Sono giudice di sorveglianza e per questo mi limiterò a descrivere la situazione delle carceri su cui la magistratura di sorveglianza esercita il suo potere di vigilanza. Ancorché le norme dell’ordinamento penitenziario del 1975 consentano al magistrato di sorveglianza di prospettare al Ministro della giustizia anche le esigenze dei vari servizi e quindi anche un’indicazione di interventi possibili, credo che in questa felice occasione pubblica, in cui una magistratura ed un’avvocatura congiunte si trovano dalla stessa parte, il magistrato “di prossimità” che si occupa di eseguire la pena si debba limitare a denunciare lo stato delle cose, piuttosto che indicare soluzioni, perché quelle sono compito dell’azione del Governo e del Parlamento.
E allora dico subito che la realtà dalla quale provengo, e mi riferisco al carcere di Sollicciano a Firenze, è divenuta una realtà che non esito a definire intollerabile.
Di cosa parliamo? Parliamo di estremo degrado delle strutture se non di fatiscenza, di condizioni igieniche inaccettabili, peraltro da tempo note a tutti, e prima di chiunque altro ai detenuti che hanno inondato la nostra Cancelleria di reclami a tutela dei loro diritti, istanze alle quali, analogamente a quanto succede in altri Uffici di sorveglianza, non riusciremo a dare tempestiva risposta per la cronica carenza di risorse materiali ed umane, a causa del persistente oblio in cui i nostri uffici, dimenticati da tutti, vengono lasciati. Le stesse carenze che, ad esempio, determinano, circostanza poco nota, l’aumento vertiginoso di condanne ineseguite: il problema dei cc.dd. “liberi sospesi” che hanno raggiunto e superato ormai il numero di 100.000.
Ma le condizioni di questo carcere, ove pure negli anni si sono verificati drammatici suicidi, sono comuni a molti altri istituti italiani ove si pratica, come lo stesso Ministro della Giustizia ha avuto occasione di dire solo pochi giorni fa nel carcere femminile della Giudecca, quell’inaccettabile “cultura dello scarto” che fa toccare con mano la disperazione e il dolore, espressione massima di lacerazione esistenziale e insieme di fallimento e contraddizione da parte delle istituzioni e della società. In molte carceri italiane, tranne le poche isolate realtà virtuose che anziché l’eccezione dovrebbero costituire la regola, non viene garantito quel minimo grado di civiltà necessario per far eseguire una pena degna ai condannati e nemmeno le condizioni minime di lavoro per gli agenti di polizia penitenziaria, uniti ai condannati in questa tragica fase discendente.
Lo stillicidio dei suicidi, la sua insopportabile escalation, la crescita inarrestabile degli ingressi (ormai 4000 all’anno, frutto anche di leggi che danno priorità alla punizione piuttosto che alla prevenzione) e il degrado di strutture che ove fossero civili abitazioni sarebbero state chiuse da tempo, sono indice del progressivo scollamento tra la rappresentazione ufficiale del carcere e la realtà di esso: da tempo il carcere dopo la stagione di riforme perlopiù abortite, rischia di tornare a chiudersi in sé stesso e in esso l'uomo, con la sua dignità, scompare diventando invisibile. Si rifugge dalle prigioni così come si rifugge dal male mentre la questione carceraria dovrebbe stare in cima all’agenda degli interventi.
Difronte ai suicidi il Presidente Mattarella ha detto che non c’è più tempo. Nessuno ha la bacchetta magica per risolvere un problema che ha una pluralità di cause: il disagio psichico, il senso di colpa verso i propri familiari, la mancanza di serie prospettive di reinserimento (se pensiamo che una buona parte dei suicidi avviene nella fase terminale della pena) sono tutte concause di un evento tragico, ma non si può ignorare che stare per molte ore al giorno costretti a condividere spazi sempre più stretti in strutture sempre più inadeguate tra persone con culture, usi ed abitudini di vita così diverse tra loro, in celle fatiscenti spesso nemmeno separate dai servizi igienici e magari con cimici, scarafaggi e infiltrazioni di acqua, non può non avere, nella drammatica decisione di togliersi la vita, un peso decisivo. Il disagio inoltre accresce la conflittualità interna: è dell’altro ieri la notizia di un detenuto che nel carcere di Opera ha ucciso un compagno di cella per una lite sul telecomando.
Non può esservi uno stretto determinismo fra sovraffollamento e questi episodi ma è indubbio che riportare il sistema a livelli di accettabilità numerica gli darebbe, seppur temporaneamente, respiro. Una misura immediata, seppur a corto raggio, è dunque oggi indispensabile.
Detto questo, una considerazione conclusiva sul problema della pena, perché il tema del sovraffollamento non resti un alibi per non affrontare la vera questione sociale che è sottesa al carcere.
Il problema è certamente complesso perché è impossibile individuare una risposta definitiva ed è incerto il futuro su una soluzione alternativa meno disumana, che ancora non si intravede. Nel punire c'è l'essenza dello Stato che ha il monopolio della forza legittima e c’è anche una domanda di sicurezza, ma ciò non toglie che la questione umanitaria, in tempi di detenzione in condizioni degradanti, abbia posto prepotentemente il problema della “fuga dal carcere”, a riprova che per venire incontro a ciò che la dignità implica bisogna “uscire” dal carcere.
Se la pena soddisfa una reazione emotiva e immediata alla commissione del reato, vista sempre di più solo come un modo per privare la libertà e infliggere sofferenza al reo, essa ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità e ragionevolezza e soprattutto se non si riduce a una semplice catena di sofferenze e dolore.
Dicevo che non sta al giudice, almeno in questa occasione, indicare le soluzioni sia per arginare i costi umani provocati da tale condizione, sia per evitare di incorrere in una possibile nuova condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani ma segnalare, quello sì, la necessità di approntare risposte tanto di breve quanto di medio-lungo periodo. Un piano straordinario che affronti seriamente il tema dell’esecuzione penale dovrebbe comprendere tuttavia sia un serio incentivo delle misure alternative e di tutti gli altri istituti di probation sia un rafforzamento delle dotazioni effettive di uomini e mezzi agli Uffici di sorveglianza (inspiegabilmente esclusi dagli investimenti del PNRR), agli UEPE ed alle Aree trattamentali degli istituti penitenziari.
Le misure “altre dal carcere” possono costituire una valida risposta solo se si implementano da un lato gli uffici che le devono concedere, dotandoli di strumenti adeguati, e dall’altro si rinforza il territorio che deve riceverle creando comunità accoglienti e non respingenti per rendere la pena, come vuole la Costituzione, “utile” per il condannato ed anche per la società. Recuperare la funzione “utilitaristica” della pena sarà pure contrario ai più puri principi liberali ma riconquisterebbe il senso di una pena umana da un lato e riabilitante dall’altro, restituendole in pieno quel “volto costituzionale” che le spetta.
Intervento al convegno Senza dignità, tenutosi all'Università Roma Tre il 23 aprile 2024.