Tratto dal romanzo di Ian McEwan La ballata di Adam Henry (Einaudi, 2014), questo film parla di una giudice dell’Alta Corte di Londra (Sezione famiglia) che vede intrecciarsi la propria vita, giunta ad età matura, ad una crisi coniugale e ad un caso giudiziario molto coinvolgente.
Impegnata totalmente nel suo lavoro, non si è accorta che il marito, molto innamorato di lei, si è sentito defraudato dalla rarefazione della loro intimità sessuale e pretende ora, col consenso di lei, di avere un’avventura senza futuro con una giovane donna.
Il caso urgente che lei deve decidere è la richiesta di un ospedale, che ha in cura un giovane 17enne malato di leucemia, di poterlo sottoporre ad una trasfusione di sangue salva vita, benché il ragazzo ed i suoi genitori, Testimoni di Geova, vi si oppongano nettamente per motivi religiosi.
La giudice Fiona Maye taglia di netto – per il momento – col marito che va via di casa mentre lei cambia la chiave della serratura; e si dedica completamente al caso a lei sottoposto convocando le parti e svolgendo l’istruttoria in una udienza serale, data l’imminenza del pericolo di vita già per l’indomani: sente l’oncologo che le spiega la necessità assoluta dell’intervento; sente il padre del malato che con forza rivendica il diritto del figlio di opporsi ad una commistione di sangue che finirebbe per oltraggiare il loro Dio.
Ma qui, quando la procedura le indicherebbe di ritirarsi per decidere “secondo il benessere del minore”, la giudice opera una scelta del tutto irrituale e che lascia tutti stupiti: dispone di andare personalmente in ospedale per avere un contatto diretto col minore, non perché da lui possano venirle indicazioni (in quando minorenne non può esercitare diritti in termini di trattamento sanitario) ma per verificare se la sua posizione sia spontanea o non piuttosto eterodiretta, e se egli sia consapevole della particolare dolorosità della morte che lo attenderebbe.
Il colloquio avviene in presenza dell’assistente sociale che ben conosce Adam: il ragazzo è maturo ed intelligente, stupito di ritrovarsi davanti il proprio giudice; Fiona Maye è tenera nel rivolgergli le domande; i due si ritrovano, a fine colloquio, lui a suonare un pezzo al violino e lei a cantarne le parole tratte da una poesia.
La decisione segue immediatamente e decreta l’autorizzazione all’ospedale ad intervenire con l’emotrasfusione.
Ma la storia non si interrompe qui: Adam, ormai ristabilito, comincia a scrivere delle lettere a colei che lo ha salvato, lettere di riconoscenza, e comincia a seguirla. L’habitus professionale spinge Fiona Maye a respingere tutti questi tentativi di imbastire una relazione e tutto sembra sedato. Ma in una trasferta in uffici periferici di New Castle, la Maye si ritrova il giovane che le propone di andare a vivere da lei. Prima che l’abbandono sia a questo punto definitivo fra i due c’è un fugace bacio dall’enigmatico significato.
La storia evolve ancora, ma non è il caso di rivelarne il finale.
Piuttosto, soprattutto per spettatori giuristi, è il caso di notare come il desiderio del giudice di conoscere direttamente la parte sulla quale sentenzia sia più forte di qualunque procedura rituale che lo vieterebbe: vi si legge, al di là della maestosità tutta britannica del ruolo svolto, come un dubbio del giudice sulla propria legittimazione a decidere. Dubbio che cerca di colmare attraverso una conoscenza senza steccati del caso specifico da affrontare.
Ed è proprio questo l’aspetto più interessante del film (e del libro) perché, nei tempi attuali e in Italia, non è più solo il pubblico a mettere in discussione la legittimazione della magistratura, ma è essa stessa che si interroga sul ruolo ricoperto.
Torna alla mente ciò che avvenne, nel 1985, allorché Elvio Fassone, presidente della Corte d’assise di Torino, completò un maxiprocesso a imputati di origine catanese, poi definitivamente condannati per omicidio e associazione mafiosa, comminando vari ergastoli. Ebbene, come egli stesso ebbe poi a spiegare in un bellissimo libro (Fine pena ora, Sellerio, 2015) [1], nella notte seguente al pronunciamento del dispositivo, egli sentì il bisogno di un contatto epistolare irrituale con l’imputato che si era dimostrato più pericoloso degli altri; da qui l’inizio di una corrispondenza fitta durata ventisei anni che portò ad una relazione vera e sincera fra i due in cui ci si interrogò sul senso della pena.
Per chi ha visto il film e letto il libro di McEwan, balza evidente la maggiore profondità del romanzo rispetto alla pellicola: che va dalla descrizione dettagliata del mestiere di giudice della famiglia, sempre a contatto con nodi dolorosissimi da sciogliere; all’evoluzione del rapporto con il marito con interrogativi sulla propria responsabilità nella rottura; soprattutto, all’accorgersi di essersi pericolosamente avvicinata ad una parte, in spregio alle regole e alla propria forma mentis.
Ma nel film splende come una stella Emma Thompson, perfetta nell’incarnare il giudice irreprensibile, eppure tanto umano.
[1] R. De Vito, Fine pena: ora, in questa Rivista on-line, 21 novembre 2015, http://questionegiustizia.it/articolo/fine-pena_ora_21-11-2015.php