Lo cacciavano da scuola Salvatore, da tutte le scuole. Dal carcere che lo deve “rieducare”, da quei fortini che ha girato su e giù per la Penisola, Salvatore non può uscire. La legge non lo fa e non lo farà uscire, anche a distanza di anni, anche cambiato, anche “studiato”.
La storia vera che ci racconta Elvio Fassone, a dispetto del titolo – Fine pena: ora, Sellerio, 2015 –, riguarda un ergastolano; di quelli, poi, per i quali la pena realmente non finisce mai: gli ostativi.
La sensazione immediata è quella di trovarsi di fronte a un libro importante e necessario, in primo luogo per gli stimoli che infonde a chi ogni giorno, anche con ruoli diversi, si affaccia sul mondo della penalità e tenta di conciliare il carcere con la giurisdizione, le norme con le persone, le formule e i riti con la carne e la vita vere.
Un libro così, capace di commuovere e coinvolgere senza ricorrere a un filo di retorica o di bigotto paternalismo, lo puoi commentare solo con il ricorso a qualche citazione, che almeno ti aiuta a far arrivare a piccole e attraenti dosi la voce dello scrittore.
La storia prende le mosse dalla scelta di un giudice, l’autore stesso, che, il giorno dopo aver irrogato la pena dell’ergastolo, scrive d’impulso una lettera al suo ergastolano, al giovane boss catanese che già durante il processo aveva imparato a conoscere come uomo, oltre che come imputato. Come questa conoscenza sia stata possibile già durante il procedimento bisogna scoprirlo leggendo; è una scoperta appassionante, buona per scrollarsi di dosso le tristi sensazioni di una routine giudiziaria quotidiana dove troppo spesso l’imputato è “presente al giudice quale semplice entità metafisica, una sorta di contrappunto concettuale e anonimo alla nozione della contumacia”.
Da quella scelta, da quella lettera accompagnata anche dal regalo di un libro significativo, nasce una corrispondenza tra il giudice e Salvatore lunga ventisei anni. Lo scambio epistolare con il suo giudice ritma la vita di Salvatore, tra timide esaltazioni per i traguardi raggiunti e nere frustrazioni per una meta, quella del ritorno in società, che si sposta sempre in avanti senza arrivare mai. Per ventisei anni. Un tempo lungo, lo stesso necessario per arrivare, se si è ergastolani e si è stati bravi, alla liberazione condizionale.
Tuttavia per Salvatore quella libertà non può arrivare. Nel frattempo, infatti, lo Stato ha dovuto prendere le misure alla criminalità organizzata e in piena emergenza mafiosa è scattato il “giro di vite” dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario. In altre parole, se sei dentro per mafia e per una serie di altri (molti, troppi) delitti equiparati, non c’è rieducazione che tenga. L’unico modo per mettere il naso fuori dalla pena perpetua è collaborare con la giustizia, mettere in mostra una “disponibilità ad un atteggiamento processuale (in concreto: la denuncia di altri individui)” che con il reinserimento sociale “ha poco a che spartire” e che spesso neppure è umanamente esigibile.
Non ci si può fermare soltanto a evidenziare la profondità e l’autenticità delle riflessioni sul carcere, in cui ci imbattiamo scorrendo le immagini di una vita in galera.
Occorre, piuttosto, provare a riflettere sulle sensazioni che si sedimentano dopo la lettura e, soprattutto, accettare la sfida politica che l’autore lancia attraverso una postilla dedicata alle possibili modalità di superamento dell’ergastolo, pena diseguale per eccellenza.
Due riflessioni, prima di ogni altra. Chiuso il libro, ci si confronta subito con il pensiero forte che il fare giustizia non possa e non debba finire con la sentenza di condanna. Troppo spesso, al contrario, ci si accontenta di quel punto di arrivo. Per il dopo si accetta o si pretende che il muro della galera soddisfi i sentimenti della vittima, degradi sufficientemente il colpevole, tranquillizzi il buon senso. Una coazione a ripetere che, sinora, non ha portato più sicurezza, non ha ristorato le vittime, ma spesso, in compenso, ha fatto fuori le vite dei colpevoli.
Un mutamento di paradigma si impone, anche a partire da una considerazione ancora non unanime: dopo la sentenza c’è ancora bisogno di giustizia, di giudici, di giurisdizione.
C’è bisogno, poi, di conoscenza ravvicinata delle persone. E qui viene in mente il secondo importante lascito della lettura, che conduce a una considerazione da ribadire con forza: la conoscenza reale degli uomini che il giudice si trova davanti, in carcere come in tribunale, non fa male alla giurisdizione, non inquina il formalismo, non sporca la tabula rasa. Semmai, rende più efficace la giustizia penale, la fa assomigliare meno al dito puntato contro il capro espiatorio di turno e la traghetta in un campo dove, accanto alle responsabilità personali, vengono in rilievo anche quelle collettive e sociali. L’unica giustizia costituzionale è quella che si toglie la benda.
Rimane il tema della battaglia politica contro l’ergastolo, se non altro nella sua variante assoluta e ostativa. È una sfida culturale che merita risposte all’altezza, almeno in termini di impegno. Questa Rivista la accetta e intende portarla avanti con la riflessione culturale, l’analisi e la critica della giurisprudenza, la proposta normativa. Salvatore direbbe: lasci stare, ce lo detto che sono maledetto. E invece no.