Tra le casualità che costellano la nostra vita, la prima è senza dubbio il luogo in cui nasciamo. Un contesto affettivo, sociale, culturale che si protende con prepotenza sul futuro. Il tentativo di emanciparsi è uno degli sforzi più complessi cui l’uomo è chiamato, per desiderio o necessità, come a sovvertire un destino già scritto.
La storia delle migrazioni è l’emblema di questa tensione, lotta tra rifiuto e accoglienza, sforzo di comprensione dell’altro e desiderio dell’accettazione di sé. Molto spesso, come quotidianamente riportano le cronache, non è una storia a lieto fine.
Come da tempo immemorabile solo i libri sanno narrare, lo straniero non è predestinato al rifiuto e alla morte. Nausicaa introduce Ulisse nel regno dei Feaci e ad Enea viene promessa la mano di Lavinia, la figlia del re dei Latini. Episodi di stranieri, esposti alle violenze della natura e degli uomini, che vanno alla ricerca di riparo, con una rappresentazione mitologica che nella accoglienza prefigura un futuro glorioso. La legge naturale sembra tracciare una linea opposta a quella iscritta nel codice degli uomini, almeno nei codici di oggi.
Nel patrimonio sterminato di narrazioni lo straniero è normalmente l’oggetto del racconto o un io narrante collocato in un mondo diverso dal suo. L’alterità è l’in sé della storia, i poli restano separati, come in una combinazione chimica che può avvicinarli o respingerli ma non ne snatura la consistenza.
Elvira Mujčić, con una biografia costellata da vicende tortuose e a tratti dolorose, traccia un percorso letterario molto particolare. Nata nel 1980, neppure adolescente fugge dalla Bosnia con la madre ed i fratelli per via della guerra che insanguina la Jugoslavia, ove perde nell’eccidio di Srebrenica (luglio 1995) il padre ed uno zio. Resta in Italia ove frequente le scuole, si laurea in lettere moderne, gira diverse città. Attraversa tappe di crescita complesse, tra difficoltà di inserimento, ristrettezze economiche, nostalgia della terra natia, con dietro le ferite della guerra e la morte dentro casa.
Scrive storie e romanzi intrisi di elementi autobiografici. Accanto ai riferimenti storici e ad una immaginazione che si sprigiona in narrazioni che spaziano tra passato e presente con una profonda introspezione psicologica, vi sono interessanti risvolti letterari. Sono storie che aiutano tutti noi a mettere in luce, al di là di stereotipi e semplificazioni, che cosa significhi per un ragazzo “straniero” - in questo caso una ragazza europea proveniente da un paese a noi prossimo, all’epoca in preda ad una violenta guerra civile - crescere in un paese diverso, crescere in Italia.
Vi è un tema che ricorre con forza ed è quello della lingua: Elvira Mujčić scrive in italiano, una lingua diversa da quella materna, appresa nei primi anni di vita, con cui ha imparato a leggere, scrivere, giocare, comunicare con adulti e bambini, in altre parole con cui misurare le proprie reazioni emotive alla vita. Non vi è dietro solo uno sforzo di apprendimento ed una attitudine intellettuale importanti, forse peraltro neppure così complessi per chi si affaccia nel paese ospitante sulle soglie dell’adolescenza. Vi è la immedesimazione in un mondo che un po’ alla volta diventa il proprio, senza che si perdano le proprie radici ma con una osmosi che nasce dalla necessità di proiettarsi nel futuro. Un percorso di crescita in cui la lingua non è tratto identitario ma mezzo di comunicazione, che rende capace di esprimersi fuori dalle coordinate in cui potrebbe imbrigliarci la nostra storia individuale.
Il tema della lingua è al centro di uno dei romanzi, La lingua di Ana (Edizioni Infinito, 2015), storia di una adolescente moldava catapultata in Italia, dove vive la madre che lavora come badante. Nello scontro tra ripudio della nuova realtà e ricordo nostalgico (della propria terra, delle nonne, del papà), cui fa da contraltare l’impulso ad essere accettata, la lingua diventa fattore di spaesamento, per la difficoltà ad esprimersi, ma anche mezzo di rifugio: «C'è un detto secondo cui un uomo che parla due lingue vale due uomini. E quello che parla metà di una e metà di un'altra, vale un uomo? O ne vale mezzo?» è l’interrogativo che accompagna Ana, la protagonista di questo breve romanzo, dove la lingua possiede un potere evocativo e al contempo alienante, che accoglie e respinge. L'incapacità di esprimersi si tramuta in difficoltà di esistere, ma offre dentro di sé la possibilità di reinventarsi. È sintomatico come nella storia di Ana la capacità di esprimersi compiutamente in italiano si realizza nel momento in cui ritrova uno spazio di serenità, quasi che la padronanza del linguaggio sia il riflesso della riconciliazione con il mondo esterno, una variabile che dipende dall’accettazione di sé e dalla reciproca comprensione. Si parla bene una lingua alla fine se si è in grado di comunicare qualcosa, sembra insegnarci questo romanzo. L’uso della lingua non è esercizio stilistico o sfoggio di erudizione, ma messaggio che transita da una voce all’altra e per fare questo occorre che vi sia interesse, disponibilità, reciproca capacità di ascolto. L’alternativa è il mutismo o il parlare «metà di una lingua e metà di un’altra», come capita alla giovane protagonista del romanzo. E questo vale sempre, ma soprattutto per chi si affaccia alla vita, come un bambino o un adolescente, con le difficoltà della crescita, la paura del presente, la ricerca della felicità.
Consigli per essere un bravo immigrato (Elliot edizioni, 2019) costituisce nella sua essenzialità stilistica e narrativa un testo di straordinaria attualità per calarsi nelle dinamiche psicologiche dello straniero che cerca di inserirsi nel nostro paese. Sul filo di una ironia sottile racconta la storia di Ismail, un ragazzo gambiano che aspira a regolarizzare la propria posizione in Italia con il riconoscimento del permesso di soggiorno e, come uno studente diligente, si presenta dinanzi alla commissione che deve esaminare la sua storia. A nulla vale la buona padronanza della lingua italiana, una relazione favorevole del centro di accoglienza, un contegno irreprensibile, perché la sua storia non viene creduta, ma bollata come non credibile. È la storia della fuga di un ragazzo giovane, che la casualità del destino aveva imbrigliato nelle maglie di una dittatura feroce da cui a fatica e attraverso pericoli gravi era riuscito a staccarsi. Una narrazione di spaesamento e di solitudine, di cui i giri solitari sugli autobus di Roma sono la rappresentazione simbolica. Ma anche, allo stesso tempo, un monito per chi esercita funzioni amministrative nel delicato settore della immigrazione: la denuncia sottesa a questo racconto è la casualità nella applicazione della legge, la percezione della mancanza di criteri, l’abbandono del singolo al suo destino nella estemporaneità di una decisione imprevedibile. Resta solo uno spiraglio nelle maglie che legano un passato di violenza ad un presente di burocrazia cieca: sono le poche donne e uomini che formano una rete di solidarietà, di assistenza sociale e legale, e con tratto benevolo e consapevole supportano il giovane Ismail. In un paese soffocato da indifferenza e ostilità, sono il respiro affannoso che anela alla giustizia e alla bontà.
Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica (Infinito edizioni, 2007) è la narrazione intensa e commuovente della storia di Elvira Mujčić e della sua famiglia, vissuta nella città simbolicamente assurta a centro del più grave eccidio compiuto in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale: nel luglio 1995 un numero imprecisato di bosniaci musulmani (non meno di 8 mila, secondo alcune stime sino a 12 mila) viene trucidato dalle milizie serbe capeggiate dal generale Ratko Mladić, sotto gli occhi dei caschi blu delle Nazioni Unite. Un crimine contro l’umanità ma anche una macchia indelebile per le Nazioni Unite.
E così il racconto autobiografico si dipana con le prime tensioni a sfondo etnico, incomprensibilmente emerse agli occhi della bambina da un mondo vissuto sino allora in pacifica armonia; seguono le avvisaglie della guerra, con le prime manifestazioni di violenza; l’insorgere della guerra fa da sfondo alla fuga dalla terra natia, ma senza il padre che morirà nell’eccidio di Srebrenica; quindi la ricostruzione lunga e faticosa di una vita in Italia; infine, il viaggio di ritorno, quando la guerra è cessata ma i segni delle ferite lontani dall’essere rimarginati.
L’impressione di un lungo viaggio iniziatico lungo i perigli della vita rischia di non dare giustizia ad una narrazione che non è frutto di fantasia, ma rappresentazione autentica di una storia dai contorni terribili: la guerra in Europa, in un paese direttamente confinante con l’Italia, che si sfalda repentinamente in un periodo storico, gli anni ’90, pure definiti come epoca di «fine della storia», con la fine della guerra fredda, la sconfitta del comunismo e l’ingenua convinzione di un primato inscalfibile di capitalismo e democrazia. Sinistra prefigurazione dei tempi attuali.
In realtà, la narrazione restituisce molto anche di positivo e sembra trasferire un tocco di ironia e di desiderio di allegria e vitalità che l’autrice, protagonista della storia, incarna molto bene, derivandole proprio dalle radici del popolo bosniaco, gioviale ed accogliente come solo un popolo abituato alla diversità sa essere. Questo libro, fuori da un titolo che riflette il caos esteriore del mondo ed interiore dell’autrice, dona la freschezza di una crescita sana, la descrizione di un cammino esistenziale che pur tra tante avversità non si ferma ma progredisce con vivacità, curiosità ed intelligenza. Costellano la storia le amicizie, gli studi, gli amori vissuti dalla protagonista, come le letture e la musica che tra gli anni ’90 ed i primi del 2000 hanno animato la vita in Italia, riportando ad un clima di normalità, che pure nelle situazioni estreme si riesce alla fine a ricreare. La vita, in quegli anni, è stata anche questo e viene rappresentata con freschezza e genuinità.
La buona condotta (Crocetti Editore, 2023) è l’ultimo dei romanzi scritti da Elvira Mujčić. La narrazione si fa qui più distante dall’impronta autobiografica anche se ricrea, in un contesto di prossimità alla sua esperienza di vita, il conflitto generato dalla coesistenza di due popoli. In un fazzoletto di terra tra Serbia e Albania, il Kosovo, convivono due popolazioni, serba e albanese, sotto l’egida delle Nazioni Unite, dopo una guerra cui non sono seguite le premesse per una pace duratura. In questo contesto, alla ricerca di una normalità esistenziale che passa anche attraverso equilibri istituzionali ed un buon funzionamento della macchina pubblica, viene narrata l’elezione come sindaco di una piccola città di un cittadino serbo, che cerca di stabilire una armoniosa gestione della amministrazione, allontanando le rivalità serpeggianti tra le due etnie. Il suo lavoro viene messo a dura prova dalle interferenze politiche di chi pretende comunque di condizionarne le scelte, alimentando tra la popolazione paura e diffidenza. Una tensione mai sopita tra popolazioni incapaci di vivere l’una accanto all’altra, dove un episodio apparentemente inspiegabile, la profanazione di tombe di defunti serbi, fa esplodere rabbia ed un desiderio di reazione che il sindaco non riesce a governare, serpeggiando tra la popolazione la ferma convinzione che il tutto sia opera degli albanesi. Senza prove ma riattivando mai sopiti impulsi di rivalsa si diffonde tra la componente serba l’infezione psichica della paranoia. L’epilogo, una beffa tanto sorprendente quanto tagliente rispetto alle ombre che offuscano la mente di una intera popolazione, riporta su un piano di realtà, restituendo l’importanza di una visione essenziale e ragionata delle cose. Dietro un messaggio ideale di indubbia attualità di fronte alle tempeste politiche del presente ed ai rischi di manipolazione delle masse, il libro racchiude un profondo valore letterario per gli elementi simbolici da cui la narrazione è intrisa. Non sono casuali neppure i nomi dei protagonisti, dove il sindaco si chiama Miroslav, che significa “colui che ama la pace” e la protagonista femminile è Ludmila “cara alla gente” ma anche “cara alla follia”.
Un intreccio di destini che è il coro dell’umanità, ognuno cerca la sua strada, poi la storia ci guida dove può.