1. Premessa
La Corte di Cassazione, su ricorso dell’ASGI e in riforma di una sentenza della Corte d’Appello di Torino, ha affermato tre principi di diritto che rappresentano una applicazione “circolare” della direttiva europea 2000/43/CE in materia di «attuazione della parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica», direttiva recepita nel nostro ordinamento giuridico attraverso il decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215.
Più precisamente, la terza sezione civile della Corte di cassazione ha affermato che:
a. «integra molestia per ragioni di razza o di etnia, equiparata alle ipotesi di discriminazione diretta e indiretta e tutelata dall’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 215 del 2003, qualsiasi comportamento che sia lesivo della dignità della persona e sia potenzialmente idoneo a creare o incrementare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo nei confronti della predetta etnia, al di là e a prescindere da qualsiasi motivazione soggettiva»;
b. «può integrare gli estremi della molestia rilevante ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 215 del 2003 sia la denigrazione diretta delle caratteristiche di una etnia in quanto tale, sia l’associazione di tale etnia a comportamenti delittuosi»;
c. «la manifestazione del proprio pensiero sui social network, anche se inizialmente indirizzata ad una cerchia limitata di persone (gli “amici” su Facebook) deve comunque avvenire nel rispetto del criterio formale della continenza e, ove sia accertato che abbia contenuti lesivi dell’altrui dignità, può integrare gli estremi della molestia discriminatoria se rivolta verso un determinato gruppo etnico, in quanto è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone».
2. Il caso
L’oggetto della controversia è costituito dalla valutazione di messaggi indirizzati all’etnia Rom, ritenuti rilevanti ai sensi della direttiva 2000/43/CE e del d.lgs. n. 215 del 2003, oltre che dell’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998 (Testo Unico Immigrazione) che disciplina le azioni civili contro la discriminazione: in particolare, l’associazione ricorrente (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, ASGI, ha contestato alla parte convenuta, una privata cittadina successivamente eletta assessore comunale di un comune del nord Italia, di aver pubblicato sul suo profilo Facebook due post dal contenuto ingiurioso nei confronti dell’etnia rom, a distanza di quattro mesi l’uno dall’altro, e ne ha chiesto la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale subito, in qualità di ente esponenziale dei diritti collettivi in materia di contrasto alla discriminazione. Ha domandato, altresì, che fosse data adeguata pubblicità al provvedimento richiesto, anche mediante la sua pubblicazione su un quotidiano a tiratura nazionale, e che fosse assunto ogni ulteriore provvedimento volto ad evitare il ripetersi della discriminazione.
La domanda veniva rigettata sia in primo che in secondo grado: in particolare, il Tribunale competente evidenziava come dalla lettura dei due post, che riteneva tra loro collegati, emergesse un attacco «genericamente rivolto a tutti coloro che, connazionali o zingari, si trovassero a delinquere sul territorio italiano» e non fosse mirato nei confronti dell’etnia rom.
La Corte d’Appello respingeva poi l’impugnazione dell’ASGI, confermando la decisione di primo grado, sebbene attraverso un percorso motivazionale parzialmente differente: escludeva, infatti, l'esistenza di un collegamento tra i messaggi, perché pubblicati in periodi distinti e in contesti diversi, il primo[1] in conseguenza del sentimento di ira e sdegno suscitato dal furto aggravato subito da una persona strettamente legata a chi lo aveva scritto; ed il secondo[2] in occasione della giornata internazionale dei Rom, Sinti e Caminanti, in relazione alla quale la stessa persona riteneva di esternare le sue personali convinzioni.
Al riguardo, la Corte territoriale, ritenendo non provato l'elemento oggettivo dell'illecito, escludeva che i suddetti messaggi potessero assurgere a comportamenti integranti una molestia nei confronti dei destinatari, ai sensi e per gli effetti della normativa antidiscriminatoria: assumeva, infatti, che il primo post si traduceva in una invettiva contro tutti gli individui presenti nel nostro paese dediti ad azioni criminali e, dunque, meritevoli di incappare in una serie di disgrazie e punizioni assai cruente.
In relazione al secondo messaggio, la Corte territoriale sosteneva che, pur triviale, esso rappresentasse semplicemente l’estrinsecazione della libertà di espressione di un cittadino, e cioè la manifestazione del diritto tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, corrispondente alla linea di taluni gruppi politici, visto che veniva stigmatizzato uno stile di vita consistente nello stazionare abusivamente e a tempo indeterminato in accampamenti non autorizzati: espressione che non si traduceva in un attacco all’intera popolazione nomade in quanto tale, ma nei confronti di chiunque avesse posto in essere la condotta descritta, ritenuta illecita.
3. La decisione della Corte di Cassazione
Con la pronuncia in esame (Cass. 26 maggio 2023 n. 14836), la Corte di Cassazione, in accoglimento dei sette motivi proposti, dopo aver rivisitato il contenuto del decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215, emanato per dare concreta realizzazione in Italia alla direttiva 2000/43/CE «che attua il principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica», ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.
Partendo dal presupposto che la normativa unionale costituisce uno degli strumenti attraverso i quali il legislatore comunitario ha provveduto a dare piena attuazione alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, combattendo ogni forma di razzismo e di discriminazione in Europa, ha affermato che i due post pubblicati sul sito facebook erano idonei ad integrare forme di molestie nei confronti dell’etnia Rom.
L’esame della nozione di “discriminazione” costituisce il punto di partenza del percorso argomentativo della decisione, secondo la quale deve ritenersi discriminatorio qualunque comportamento che – direttamente od indirettamente - abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale, ed in ogni altro settore della vita pubblica.
Alla discriminazione deve assimilarsi il concetto di molestia che, ai sensi dell’art. 2, terzo comma, del d.lgs. n. 215 del 2003 (che riprende testualmente la dizione dell’art. 2 della direttiva UE), consiste in «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo».
La Corte di Cassazione afferma che le norme indicate sanzionano quei comportamenti che, pur non necessariamente volti ad offendere, constino di due elementi e cioè a) l’idoneità anche solo potenziale («lo scopo o l’effetto») a ledere la dignità delle persone in relazione alla origine etnica o di razza (e la direttiva si preoccupa di puntualizzare che l’uso del termine “razza” non implica l'accettazione delle teorie che tentano di dimostrare l'esistenza di razze umane distinte ma è finalizzata ad evitare le discriminazioni fondate su tali supposte distinzioni); b) la potenziale capacità espansiva di tale comportamento, lesivo della dignità delle persone, ovvero l’idoneità di esso a diffondere l’effetto discriminatorio, a creare o incrementare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.
E, partendo da tali premesse, ha ritenuto che la sentenza impugnata fosse viziata sotto vari profili, dipendenti anche da una motivazione apparente ed illogica, caratterizzata da un complessivo fraintendimento e da una totale sottovalutazione sia dei valori tutelati dalle norme esaminate, sia dell’accertamento da compiere per verificare se tale violazione fosse stata effettivamente posta in essere.
Di particolare rilievo risultano le argomentazioni spese dalla Corte in relazione alla pesante ricaduta delle espressioni discriminatorie sulla creazione di un «clima ostile» che, nella sentenza impugnata, non era stato affatto considerato in termini di “pericolo”, soprattutto rispetto alla potenzialità lesiva del comportamento contestato: ed, in relazione al rilievo secondo cui il messaggio era rivolto al gruppo privato degli “amici” che l’autrice vantava su Facebook, è stato ritenuto che l’affermazione si ponesse in aperto contrasto con l’art. 2 co. 3 Dlgs. n. 215/2003 «perché esso non considera che la norma non punisce l’accertata creazione di un clima ostile, ma mira a prevenire il suo sorgere e, dunque, sanziona chi pone in essere comportamenti che siano anche solo potenzialmente idonei a determinare l’accrescersi del livello di ostilità sociale per ragioni etniche». E, del resto, la Corte sottolinea che la potenzialità offensiva delle notizie e delle dichiarazioni diffuse a mezzo dei cd. social in generale, e di Facebook in particolare, era stata più volte affermata dalla giurisprudenza di legittimità, sia civile che penale, che aveva posto in rilievo l’idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, a sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato[3].
Infine, condividendo il rilievo della associazione ricorrente, è stato ritenuto che la sentenza impugnata non aveva affatto considerato, ai fini di valutare la potenziale diffusività e l’idoneità lesiva della esternazione, il dato, confermato dalla stessa controricorrente, secondo il quale la stessa, senza rimuovere i post oggetto di causa, aveva intrapreso pochi mesi dopo una carriera politica che l’aveva portata a ricoprire l’incarico di “assessore” nel comune di appartenenza, con la conseguenza che la potenzialità diffusiva di quei messaggi, ed anche la loro idoneità ad influenzare il pubblico dei lettori, era plausibilmente cresciuta in conformità alla maggior visibilità pubblica assunta dalla autrice di essi.
4. La direttiva UE 2000/43/CE antidiscriminazione. Discriminazione diretta e discriminazione indiretta. Il Dlgs 215/2003
A seguito del trattato di Amsterdam nel 1999, l’UE ha acquisito nuovi poteri per combattere le discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (ex art. 13 del Trattato CE, ora art. 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Ciò ha condotto all’adozione unanime da parte degli Stati membri della direttiva 2000/43/CE (direttiva sulla parità indipendentemente dalla razza) e della direttiva 2000/78/CE (direttiva sulla parità in materia di occupazione).
Le norme approvate stabiliscono un corpus di diritti e obblighi applicabili in tutti i paesi europei, comprese le procedure per proteggere le vittime di discriminazione. Tutti i cittadini dell’UE hanno diritto alla tutela legale contro le discriminazioni dirette e indirette, alla parità di trattamento nel lavoro, a ricevere assistenza dagli organismi nazionali per la promozione della parità e a presentare denuncia con procedura giurisdizionale o amministrativa.
Tale normativa è stata recepita nel diritto nazionale di tutti gli stati membri: in particolare, e per ciò che più specificamente qui interessa, in Italia la direttiva 2000/43/CE è stata recepita attraverso il Dlgs 9 luglio 2003 n. 215.
L’obiettivo è stato – e continua ad essere – quello di fare in modo che le vittime di discriminazione possano esercitare concretamente i propri diritti, che sappiano cioè a chi rivolgersi per ottenere assistenza e per avere accesso alla giustizia.
Per garantire che i diritti alla parità di trattamento sanciti dall’UE siano adeguatamente applicati nella pratica, la Commissione Europea raccomanda che gli Stati membri:
a) continuino a sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti antidiscriminazione e si concentrino sulle persone maggiormente a rischio, coinvolgendo datori di lavoro e sindacati;
b) agevolino la segnalazione delle discriminazioni, migliorando l’accesso delle vittime ai meccanismi di denuncia;
c) garantiscano l’accesso alla giustizia a quanti hanno subito discriminazioni.
Inoltre, rispetto alla peculiare vicenda oggetto del presente contributo, la Commissione si è fatta carico di affrontare, come problema specifico, le discriminazioni che subiscono i Rom nel quadro delle strategie nazionali per la loro integrazione, anche attuando gli orientamenti contenuti in una raccomandazione del Consiglio di Europa (IP/13/1226)[4]: circostanza questa che rivela il livello di attenzione che il trattamento deteriore, diffusivamente subito da tale etnia, ha imposto nei vari Stati europei.
Tornando al tema generale, la direttiva 2000/43/CE e la normativa interna di recepimento individuano due forme di discriminazione e cioè quella “diretta”, che traspare nettamente da comportamenti, messaggi, atti e prassi idonei a creare una evidente disparità di trattamento; e quella “indiretta”, riscontrabile quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altri, persone di una determinata razza od origine etnica o che professano una determinata religione o ideologia, portatori di disabilità, di una determinata età o di un particolare orientamento sessuale.
Tali disposizioni, criteri o prassi non costituiscono una discriminazione se oggettivamente giustificati da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il conseguimento della stessa sono appropriati e necessari: infatti, è importante notare che, a volte, un trattamento differenziato serve proprio ad assicurare pari opportunità a tutti: le persone che si trovano in situazioni diverse devono ricevere un trattamento diverso le une dalle altre, nella misura in cui ciò sia loro necessario per fruire di determinate opportunità su un piano di parità con gli altri e per ribilanciare le disuguaglianze.
Il caso in esame, tuttavia, presenta la specificità di aver associato a tali principi anche una condivisibile interpretazione del concetto di “discriminazione” attraverso quello di “molestia”.
Invero l’art. 2 comma 3 del Dlgs n. 215/2003, come novellato dal decreto legge 8 aprile 2008, n. 59, prevede che «sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».
La condotta riscontrata – che, secondo l’ordinanza in esame, è stata erroneamente ed insufficientemente valutata dalla Corte territoriale – consisteva in messaggi portatori di insulti ed imprecazioni, con contenuti idonei ad instaurare un clima di odio nei confronti dell’etnia rom, certamente non riconducibili a libertà di espressione e non interpretabili come indirizzati indistintamente a tutti coloro che delinquono, visto che, letteralmente, nel primo messaggio, viene stigmatizzata «la presenza di certi individui nel nostro paese, di zingari, non rom, ma zingari di merda»; e, nel secondo, attraverso il riferimento al popolo “nomade” è evidente la relazione con quell’etnia.
Rispetto a ciò, l’ampia previsione della norma testé richiamata trova riscontro sia rispetto all’effetto di violare, in via immediata, la dignità personale degli appartenenti a quel gruppo, sia rispetto alla conseguenza di creare un clima ostile ed umiliante attraverso messaggi diffusivi.
5. La giurisprudenza della Corte di Giustizia e della CEDU sul principio di non discriminazione
Sia la Corte di Giustizia che la Corte EDU, su fattispecie riconducibili a discriminazioni etniche, ha mostrato di raccogliere le sollecitazioni della Commissione Europea.
La Corte di Giustizia, in particolare, si è espressa sia sulla definizione di discriminazione, sia sulla nozione di appartenenza ad un gruppo etnico, con espresso riferimento all’etnia Rom.
Con la sentenza 8.11.1990, Dekker c. Stichting Vormings centrum voor Jong Volwas-senen Plus, causa C- 177/88[5]– riguardante il diniego all’ assunzione di un’educatrice olandese al terzo mese di gravidanza - è stata approfondita la definizione di discriminazione contenuta negli artt. 43 del D.Lgs. 286/1998 e 2 del D.Lgs. 215/2003 - nella parte in cui si riconduce ad essa quel comportamento che, direttamente o indirettamente, abbia l’effetto (solo l’effetto e quindi non anche lo scopo) di vulnerare (distruggendolo o compromettendolo) il godimento, in condizioni di parità, dei diritti umani. La CGUE ha affermato il principio generale secondo cui l’imputazione della responsabilità di una condotta o di un atto discriminatorio non può essere ancorata solo al tradizionale criterio della colpa essendo sufficiente, per qualificarlo tale, che quel comportamento, pur senza essere animato da uno “scopo” di discriminazione, produca comunque un "effetto" di ingiustificata pretermissione per motivi razziali, etnici ecc.
Di particolare rilievo, inoltre, risulta la successiva pronuncia CGUE 16 luglio 2015, C-83/14, Chez, riferita ad una vicenda più specificamente riguardante l’etnia zingara, trattandosi di un ricorso promosso da una cittadina bulgara, abitante in un quartiere prevalentemente popolato da persone rom nel quale, a differenza che nelle altre zone della città, i contatori dell’energia elettrica erano stati collocati a sei metri di altezza, con la conseguenza di non consentire agli intestatari delle utenze il controllo del conteggio dei consumi.
La Corte di giustizia ha precisato, in proposito, che la nozione di origine etnica deriva dall’idea che i gruppi sociali siano caratterizzati «da una comunanza di nazionalità, fede religiosa, lingua, origine culturale e tradizionale e ambiente di vita» e che la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale include, fra queste ultime, anche la discriminazione fondata sull’origine etnica; ha affermato, in conclusione, che la misura adottata, pur con costituendo una discriminazione diretta, rappresentava una prassi apparentemente neutra comportante un particolare svantaggio per persone di una determinata origine rispetto ad altre[6].
Anche la CEDU è intervenuta ripetutamente in senso analogo.
Con la sentenza 22 dicembre 2009, Sejdić e Finci c. Bosnia Erzegovina, nn. 27996/06 e 34836/06, la CEDU si è pronunciata sulla impossibilità per i cittadini bosniaci rom ed ebrei di candidarsi per le più importanti cariche istituzionali della Bosnia-Erzegovina ed ha affermato che una discriminazione basata sulla “razza” di una persona non può essere giustificata oggettivamente nella società democratica odierna. Ha aggiunto che le disposizioni costituzionali che limitano l’elettorato passivo su questa base contrastano con l’art. 14 della CEDU e con l’art. 1 del Prot. n. 12, ed ha precisato che «una qualche forma di limitazione all’elettorato passivo può essere ammessa rispetto all’art. 3, Prot. 1 CEDU, ma che nel caso in esame - in cui i due ricorrenti erano stati esclusi dalla possibilità di candidarsi alla Presidenza e ad un ramo dell’Assemblea parlamentare perché non appartenenti ad uno dei popoli costitutivi previsti dalla Costituzione della Bosnia-Erzegovina - non sussisteva alcuna giustificazione oggettiva».
Ancora, la Corte EDU – nella sentenza Sampanis ed altri c. Grecia, n.23526\05, 5 settembre 2008[7]- dopo aver precisato che le due espressioni, rom e zingari, sono accomunate ed identificano una medesima categoria di persone, caratterizzate dall’appartenenza ad una etnia per ragioni storiche particolarmente vulnerabile, in passato sottoposta a persecuzioni, e come tale protetta normativamente dai comportamenti discriminatori, ha ribadito la portata emarginante delle dichiarazioni rese da un membro del parlamento bulgaro nei confronti della etnia rom.
Nella sentenza 16.2.2021 relativa a CEDU Budinova & Chaprazov v. Bulgaria - 12567/13 è stato, infatti, ritenuto che i giudici bulgari, nel valutare il caso loro sottoposto, non avevano effettuato il necessario esercizio di bilanciamento tre i diritti delle parti; e che rifiutando di concedere ai ricorrenti il risarcimento per le dichiarazioni discriminatorie resa da un politico, non avevano rispettato il loro obbligo positivo di rispondere adeguatamente alla discriminazione basate sull’origine etnica dei ricorrenti e di garantire il rispetto della loro vita privata. E , conclusivamente, è stato affermato che «violano l'art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e l'art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) le dichiarazioni denigratorie nei confronti dei Rom rilasciate da un membro del Parlamento, e che non possono ricondursi nell'alveo della libertà di espressione tutte quelle forme di opinione che, superando il limite della continenza, risultano denigratorie di una specifica origine etnica, in quanto dall'art. 14 CEDU deriva un obbligo positivo di perseguire tutte quelle manifestazioni lesive del diritto a non essere discriminati, anche qualora non sussista una ricaduta diretta sul ricorrente che si ritenesse parte lesa»[8].
6. La necessità di intervenire sul linguaggio ostile: il compito della formazione e della politica
Il peso delle parole deve diventare oggetto di costante riflessione e di sollecitazione rispetto alla consapevolezza della carica offensiva che possono contenere: i contesti nei quali vengono pronunciate sono fondamentali per la comprensione del loro significato e per il carattere insultante ed aggressivo che assumono. A ciò si aggiunge anche «l’effetto trascinamento» che alcune frasi possono determinare e che non deve essere sottovalutato.
Il linguaggio di odio, in più occasioni e con crescente intensità, è diventato un’arma sempre più letale soprattutto ove venga associato e veicolato attraverso i social network: esso si traduce in potenti forme di molestie portatrici di discriminazione amplificata.
Ancor più recentemente, si registra un altro importante e condivisibile intervento della giurisprudenza di legittimità (Cass. 16 agosto 2023 n. 24686)[9] con il quale la Corte di Cassazione ha ribadito la rilevanza negativa – e perciò censurabile – del linguaggio stigmatizzante: è stato, infatti, rigettato il ricorso proposto contro la sentenza della Corte d’appello che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva condiviso la valutazione di sussistenza di un comportamento discriminatorio e molesto, per ragioni di razza e origine etnica, nella condotta di un partito politico che aveva qualificato pubblicamente come “clandestini” trentadue richiedenti asilo che, giunti sul territorio locale, avevano avanzato domanda di protezione internazionale.
La terza sezione civile della Corte di cassazione, condividendo l’orientamento espresso dai giudici di merito, ha affermato che nella sentenza impugnata era stato correttamente posto in luce come il termine “clandestini” fosse stato riferito a persone straniere che avevano presentato allo Stato italiano domanda di protezione internazionale; ed ha osservato che ai sensi di quanto previsto dall’art. 1, commi 2 e 3, del decreto legislativo 18 agosto 2015 n. 142, le misure di accoglienza devono applicarsi fin dal momento della manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale, e che la presentazione di tale domanda implica il rilascio di un apposito permesso di soggiorno (per richiedenti asilo) che consente di svolgere anche attività lavorativa.
Pertanto, gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano, perché temono di essere perseguitati o perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese d’origine, di subire un «grave danno», non possono, a nessun titolo, considerarsi irregolari e non sono, dunque, «clandestini».
Sulla base di tali premesse, è stato affermato – in linea con la pronuncia dapprima esaminata - che “un termine come quello di cui si discute («clandestini») abbia assunto concretamente, nell’utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa; ciò non significa che esso non possa venire utilizzato nella sua originaria accezione strettamente lessicale, ma che il contesto della struttura sociale in cui esso si cala esige comunque, da parte di chi lo evochi, un’estrema attenzione. Se è vero, infatti, che uno dei valori fondanti della Costituzione repubblicana è quello della pari dignità delle persone, è anche vero che il termine di cui si discute può facilmente prestarsi (e indurre), specie se inserito in un contesto verbale come quello del manifesto in questione, ad abusi i quali, creando un clima «intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo», si risolvono appunto in un comportamento discriminatorio.
L’orientamento consolidato espresso dalle pronunce esaminate induce ad una attenta riflessione sulla necessità di adottare messaggi educativi volti a prevenire un linguaggio che esprima stigma ed emarginazione nei confronti delle “persone” e che fomenti un clima di odio che spesso degenera in atti violenti ancora più gravi.
Al riguardo, la “politica” dovrebbe farsi carico di tale compito ed evitare di essere, essa stessa, protagonista di comportamenti del genere; e la scuola e l’università dovrebbero svolgere una costante attività educativa, in tal senso necessaria per riaffermare l’importanza del linguaggio come strumento di comunicazione (e non di aggressione) indispensabile per lo sviluppo della democrazia: la compianta scrittrice Michela Murgia si era espressa magistralmente sulla valenza negativa delle “parole ostili” e ci lascia in eredità il compito di impegnarci per contrastare le degenerazioni alle quali stiamo assistendo[10].
[1] Il primo post aveva seguente testuale tenore: «Che mi vengano ancora a riempire la testa con tante belle parole per i più bisognosi… che mi vengano ancora a giustificare la presenza di certi individui nel nostro paese, di zingari, non rom, ma zingari di merda, zecche e parassiti capaci di spolpare tutto, di connazionali criminali che andrebbero usati come esche con i piranha (… ) vi auguro calorosamente che, cercando di rubare qualcos'altro, una tagliola possa mozzarvi le mani non all'altezza del polso ma sopra il gomito cosicché la maglietta possa coprire lo scempio che vi ritrovereste ad essere.. inoltre, mi farebbe alquanto schifo vedere i monchi penzolanti ai semafori mentre chiedete l'elemosina con i piedi. Che possa per te\voi essere un 2018 pieno di cure e che i soldi guadagnati da questo furto possano servire per comprare medicine contro un brutto male al sedere … ringrazio la #Boldrini per avere un grande cuore aperto verso prossimo oltre alle...»).
[2] Il secondo post aveva il seguente testuale tenore: «Festeggiamo un popolo che proprio come dice la parola “nomade” dovrebbe muoversi continuamente, il vero risultato è che le zecche stanziano in campi abusivi dalla giovane età alla vecchiaia vergogna!».
[3] I precedenti richiamati sono Cass. civ. n. 10280 del 2018: «In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su "Facebook" di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone»; Cass. pen. 25.1.2021 n. 13979: «La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicità" diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone»; nello stesso senso Cass. pen. n. 2251 del 2023. Inoltre, Cass. pen. 6.12.2021 n. 4534 ha ritenuto che tale comportamento possa perfino integrare il reato di istigazione all’odio razziale, di cui all'art. 604-bis, comma secondo, cod. pen. (propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa) ed ha affermato, in proposito, l’idoneità, in tal senso, anche dell’inserimento di un like o il rilancio di un post dalla bacheca della propria piattaforma social, per l'elevato pericolo di diffusione di tali contenuti ideologici tra un numero indeterminato di persone derivante dall'algoritmo di funzione dei social network, che aumenta il numero di interazioni tra gli utenti.
[4] https://europa.eu/rapid/press-release_IP-13-1226_it.htm
[5] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A61988CJ0177
[6] Cfr. CGUE 16 luglio 2015, C-83/14, Chez in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/?uri=CELEX:62014CJ0083. Fra i principi pronunciati in tale pronuncia, la CGUE ha affermato che «una siffatta misura può essere oggettivamente giustificata dalla volontà di garantire la sicurezza della rete di trasporto dell’elettricità e un corretto rilevamento del consumo di energia elettrica soltanto a condizione che detta misura non ecceda i limiti di quanto è appropriato e necessario alla realizzazione di tali finalità legittime, e che gli inconvenienti cagionati non siano sproporzionati rispetto agli scopi così perseguiti. Ciò non avviene se si accerta – circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – che sussistono altri mezzi appropriati e meno restrittivi che consentano di raggiungere dette finalità, oppure, in mancanza di questi altri mezzi, che detta misura pregiudica in maniera sproporzionata il legittimo interesse degli utenti finali di energia elettrica residenti nel quartiere interessato, prevalentemente popolato da residenti di origine rom, ad avere accesso alla fornitura di energia elettrica a condizioni che non possiedano un carattere offensivo o stigmatizzante e che consentano loro di controllare regolarmente il loro consumo di energia elettrica».
[7] http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-86798.
[8] https://www.lawpluralism.unimib.it/oggetti/769-budinova-e-chaprazov-c-bulgaria-n-12567-13-corte-edu-quarta-sezione-16-febbraio-2021
[9] Cfr. Cass. 16 agosto 2023 n. 24686 che ha respinto il ricorso della Lega Nord avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, conforme alla pronuncia di condanna del Tribunale di Milano, sez. Saronno, sulla seguente vicenda. Una locale società cooperativa aveva concordato con la Prefettura di Varese di mettere a disposizione una struttura sita in Saronno per accogliere 32 richiedenti asilo. A seguito di ciò, era stata organizzata dalla Lega Nord di Saronno una manifestazione in occasione della quale erano stati affissi nel territorio comunale circa 70 cartelli, recanti il simbolo del partito Lega Nord, con il seguente contenuto: «Saronno non vuole i clandestini; Renzi e Alfano vogliono mandare a Saronno 32 clandestini: vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo, ai saronnesi tagliano le pensioni ed aumentano le tasse; Renzi e Alfano complici dell’invasione». Quei cartelli erano rimasti affissi per circa un mese e il segretario della Lega Nord di Saronno aveva rilasciato dichiarazioni relative all’opposizione all’accoglienza dei clandestini.
[10] Michela Murgia, 2018, Lectio magistralis per l’incontro Parole O’Stili, https://paroleostili.it/stampa/michela-murgia-con-parole-ostili-il-linguaggio-dellodio-questi-tempi-di-violenza-2-0/