«Se ho sempre odiato il dolore, questa impossibilità di senso, ho odiato ancora di più l’ingiustizia, e più ancora chi il dolore lo infligge deliberatamente a qualcun altro, il potere, qualunque potere, usato contro chi non ha strumenti per difendersi».
Paterlini lo fa dire al suo protagonista, tornato nel paese dove è cresciuto per una cena di classe che sa di regolamento di conti, a distanza di molti anni da una infanzia fatta di bambinate, come si tende a sminuirle, di branco contro il più debole, di crudeltà da dimenticare, di pulsioni represse e di adulti che non vogliono vedere cosa succede sotto i loro occhi.
L’autore è da sempre attento alla ricchezza e alle fragilità della gioventù. Ragazzi che amano ragazzi si intitola un suo libro di interviste che, nel 1991, indagava il mondo dell’adolescenza, la scoperta dell’omosessualità, le timide speranze e le enormi paure dei giovani di fronte a temi all’epoca ancora inesplorati nel nostro Paese.
Nel suo nuovo romanzo ci fa incontrare un gruppo di bambini, come tanti, senza edulcorarne però i tratti più feroci. Li ritroviamo poi adulti, ormai schermati dai propri ruoli sociali rassicuranti, ma non per questo meno crudelmente inconsapevoli.
A fare da sfondo c’è una provincia emiliana che mi ricorda Pier Vittorio Tondelli, anche per il senso, tutto umano e insieme profondamente religioso, di una Via Dolorosa che la vittima delle angherie dei coetanei deve percorrere verso il suo Calvario di umiliazione.
Ha ragione il protagonista: la sopraffazione del debole è odiosa, quante volte ce lo ripetiamo, ravvisandola anche là dove ce la aspetteremmo bandita senza eccezioni? Eppure la via per non esercitarla è tanto stretta e non battuta da richiedere una quotidiana assunzione di responsabilità. Uno sforzo di coerenza e di empatia che costa il superamento della troppo umana propensione a porsi dalla parte di chi ha la forza.
«L’odore del sangue che fa accanire le belve su chi è già a terra ferito, ecco, questa è la puzza che sento io, sempre, la puzza cui non mi abituo, la puzza che mi dà il voltastomaco».
E l’io narrante, persino lui che sa definire così chiaramente questo orrore, ne è stato parte e tornerà, forse, nel finale, ad esserne stordito, senza attenuanti.
Il romanzo breve, ma durissimo, di Paterlini scuote profondamente e riporta a galla, solo che se ne abbia la forza, il dolore annidato al fondo delle nostre infanzie perfette, lì dove siamo stati vittime o carnefici, ad ogni modo parti di un ingranaggio crudele che qualcuno sostiene insegni come va il mondo, ma serve soprattutto a perpetuare un mondo in cui l’altro, il diverso, il difforme, non possono avere piena cittadinanza.
Il veleno di Bambinate può essere allora un antidoto in grado di svegliarci dal torpore in cui troppo spesso ci crogioliamo. Non una predica, ma uno stimolo alla consapevolezza. I bambini che eravamo hanno sofferto e fatto soffrire. Ora sono adulti che portano i segni di quel remoto passato, ma possono scrollarsene di dosso le scorie. E forse provare a sperimentare, a differenza del protagonista, la possibilità di essere migliori.