È quasi inevitabile una domanda: perché i magistrati scrivono libri? E perché, quando li scrivono, partono – quasi sempre e quasi fosse un percorso obbligato – da ambientazioni giudiziarie?
Le risposte possono essere molte, ma, forse, qualcuna è più vera di altre. Un magistrato – nel corso della sua esperienza professionale – è investito da una “quantità di vita” che, spesso, è difficile contenere. Mille persone e mille storie affollano quotidianamente la sua scrivania e, talora, lo invadono nel profondo. E questo, per un magistrato minorile, è ancora più vero. Non di rado, il magistrato – che, per lavoro, su quelle vite deve (ha la responsabilità istituzionale di) intervenire – sa di avere pochi strumenti e sa che i suoi interventi, che pure incidono in modo pesante su molti destini, non sempre creeranno giustizia. Più spesso ancora, il magistrato intuisce che la storia non è tutta lì, non si chiude in quelle poche carte; c’è dell’altro, che il processo non consente di sapere o che – per i codici – non è nemmeno necessario sapere. C’è altro. E, allora, perché non scriverle in una storia tutte le cose che non si possono scrivere in una sentenza?
Ma veniamo al romanzo e, soprattutto, ai suoi protagonisti. Vito Calò è un adolescente, difficile come tutti gli adolescenti, ma con qualche problema più grande di altri: un’adozione fallita. La storia di Vito è quella di un bambino adottato, al quale – crescendo – la vita ha lasciato un grande senso di vuoto, molte domande sulla sua famiglia di origine, poco aiuto dalla sua famiglia adottiva – incapace di riparare quelle ferite – e un profondo desiderio, del tutto insoddisfatto, di giustizia. Nella testa di Vito saltano molti equilibri. In breve, Vito si trova a varcare nuovamente le porte del Tribunale per i minorenni, questa volta come imputato (e non, come anni prima, in qualità di minore da eventualmente dichiarare in stato di abbandono).
E qui, il destino di Vito si intreccia con quello di altri due protagonisti di questo romanzo. Moreno Rossi è un cancelliere; da giovane voleva fare il magistrato, ma non vi riuscì: fu cacciato dal concorso con l’accusa (ingiusta) di aver provato a copiare. Per inciso: il “vero copione” – quello per colpa del quale fu espulso dal concorso di magistratura – il cancelliere Moreno Rossi se lo ritroverà, ironia del destino, addirittura come Presidente del Tribunale per i minorenni.
L’altro protagonista adulto di questo romanzo è Salvatore Malavoglia, pubblico ministero minorile chiamato ad occuparsi del caso di Vito Calò. Salvatore Malavoglia (nomen omen) è un uomo che – come del resto il cancelliere Moreno Rossi – ha (ha avuto) grandi idealità, ottime letture, qualche ferita non del tutto rimarginata e, soprattutto, un presente che non è poi così entusiasmante.
A tratti, i due adulti di questo romanzo – Malavoglia e Rossi – sembrano sessantottini fuori tempo massimo… ma ancora capaci di lottare per le idee in cui credevano e credono.
Infatti, l’incontro con Vito Calò fa saltare gli schemi. Allorquando Vito varca le soglie del Tribunale per i minorenni come imputato, il cancelliere Moreno Rossi e il sostituto procuratore Salvatore Malavoglia intuiscono – in modo quasi irrazionale – che quello è un caso fuori dal comune. I due si industriano allora per “salvare” quel ragazzo; o meglio: si industriano per aiutare Vito a salvarsi da sé…; o, ancor meglio: si industriano per aiutare Vito a salvarsi da sé, incontrando gli altri…
Comincia allora l’avventura di Vito, che prende le mosse da una “normale” messa alla prova disposta nell’ambito di un giudizio minorile e che, in breve, per Vito diventerà (molto) altro: un percorso esistenziale, una pervicace ricerca della risposta alle proprie domande e una appassionata ricerca della propria famiglia di origine (finendo anche con l’incontrare la propria sorella, la cui adozione, a differenza di quella di Vito, ha avuto uno sviluppo decisamente positivo).
Si tratterà, dunque, di una messa alla prova fuori dal comune, che finirà con il coinvolgere non solo Vito. Non dico altro, perché, della storia, forse ho già detto troppo. Qualche riflessione ulteriore è, però, necessaria per dare indicazioni al lettore e per rendere giustizia alla fatica dell’autore…
Le avventure di Vito diventano le avventure di Moreno Rossi e Salvatore Malavoglia. La messa alla prova diventerà anche la “messa alla prova” per questi due adulti, sfidati da un incontro – quello con Vito – a vedere se sono ancora capaci di realizzare le idealità che, all’alba dei loro vent’anni, predicavano per le strade. Moreno Rossi e Salvatore Malavoglia accompagneranno Vito nel suo percorso, lo sosterranno, ne copriranno alcune cadute, violeranno qualche regola.
Fanno da contraltare tutti quei personaggi – tra loro, alcuni sono nascosti dietro una toga – che sceglieranno di restare adulti (nel senso deteriore del termine), continuando a ragionare su schemi per loro rassicuranti, sebbene decisamente poco utili per Vito.
Le avventure di Vito – quasi un romanzo di formazione – si snodano in un mondo che è il mondo dei nostri giorni. Il romanzo tratteggia con ricchezza di attenzione l’ambiente giudiziario (con i tic dei vari suoi protagonisti), ma si sofferma con non minore sensibilità su molte altre cose: la grande città, i quartieri post-operai, o comunque difficili, con tutte le contraddizioni – ma anche con la vitalità – che si trova in quelle strade e in quelle piazze. Ne nasce un intreccio di personaggi e di storie – quasi delle sottotrame – che, apparentemente eccentrici rispetto alla trama principale, costituiscono il luogo ove la messa alla prova di Vito prende davvero corpo e sostanza. È lì che Vito, Moreno e Salvatore fanno incontri con persone che, quasi necessariamente, lasciano il segno: i giovani, sempre instabili, ma pieni di vita; gli immigrati – di prima e seconda generazione – sempre in bilico tra due culture e sempre a rischio di essere vittime di pre-comprensioni; gli zingari e il loro mondo così diverso da tutti gli altri; le donne, cui l’autore riserva il particolare ruolo di fattore di cambiamento, di spinta a dare concretezza ai progetti. Tra le pagine del libro, si incontrano personaggi di ogni specie: quelli che non mollano mai – i ragazzi e gli idealisti – e quelli che si sono arresi alla vita; quelli che si mettono in gioco e quelli che rinunciano a giocare (perché, altrimenti, potrebbero perdere).
Tutti questi incontri cambiano progressivamente i protagonisti di questo romanzo che – pur attraversando talora in modo picaresco la nostra contemporaneità – non perde di vista l’obiettivo finale: la messa alla prova di Vito, che non è solo quella disposta nel processo, ma diventa quella imposta dalla vita; la messa alla prova di Moreno Rossi e Salvatore Malavoglia che sanno rispondere con coraggio e convinzione all’ulteriore chiamata che la vita rivolge loro…
Messa alla prova è un romanzo che non piacerà in tutte le sue parti. Ciascun lettore troverà qualche quadro più convincente e altri meno; qualche ritratto sarà troppo schematico e qualche altro sarà letto come profondamente vero. Ma, in fondo, la ricchezza di questo romanzo è proprio qui: al di là dell’intreccio o della solidità di alcuni passaggi, ciascun lettore ha la possibilità di trovare e riconoscere tra le pagine del libro – grazie all’occhio e alla sensibilità dell’autore – qualcosa di sé e del suo quotidiano di genitore, di cittadino e magari anche di giurista.
Il romanzo ha più chiavi di lettura e molti messaggi, gran parte dei quali hanno un rilievo esistenziale (e, sotto questo profilo, ciascuno cercherà – se lo vorrà – il messaggio che più lo coinvolge). Mi limito allora a dare conto del messaggio che, forse più da vicino, può interessare l’operatore giudiziario. Il magistrato minorile (ma il discorso vale per qualsiasi magistrato) si trova quotidianamente a contatto con il dolore dei minori, con il dolore e le difficoltà degli adulti e con una quantità di risorse che sono spesso troppo limitate per pensare realisticamente di riuscire a perseguire quello che, un po’ pomposamente, chiamiamo il best interest of the child.
Ci sono quelli – per fortuna pochissimi – che pensano che quel lavoro sia un lavoro come tutti gli altri; quelli che non alzano gli occhi per guardare in faccia un minore imputato o un genitore al quale stanno per togliere il figlio; quelli che pensano che quei destini siano già segnati; quelli che dicono che non ci sono le risorse.
E poi ci sono quelli che, invece, guardano negli occhi e che, nonostante la povertà di risorse, sanno che ci si deve provare, con fantasia, cuore e cervello; quelli che credono che l’interesse del minore possa essere perseguito; quelli che sentono di dover provare ad aiutare i minori a diventare persone libere, mature e, se possibile, perfino felici. Pur sapendo che molti di loro non riusciranno ad esserlo.
È per questo che trovo molto significativa la dedica che Ennio Tomaselli pone in esordio del suo lavoro: alle ragazze e ai ragazzi che ho incontrato nel mio lavoro. In questa dedica, c’è molto del magistrato e c’è molto dell’uomo sotto la toga: un saluto a tutti quei ragazzi incontrati in tanti anni di lavoro, condito – immagino io – dalla curiosità di sapere come se la sono cavata e l’invito a non mollare mai; invito a non mollare mai e, anzi, a sperare sempre che, d’altra parte, è uno dei messaggi di questo romanzo.
L’auspicio che la lettura di Messa alla prova alimenta è che ciascun operatore giudiziario sappia guardare i suoi interlocutori con altrettanta speranza e con la consapevolezza che la ricerca di soluzioni capaci di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della persona umana sono il compito dell’operatore giudiziario e non necessariamente una deviazione dall’ortodossia.