La Cassazione, con la sentenza del 25 giugno 2019, dep. 3 settembre 2019, n. 21995, si è pronunciata di nuovo in tema di esecuzione forzata su beni di uno Stato estero.
La controversia riguarda la realizzazione del credito di un ente greco, a seguito della strage di Distomo del 1944. Il titolo esecutivo, una sentenza greca resa esecutiva in Italia, è lo stesso fatto valere nella vertenza su Villa Vigoni, un immobile in Lombardia, decisa da Cass. 26 ottobre 2017, dep. 8 giugno 2018, n. 14885. Stavolta non c’è un’esecuzione immobiliare ma un pignoramento presso terzi: i crediti che la Deutsche Bahn vanta nei confronti di Rete ferroviaria italiana e di Trenitalia.
La nuova pronuncia, al di là degli aspetti procedurali contingenti, si segnala, oltre che per l’attenzione al rapporto fra giurisdizione e titolo esecutivo, anche per alcune affermazioni a tutela di tutti i soggetti creditori degli Stati, che è bene sottolineare.
Anzitutto, nel percorso motivazionale c’è un’osservazione che sembra riguardare solo il passato, e invece ha un senso più ampio. Il suo presupposto è la decisione della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012, che aveva sancito l’immunità statuale nella sua massima estensione. La Cassazione dice: «La sentenza della Corte internazionale di giustizia non vincola direttamente, siccome resa in una controversia tra soggetti di diritto internazionale quali due Stati sovrani (quali la Repubblica federale tedesca e la Repubblica italiana, con intervento volontario di un terzo, la Repubblica ellenica), né i soggetti, né gli organi, tra cui quelli giurisdizionali, di cittadinanza di uno di quelli, essendo gli uni e gli altri assoggettati soltanto alle norme di diritto interno o nazionale: tant’è vero che è stata necessaria una legge di recepimento» [1].
L’osservazione è limpida e fa pensare all’antico ubi lex voluit dixit: è stata la legge 14 gennaio 2013 n. 5 (Adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni), a stabilire quell’ingresso delle decisioni de L’Aia nell’ordinamento italiano. Quindi, in precedenza non era così. Viene da ritenere che dopo il provvedimento de L’Aia del 2012 e prima della legge, per un anno, i giudici italiani potessero già considerare la decisione della Corte internazionale come un punto di vista, per quanto autorevole, senza effetti vincolanti. E ciò, anche tenendo conto del fatto che a L’Aia ai creditori non era stata data la possibilità di comparire, sicché un effetto vincolante avrebbe reso operativo nei loro confronti l’esito di un processo in cui non avevano potuto difendersi. Va detto che in quel periodo, da febbraio 2012 a gennaio 2013, in Italia nessuna pronuncia prese questa direzione. Resta, per il presente, l’orientamento di fondo: quell’ingresso delle decisioni de L’Aia nel diritto interno non deriva da altre norme, evidentemente neppure dall’art. 10 della Costituzione.
Quanto a oggi, con la sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale proprio dell’art. 3 della legge del 2013 n. 5, e dell’art. 1 della legge 17 agosto 1957 n. 848 (Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite), «nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia (CIG) del 3 febbraio 2012, che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona». Ora, dunque, quando si tratta di crimini di guerra e contro l’umanità, la giurisdizione nei confronti di uno Stato estero è certa, e su questo, in via generale, la pronuncia di quest’estate non sembrerebbe contenere rilevanti novità.
Ma adesso, a protezione dei titolari di questi crediti, la Cassazione colloca un ulteriore, robusto argomento: «L’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii costituisce una prerogativa (e non un diritto) riconosciuta da norme consuetudinarie internazionali, la cui operatività o applicabilità in Italia è comunque preclusa nel nostro ordinamento, a seguito della sentenza della Corte cost. n. 238 del 2014, per i delicta imperii, per quei crimini, cioè, compiuti in violazione di norme internazionali di ius cogens, siccome lesivi di valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali (in tali espressi termini: Cass. Ss.Uu. 29 luglio 2016, n. 15812; Cass. Ss.Uu. 28 ottobre 2015, n. 21946). Ne consegue che i giudici italiani, sia quelli investiti del giudizio di cognizione che quelli incaricati dell’esecuzione dei titoli giudiziali legittimamente formati in base alle regole di rito, hanno il dovere istituzionale, in ineludibile ossequio all’assetto normativo determinato dalla sentenza n. 238 del 2014 della Consulta, di negare ogni esenzione da quella giurisdizione sulla responsabilità altrove riconosciuta che fosse invocata davanti a loro, tanto nella sede propria del giudizio di cognizione o di delibazione della sentenza straniera, quanto nella sede […] dell’esecuzione forzata fondata su questa» [2]. Molto chiaro: gli effetti della sentenza del 2014 non riguardano solo il processo di cognizione, ma anche quello di esecuzione.
La precisazione è importante perché si era sentito qualche dubbio, nel senso che la limitazione dell’immunità degli Stati dovesse riguardare solo il processo di cognizione. Come se, di fronte alla lesione di diritti inviolabili della persona, si riconoscesse alle vittime la possibilità di veder riconosciuta la sussistenza del diritto al risarcimento, non quella di ottenere il pagamento. Una limitazione del genere andrebbe contro il dettato della Consulta e finirebbe per svuotarlo di senso: «Fra i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale vi è il diritto di agire e di resistere in giudizio a difesa dei propri diritti riconosciuto dall’art. 24 Cost., in breve il diritto al giudice. A maggior ragione, poi, ciò vale quando il diritto in questione è fatto valere a tutela dei diritti fondamentali della persona. […] Il diritto al giudice e a una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili è sicuramente tra i grandi principi di civiltà giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo» [3].
Quest’anno in un convegno al Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, Giuseppe Tesauro, nel 2014 presidente della Corte costituzionale ed estensore della sentenza, ha ribadito la necessità che la tutela dei creditori sia effettiva: «Se hanno il diritto riconosciuto dall’ordinamento ad avere una soddisfazione, nel caso di specie un risarcimento del danno, che se ne fanno, lo mettono al muro, lo mettono lì, fanno un bel quadro di questo diritto, per guardarselo, oppure possono farlo valere davanti a un giudice? E che cosa rimane del diritto – questa frase voi la ritrovate nella sentenza della Corte costituzionale – che cosa rimane di un diritto, se non può essere fatto valere davanti al giudice?» [4].
Questa decisione della Cassazione, insomma, senza cedere a timidezze interpretative, riconferma e arricchisce le conquiste giuridiche della Corte costituzionale di cinque anni fa, poi seguite dalla più consapevole giurisprudenza.
[1] Cass., 25 giugno 2019, dep. 3 settembre 2019, n. 21995, par. 14.
[2] Cass., 25 giugno 2019, dep. 3 settembre 2019, n. 21995, parr. 22 e 23.
[3] Corte cost., 22 ottobre 2014 n. 238, par. 3.4.
[4] Convegno Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l'ambiguità, https://www.youtube.com/watch?v=gpDYeJPX4gU.