”», basato unicamente su una dichiarazione ministeriale del 28 gennaio 1972, «che colpisce ormai molti insegnanti e giuristi socialisti o comunisti, sarebbe addirittura impossibile professare le posizioni politiche di Magistratura Democratica senza perdere ogni possibilità di assumere una carica statale, oppure – se già assunta –, la carica stessa» (p. 612). Con la premessa che, in uno Stato costituzionale, «la validità della Costituzione stessa dipende in egual misura dallo sviluppo del movimento democratico all’interno della società», per Christoph «[l]a prassi ministeriale del “Berufsverbot” è una delle più recenti dimostrazioni del funzionamento “distruttivo” dell’interpretazione costituzionale; ben lontano dal rendere efficaci le alternative democratiche della Costituzione, tale interpretazione restrittiva fa irrompere la realtà costituita nella norma costituzionale, eliminandone la dinamica sociale.
È certo che non si può mettere sullo stesso piano la Costituzione italiana e quella federale tedesca. Già i rapporti di forza nell’Assemblea costituente italiana erano totalmente diversi rispetto a quelli esistenti nel Parlamentarischen Rat tedesco. Così il compromesso di classe, fissato nelle relative Costituzioni, ha ben altra portata. Articoli come il famoso art. 3, 2° comma, non esistono nella Costituzione tedesca» (ibid.).
[17] Walerjan Wröbel, protagonista di Mal di casa, op. cit. (vds. supra, nota 1).
[18] L. Piasere, Presentazione, in F. Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Seid, Firenze, 2009, p. V.
[19] The Balcony – Memories of Occupation, di Chrysanthos Kostantinidis, Grecia, 2018 (105’), https://vimeo.com/247703053.
[20] C.U. Schminck-Gustavus, Feuerrauch. Die Vernichtung des griechischen Dorfes Lyngiádes am 3 Oktober 1943, Dietz, Bonn, 2013.
[21] Come Nuto Revelli, anche Christoph ha dedicato una parte importante del suo lavoro ai giusti della storia: il giudice Lothar Kreyssig (1898-1986), che si oppose allo sterminio dei disabili e malati psichici promosso dal programma nazista di eutanasia “Aktion T4” (Kreyssig è stato insignito, nell’ottobre 2018 «Giusto tra i popoli» dall’ente nazionale per la memoria della Shoah Yad Vashem) e Dietrich Bonhoeffer, pastore luterano, fermo oppositore del regime nazista, condannato a morte per alto tradimento e impiccato il 9 aprile 1945, nel campo di concentramento di Flossenbürg.