C’è sempre qualcosa di crudele nella morte improvvisa e inattesa di un ragazzo di quarant’anni. Come un senso di ingiustizia profonda che si accompagna allo sbigottimento. Non è facile perciò riflettere sulla figura di Alessandro Leogrande a poche ore dalla sua fine. Chi lo ha conosciuto ricorderà per sempre la sua energia ironica, la sua passione lucida, l’affilata concisione dell’argomentare. Doti tutte non da poco, in questo tempo in cui i giusti sembrano essere ossessionati da prudenze eccessive e timori diffusi. Ecco, Alessandro Leogrande era un ragazzo generoso che non si faceva paralizzare dai calcoli del contingente, ma aveva una visione. Alessandro Leogrande era di quelli che stanno dalla parte giusta per istinto, verrebbe da dire: per un’innata abilità nel riconoscere a prima vista le ragioni dei deboli, per il coraggio nello schierarsi, per la forza nel difendere posizioni anche impopolari. I suoi scritti su Taranto e sui migranti sono fra i contributi più profondi, e nello stesso tempo laici, che si possano leggere su argomenti centrali del nostro presente: il rapporto fra territorio e industria, salute e lavoro, il concetto di frontiera al tempo del Mediterraneo rosso sangue, l’ipocrisia delle istituzioni e gli slanci accorati degli individui.
Alessandro Leogrande è stata una delle voci più alte della sua generazione. Qualche giorno fa ci eravamo sentiti per lavorare intorno a un progetto per il prossimo salone del libro di Torino. Una piccola rappresentazione teatrale per celebrare i 40 anni dall’uccisione di Aldo Moro. Su quel grande buco nero della storia italiana Alessandro scrisse un racconto bello, nobile e inquietante, “Le maschere di San Giovanni”. Parlava del suo incontro con un antico ministro della Prima Repubblica e rievocava, nello struggente finale, lo scenario di via Fani. Uno scenario nel quale si aggira, tanti anni dopo, un giovane che non ha perso la speranza nella possibilità degli uomini di migliorare, di cambiare le cose. Ricorda, quel giovane, certe riflessioni del Moro prigioniero su un tempo che, dalla sua cella, non riusciva più a controllare, e che sapeva del presagio di una morte annunciata. Ecco cosa scriveva Alessandro: «Questa società è irrazionale. Irrazionale quella di allora, irrazionale quella che ne è discesa. Era questa – ora mi è chiaro – la più acuta paura di Moro, nel mezzo della tragedia che andava consumandosi. La paura che questa società, prima ancora di essere ingovernabile, sia incomprensibile. Incomprensibile nella sua ilarità e nella sua ferocia, nella sua frenesia e nella sua vischiosità, nei suoi silenzi come nelle sue urla scomposte, e infine nei suoi delitti e nelle sue bombe, e nella torma di non detti e omissioni intorno a quei delitti e a quelle bombe, tanto da far arrestare la ragione, ogni ragione, alle soglie del suo giudizio». Ecco. Cercare il filo della ragione in questa dimensione dell’assurdo è stata la missione alla quale Alessandro ha consacrato questa sua vita stroncata troppo presto. Cercarlo, questo filo, con l’unico scopo di metterlo a disposizione di noi tutti. Addio. Che la terra ti sia leggera.