Magistratura democratica
Magistratura e società

La pena e la sua crisi. Riflessioni su "Punizione" di Giovanni Fiandaca

di Riccardo De Vito
giudice del Tribunale di Nuoro

Un dialogo con i passaggi più significativi di G. Fiandaca, Punizione, Bologna, 2024. Un “piccolo libro” prezioso, un itinerario dialettico e mai dogmatico attraverso le forme e le ideologie della pena, che giunge sino alla contemporanea crisi di legittimità del diritto penale e alle domande suscitate dai modelli alternativi alla punizione

Punizione, di Giovanni Fiandaca, è un libro destinato a non invecchiare, tutt’altro che cronaca giuridica. Come già il titolo lascia immaginare, il lettore non si troverà di fronte a qualcosa di contingente, un commento della riforma del momento, ma a una riflessione a tutto tondo su quell’istituzione sociale complessa che è la pena.

Una piccola opera preziosa, il cui principale merito consiste nel porre sul tavolo l’esigenza di un riassorbimento della fenomenologia punitiva nel campo della progettualità culturale; nell’affermare, in sostanza, che la pena, in quanto prodotto storico e sociale, debba tornare a essere “pensata” e sagomata dalla politica, invece che assunta come marmoreo piedistallo dell’azione pubblica nella reazione al crimine. 

Pian piano, ma con una brusca accelerazione a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, abbiamo assimilato l’idea che il governo attraverso lo strumento materiale e simbolico del carcere costituisca «una straordinaria risorsa di legittimazione di un sistema politico incapace di performances significative e privo di una legittimazione sociale forte»[1]. In Italia, proprio a decorrere dagli anni Novanta del secolo scorso, le categorie della colpa e della pena hanno finito per monopolizzare la «costruzione sociale del disagio e del conflitto»[2] e la conseguente domanda di cambiamento e mobilitazione. In un tale contesto, tuttavia, la pena è stata assunta come qualcosa di predefinito e immutabile, manipolata dalla politica come le sfere di un pallottoliere: un elemento utile a conteggiare il consenso più che a eliminare il crimine, di cui mai (o poco) si sono indagate sostanza ed efficacia. 

Salvo sporadici tentativi, ha prevalso la rinuncia a ri-pensare i fondamenti antropologici e socio-giuridici del punire e a criticare la centralità del carcere. Semmai, è accaduto il contrario: è stato e continua a essere il binomio colpa-pena, acriticamente accettato come una sorta di postulato, a scandire in maniera determinante il respiro delle politiche, di governo come di opposizione. Sono così scomparse dall’orizzonte dei partiti, dei movimenti, delle istituzioni pubbliche e del dibattito generale quelle domande che rappresentano la pietra angolare su cui è costruito il libro: la punizione, nelle sue molteplici variabili e forme concrete, regge a una verifica empirica della sua efficacia? È possibile «concepire e progettare modelli non punitivi di risposta ai fatti socialmente dannosi» (p. 38)? L’intenzionale irrogazione di sofferenza per il male commesso rappresenta una costante antropologica mai superabile o una strategia sostituibile con qualcosa di diverso? 

Inutile dire che, in tutte le pagine, aleggia – più volte chiamato in causa – l’interrogativo di Gustav Radbruch: l’evoluzione del diritto penale andrà oltre il diritto penale o si limiterà a dar luogo a un diritto penale migliore?

Reimmettere la pena nel circuito del «coraggio riformistico», tuttavia, presuppone il recupero della politica a una dimensione di pensiero, possibilmente collettivo e partecipato. Le ultime pagine del libro lo affermano con una vivida polemica nei confronti del presente e una chiamata all’impegno: occorre, avverte l’autore, ricongiungere i ponti tra politica e cultura e riscoprire il ruolo del giurista come intellettuale pubblico ed engagé, immerso nella società, «capace di interloquire, con autorevolezza e credibilità, nel generale dibattito esterno, così da contribuire realmente a orientare le scelte in materia criminale» (p. 170). 

Questo obiettivo offre la cifra stilistica al libro, che non è rivolto ai chierici, ai giuristi di mestiere, ma a un pubblico di lettori non esperti. Dalle pagine scompare il linguaggio burocratico del diritto, con i relativi tecnicismi; anche le teorie filosofiche, sociologiche e psico-pedagogiche vengono addolcite (mai banalizzate) per renderle comprensibili al lettore non specializzato. Se il tentativo era quello di «distillare il succo di innumerevoli discussioni dottrinali» (p. 72) per offrire una riflessione comprensibile fuori dai recinti accademici, può dirsi riuscito. 

I ragionamenti di Fiandaca fanno balenare l’urgenza di confrontarsi con il dovere del giurista, in quanto intellettuale pubblico di questa epoca, di farsi capire meglio e di più dalla collettività o, detto altrimenti e senza alcuna enfasi retorica, di parlare al popolo. Sulla scia delle riflessioni della criminologia critica, è facile constatare come a mancare, nel campo della penalità penitenziaria, sia proprio la costruzione dal basso di una sensibilità costituzionale. È paradossale che le portatrici dell’ideologia carcerocentrica, in gran parte dell’Occidente, siano quelle classi disagiate che, a fini di controllo sociale più che di tutela di reali esigenze di sicurezza, vengono bersagliate dalle politiche repressive penali in percentuale incomparabilmente maggiore rispetto all’upper class. Nel nostro Paese, tutti i recenti sforzi di riforma e riscrittura delle norme sull’esecuzione della pena, coronati o meno da un successo, si sono condensati in commissioni o in esperienze nei quali giuristi illuminati – accademici, magistrati, avvocati – hanno dialogato tra di loro e con il palazzo. Questi tentativi hanno avuto un valore capitale, ma c’è da augurarsi che in futuro lo studioso della pena si ponga sempre di più nelle condizioni di farsi udire anche dalla società e, soprattutto, dai margini di essa, dalle periferie, da tutte quelle soggettività ormai abituate (ingannate) a credere che la propria occasione di riscatto esistenziale passi dalla punizione esemplare e dall’espulsione di altre minorità, di altre marginalità, di altri poveri. 

In questa direzione, Punizione apre un’ulteriore breccia a un protagonismo culturale e politico dei giuristi (diverso e opposto a quello di rincalzo, anche involontario, del populismo), che, soprattutto sulle sponde progressiste, dovrebbe essere coltivato[3].  

 

Una sintesi di Punizione – un itinerario dialettico e mai dogmatico attraverso le forme e le ideologie della pena, che giunge sino alla contemporanea crisi di legittimità del diritto penale e alle domande suscitate dai modelli alternativi alla punizione –, non è realizzabile e non è utile; oltretutto, priverebbe il lettore del gusto del viaggio attraverso le pagine. 

Preme dialogare, piuttosto, con i passaggi più significativi del saggio, a partire da quei riflessi autobiografici che ne costituiscono la «motivazione psicologica forse più profonda» (p. 15) e ne innervano la trama senza mai scadere a orpello. 

Come dichiarato dall’autore, l’urgenza di prendere la penna in mano è scaturita non soltanto dalla necessità di mettere ordine nel sapere e negli interrogativi accumulati in anni di insegnamento e ricerca sul diritto penale, ma anche dall’esperienza pratica di garante regionale siciliano dei diritti dei detenuti. È questa posizione che ha consentito a Giovanni Fiandaca di prendere atto «dei molti fattori che oggettivamente determinano un divario incolmabile tra la pena detentiva nella sua astratta configurazione costituzionale e la pena detentiva come viene di fatto per lo più eseguita», così sollecitando «un’esigenza di rinnovata riflessione sulla razionalità e sull’utilità delle sanzioni punitive considerate anche più in generale» (pp. 15-16). 

L’attenzione alla prassi punitiva detentiva permea tutto il volume. Scandagliate le premesse filosofiche, sociologiche e giuridiche del punire, gli occhi devono giocoforza abbassarsi sulla realtà della principale risposta sanzionatoria: il carcere. L’indagine sulla penalità effettiva giunge anche ad avvertire il bisogno di cedere la parola alla lettera di un detenuto, unico a poter raccontare in maniera autentica quella disumanizzazione che lo «sta mangiando dentro, piano piano» (p. 112). 

La denuncia di questo iato incolmabile tra pena detentiva astratta e sua esecuzione in concreto è importante perché vi si percepisce la confessione di una sorta di impotenza del giurista teorico: spiegare cosa sia davvero la pena carceraria è quasi impossibile senza accostarla da vicino; calatisi nella realtà, tuttavia, si colgono dinamiche «per lo più inespresse o poco trasparenti» (p. 84). L’inafferrabilità del carcere, che nel suo funzionamento concreto si sottrae per statuto sia alle prescrizioni della legge sia alle descrizioni dello studioso, è tale da sospingere l’istituzione penitenziaria quasi sempre un metro più in là di dove il teorico pensa di trovarla e da renderla il più delle volte, per il detenuto che la vive, peggiore di come la si possa descrivere. 

L’effettiva intelligenza della materialità della pena, dunque, è un risultato che passa attraverso la comprensione di un groviglio inestricabile di logiche normative e meccanismi informali, comportamenti visibili burocratici e relazioni personali sotterranee, cerimonie pubbliche e spazi detentivi opachi. Gli esiti di tale processo conoscitivo inducono di frequente alla frustrazione e l’autore di Punizione ne mostra un’acuta consapevolezza, al punto da maturare un certo disagio: «Mi inquieta da tempo il dubbio che chi studia e insegna diritto penale positivo (cioè già prodotto dal legislatore politico e, perciò, giuridicamente vincolante) finisca, per ciò stesso e sia pure senza intenzione, col legittimare in qualche modo e misura il sistema dei reati e delle pene così com’è» (p. 169). È un senso di colpa fertile, produttivo della chiamata all’impegno di cui si è detto e di una persuasione: le istituzioni punitive «non di rado provocano conseguenze più dannose che vantaggiose per gli individui o per l’intera società» (p. 171). 

Questa presa di coscienza – a tratti espressa con un timbro assai simile a quello della psichiatria radicale in relazione all’istituzione manicomiale (del resto, il lettore scoprirà le inclinazioni di potenziale psichiatra dell’autore) – vivifica il libro, lascia trapelare il coinvolgimento dello scrittore, iscrive il saggio in una “corrente calda” di pensiero sulla penalità. Conduce, infine, a uno snodo critico che pare decisivo: l’esigenza di immaginare la sostituzione o la riforma radicale dei meccanismi punitivi, specie di tipo detentivo, deve essere accompagnata da una preoccupazione democratica e illuminista per i nuovi sentieri che si intende imboccare. Non è un invito alla prudenza, semmai alla ragionevolezza nel maneggiare concetti come prevenzione e riparazione, affinché non si trasformino in iatture per la libertà e la democrazia. 

È un rischio meno remoto di quanto si possa pensare, come rammentano le pagine sul dialogo filosofico di Daniel Dennett e Gregg Carus[3] relativo all’alternativa tra paradigmi consequenzialisti e preventivi. Nell’opporsi ai tradizionali criteri retribuzionisti, Caruso finisce per abbozzare un tipo di intervento preventivo plasmato sul «modello della quarantena di salute pubblica»: controllo e tracciamento delle persone pericolose, in sostanza. Il connotato liberticida è evidente: chi è a decidere chi sia pericoloso? Sulla base di quali saperi e di quanta sorveglianza si definisce in concreto la pericolosità? 

Gli avvertimenti di Giovanni Fiandaca su una prevenzione così costruita suggeriscono alcuni paralleli. Le politiche criminali potrebbero trasformarsi in un’amplificazione della vicenda di Otello: per sfuggire alla tragedia dell’incertezza, «in cui la vera menzogna dell’uno (Iago) e le false verità dell’altro (Otello) vanno di pari passo»[4], si potrebbe innescare un circolo vizioso sospetto/vigilanza che le risorse tecnologiche contemporanee sono in grado di portare a livelli di invasività impensati. Sorvegliare e prevenire, si potrebbe dire parafrasando Foucault. Del resto, la risposta all’emergenza pandemica – green pass e quarantene – ci ha dimostrato come la biopolitica contemporanea possa ormai contare su sofisticati e sperimentati strumenti di controllo sociale: la linea di confine che divide il bene dal male, la finalità solidaristica da quella espulsiva, è sottile e gli occhi devono rimanere aperti.

Neppure la giustizia riparativa può reputarsi immune da incognite, che il saggio indaga in maniera approfondita e che paiono aumentate in seguito all’iscrizione delle procedure di restorative justice nel procedimento di cognizione ed esecuzione ad opera della riforma Cartabia. 

L’attenzione dell’autore non si pone sui più volte denunciati (ma inverosimili) rischi di pregiudizialità cognitiva che si annidano nei procedimenti in cui l’autorità giudiziaria può avviare, anche d’ufficio, imputato e vittima a programmi di giustizia riparativa. A venire in considerazione, piuttosto, è quella ambiguità ideologica che connota la cultura e la prassi della riparazione e che è sempre in agguato dietro il principio di rieducazione, nonostante la sua definitiva laicizzazione. Le perplessità dell’autore si attestano sul fatto che la riconciliazione tra autore del reato e persona offesa – a maggior ragione, la ricostituzione del legame con la comunità – abbia come retroterra «una visione irenica e aconflittuale della società, di verosimile matrice religioso-comunitarista» (p. 150) che potrebbe entrare in conflitto con il principio costituzionale del pluralismo politico-ideologico, culturale e morale. 

Sono inquietudini condivisibili e quel potenziale conflitto, occorre aggiungere, sarebbe tanto più grave se la ricerca della sintonia con le aspirazioni della vittima passasse attraverso una sovrastima del foro interno a scapito dei comportamenti esteriori conformi ai valori costituzionali: l’uomo riconciliato, in questa prospettiva, spaventa tanto quanto l’uomo rieducato. 

Il pericolo di snaturare il paradigma ripartivo, viene da dire, potrebbe annidarsi nel suo irrigidimento in moduli che, per quanto si collochino a margine e a lato del procedimento, si avvantaggiano comunque della sua forza. Certo, la promessa è di sconti di pena: non viene in gioco la minaccia della spada, dunque, ma la speranza che la stessa venga rimessa almeno un poco nel fodero. In questa direzione, però, la domanda è obbligata: spada e verità possono andare d’accordo? L’interrogativo che la riflessione di Giovanni Fiandaca lascia aperto sulla giustizia riparativa, mi pare si possa dire, è proprio questo: sottratta alla dimensione informale e orizzontale di giustizia di comunità, collocata nel rito e nel monopolio dell’autorità giudiziaria, la riparazione saprà essere ancora una forma di prevenzione/reazione al reato emancipativa e alternativa alla punizione o sarà coartata a ripercorrerne le peggiori declinazioni eticheggianti? 

La risposta, ovviamente, sarà solo la prassi a fornirla; ma tale prassi, avverte saggiamente l’autore, dipenderà da quanto saremo in grado di convogliare attenzione e risorse sul «contesto e sulle modalità», sul «tipo e livello di competenza professionale dei mediatori», sulle «aspettative e orientamenti personali degli autori e delle vittime disposte a sperimentarla» (p. 158). 

L’applicazione concreta dei principi di prevenzione e riparazione, dunque, ne determinerà la cifra, e permetterà di capire se non si trasformeranno in altrettante illusioni penologiche. 

A proposito di illusioni, una riflessione conclusiva pare indispensabile.

 

Gran parte di quello che un libro suggerisce deriva dall’intenzione dello scrittore. Una porzione di senso, tuttavia, il testo la riceve anche dal contesto storico in cui finisce di necessità per collocarsi e dalla predisposizione d’animo che tale contesto induce nel lettore. 

Punizione è uscito nel 2024, anno che ai miei occhi è caratterizzato dall’angoscia irriducibile per la propensione delle comunità internazionali e nazionali a rinfocolare la tragedia delle guerre. Viviamo un’epoca in cui il valore della vita è sempre più desacralizzato (in parallelo, come sempre nelle guerre, alla liturgia della morte) e nella quale, in scala, mi pare si assottigli di più anche il valore da attribuire alla libertà personale: se la morte torna a non fare scandalo, figuriamoci la prigione. 

Tra tutti i fili che si dipanano nel libro, uno che mi pare importante raccogliere per provare a uscire dal labirinto storico delle contraddizioni della punizione è proprio quello che, attraverso il riferimento alla Genealogia della morale di Nietzsche, traccia rapporti di parentela della punizione con la guerra. 

Nelle contemporanee politiche criminali, tali legami sono meno carsici. Lo aveva intuito Massimo Pavarini, intravedendo per tempo la deriva bellica nell’approccio alla questione criminale e i conseguenti bollettini di guerra: «quanti nemici sono stati neutralizzati (vedi l’enfasi sui tassi di carcerizzazione); quanti soldati posso mettere in campo e quanto mi costano (vedi enfasi sui costi della giustizia penale e forze di polizia); quali e quanti territori sociali urbani ho liberato o sono stati dal nemico occupati (vedi enfasi sui tassi di delittuosità diminuiti o aumentati nella loro disaggregazione territoriale); ecc.»[5]

La «contemporanea passione per il punire» si situa sulla stessa linea dei fervori di guerra ed entrambi – qui sta forse il dramma – ricevono copertura dalle leggi, nazionali o internazionali. Per usare il linguaggio di Franco Fornari, nella sua fondamentale Psicoanalisi della guerra, potremmo dire che la punizione, in ragione dei suoi dispositivi sempre più incapacitanti e neutralizzanti, è diventata – come la guerra e spesso a dispetto dei lenimenti con saggezza somministrati dalle Corti – un «dispendioso e tragico sistema di sicurezza, il cui aspetto più enigmatico sarebbe il suo voler controllare l’incontrollabile traducendo angosce psicotiche interne in termini di pericoli reali esterni»[6]. È questo il punto di forza del populismo. I pericoli reali esterni, a differenza di quelli interni, sono altro da noi e quindi possono essere neutralizzati, uccisi, eliminati dal contesto sociale. 

Il presupposto culturale di questa necessità di ingaggiare guerre contro il nemico, esterno o interno, sta proprio nella rinuncia a pensare a un modello alternativo di sviluppo economico e sociale. Guerra e punizione sono strumenti ineliminabili perché il disordine è accettato come permanente e il pericolo è costantemente in agguato. Non è un caso che nella lotta al crimine pare non registrarsi mai un traguardo e non arrivare mai il momento di una tregua, di un disarmo, della rinuncia al bagaglio repressivo più duro (pena di morte ed ergastolo, per rimanere nei confini dei dispositivi più neutralizzanti dello spazio euroatlantico). Meglio contare sulle risposte visibili della forza che non sull’eliminazione delle cause del disordine.

Per arrivare a concepire qualcosa di alternativo alla punizione, pertanto, l’impegno davvero arduo è quello di scommettere su un differente rapporto tra il diritto, l’ordine e la forza. È una scommessa che non riguarda soltanto il diritto penale, ma il diritto tout court, per quel tanto che vuole ancora rispondere al suo compito fondamentale di disegnare il futuro e la sicurezza esistenziale delle persone e dei popoli.


 
[1] S. Anastasia, Le pene e il carcere, Milano, 2022, p. 45.

[2] M. Pavarini, La criminalità punita. Processi di carcerizzazione nell’Italia del XX secolo, in Storia d’Italia. Annali 12, La criminalità, Torino, 1997, p. 1030.

[3] Si tratta di D.C. Dennett, G.D. Caruso, A ognuno quel che si merita. Sul libero arbitrio (2021), trad. it. Milano, 2022.

[4] G. Di Giacomo, Otello: la tragedia della parola e il ruolo della narrazione, in Studi di estetica, XLV, IV serie, 3/2017, p. 6.

[5] M. Pavarini, Capire la penalità, postfazione all’edizione 2018 di Carcere e fabbrica, Bologna, 2018, p. 330. Si tratta di un testo scritto nel 2015 per  la nuova edizione inglese di Carcere e fabbrica (adattato da M. Pavarini, Governare la penalità, numero monografico di IUS17, 2013, VI, pp.7.15) e rappresenta forse il testamento intellettuale dell’autore.

[6] F. Fornari, Psicoanalisi della guerra (1996), ed. Milano, 2023, p. 30.

12/04/2024
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