Sommario: 1. Il valore della piena dignità della persona privata della libertà nell'analisi giuridica / 2. Premesse, argomenti e conclusioni di Corte costituzionale n. 10 del 2024 / 3. Il conforto di un'omogenea concezione dei diritti della persona detenuta nella giurisprudenza della Supreme Court del Regno Unito: una breve analisi.
1. Il valore della piena dignità della persona privata della libertà nell'analisi giuridica
Uno dei segni più evidenti ed apprezzabili dell'evoluzione dell'analisi giuridica in termini di accostamento e contributo alle questioni connesse alla preservazione e promozione dei vasti giacimenti nei quali si insedia la persona umana è formato dalle crescenti e sempre più scientificamente solide riflessioni dedicate alla condizione delle persone private della libertà. Condizione giuridica, materiale, logistica, psicologica, sociale riassunta proprio in quella innaturale posizione che la persona assume allorché venga, per ragioni connesse a reazioni e regole fissate dall'ordinamento giuridico, distolta dalla sfera che le è propria, ed in cui si nutre dell'assenza di restrizioni che ne menomino in forme più o meno intense l'autonoma determinazione di collocazione e movimento nello spazio, con il conseguente corteo di facoltà giuridiche di diretta derivazione. L’organica predisposizione di un testo ordinamentale in materia penitenziaria quale la legge fondamentale 26 luglio 1975 n.354, l'istituzione della centrale figura del Garante nazionale delle persone private della libertà, avvenuta con decreto legge del 23 dicembre 2013 n. 146,convertito con modificazioni nella legge 21 febbraio 2014 n.10, e la conseguente designazione quale Autorità indipendente di garanzia e meccanismo nazionale di prevenzione della tortura, la vasta produzione legislativa a tale materia inerente, quale, per fermarsi alla più recente, il decreto legislativo n. 121 del 2 ottobre 2018 (recante norme disciplinanti l'esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni), il decreto-legge 30 aprile 2020 n. 28, convertito nella legge 25 giugno 2020 n.70 (contenente disposizioni sulla corrispondenza telefonica del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva) sono tutti eloquenti indici della consapevolezza dell'attenzione che merita il nesso tra la pretesa retributiva statale in relazione a condotte antigiuridiche e la tensione alla rieducazione del condannato ai sensi del penultimo comma dell'art. 27 della Costituzione. Fonti sovranazionali di rango e natura diversi, hanno irrobustito lo scheletro del corpo normativo di impatto nel diritto interno: basti ricordare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950 e figure e ruoli di sicura incidenza quali il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa ed il sottocomitato per la prevenzione della tortura dell'Organizzazione delle nazioni unite.
Parallelamente agli interventi legislativi fecondissimo è stato l'apporto di pensiero che, insieme ad altre categorie di studiosi e professionisti, la dottrina e la giurisprudenza sono state in grado di beneficamente conferire al generale tema della condizione soggettiva e delle condizioni oggettive di vita della persona privata della libertà, ed in particolare di quella sottoposta al regime carcerario. E ciò anche con riguardo al doveroso inveramento del precetto costituzionale, che costituisce la premessa del citato articolo 27, rivolto a sancire il divieto che le pene consistano in trattamenti contrari al senso di umanità.
L'esposizione che segue darà conto, nei definiti limiti del presente scritto, dell’alta qualificazione dei fittissimi contributi forniti in tempi recenti. Tutti appaiono apprezzabilmente mossi dall'intento, di non nascosta derivazione costituzionale, di dar voce e concreta espressione ai molteplici aspetti di cui si compone la personalità umana di chi si trovi a svolgerla nella particolare formazione sociale costituita dalla comunità penitenziaria[1]. Un particolare rilievo ha, ad esempio e comprensibilmente, assunto il profilo dell'esercizio delle abilità della persona detenuta in ambito lavorativo, sia a vantaggio della comunità, sia a tutela della sua aspirazione a non condurre una vita carceraria priva di scopo, di prospettive, di impegno, in una parola destituita di umanità. L'insufficienza delle occasioni di adibizione al lavoro concorre all'aggravamento della percezione della condizione detentiva ed all'incremento dei rischi che ne derivano[2]. Non meno umiliante si rivela il mancato riconoscimento al detenuto lavoratore dell'interezza delle situazioni soggettive attive che gli competono[3]: in questo senso fondate ed incoraggianti appaiono le recentissime pronunce assertive del suo diritto a conseguire l'indennità afferente alla nuova assicurazione sociale per l'impiego[4]. Altri studi si sono orientati verso il terreno della ricerca degli aspetti della personalità delle persone detenute egualmente bisognosi di emergere e, comunque, di non essere arbitrariamente soffocati, quali quelli che trovano manifestazione nella comunicazione e nella scrittura rappresentativa di storie individuali[5]. In altri termini, il senso di una plausibile e fruibile prospettiva di vita, o il tremendo vuoto della sua mancanza, può riempire di “umanità” l'esperienza carceraria o, al contrario, determinarne un abbrutimento che spesso prelude alla recidivazione delle condotte suscettibili di ulteriore sanzione detentiva[6].
Quello a grandi linee riferito è il contesto di attenta garanzia che funge da premessa culturale alla sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 26 gennaio 2024.
2. Premesse, argomenti e conclusioni di Corte costituzionale n. 10 del 2024
Il più pregnante carattere esibito dalla sentenza[7] alle quale queste pagine sono volte è la geometrica conseguenzialità logico-giuridica che la ispira. Sembra di trovarsi di fronte alla rigorosa, inoppugnabile dimostrazione di un teorema matematico, tale è l'ordine di svolgimento degli argomenti ed il relativo dispiegamento allo scopo di convalida razionale e giuridicamente solida della tesi svolta. Proprio la forza della concatenazione argomentativa al contempo ne rende agevole e succinta l'esposizione.
La Corte costituzionale è tornata ad affrontare una questione che poco più di un decennio prima era stata ad essa prospettata, già in passato posta al centro anche di rappresentazioni nel campo artistico[8] e che ancor oggi, dopo la sentenza in esame, continua ad attirare riflessioni ed iniziative risocializzanti[9]. La disposizione sottoposta al vaglio di compatibilità con una serie di norme costituzionali (gli articoli 2, 3, 13 primo e quarto comma, 27 terzo comma, 29, 30 31, 32 e 117 primo comma, quest'ultimo in relazione agli articoli 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950) è quella DEll'art.18 della legge 26 luglio 1975 n.354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia. L'occasione che aveva indotto il magistrato di sorveglianza di Spoleto a sollevare la questione di legittimità costituzionale era data dal reclamo che un detenuto - in carcere dal 2019 in relazione ad un cumulo di pene per tentato omicidio, furto aggravato, evasione ed altro, la cui detenzione terminerà nell'aprile 2026, sprovvisto di un programma di trattamento e verosimilmente privo di accesso ai permessi premio sia per l'assenza di tale programma sia per l'irrogazione, anche ravvicinata nel tempo, di sanzioni disciplinari - aveva opposto al diniego da parte dell'amministrazione penitenziaria dello svolgimento «di colloqui intimi e riservati con la compagna e la figlia in tenera età», ossia senza il controllo visivo del personale addetto, preclusivo, secondo l'ordinanza di rimessione, dell'esercizio dell'affettività «in una dimensione riservata, e segnatamente (del)la sessualità». La questione muoveva anche dalla considerazione che analoga, significativa limitazione non è prevista normativamente per i detenuti minori d’età, cui l'art.19 comma 3 del d. lgs. n. 121 del 2018 consente, al fine di favorire le relazioni affettive, di fruire ogni mese di quattro visite prolungate, della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei. Peraltro, lo stesso legislatore non ha dato seguito al criterio direttivo enunciato dalla lettera n) del comma 85 dell'art. 1 della legge 23 giugno 2017 n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario) che prevede il «riconoscimento del diritto all'affettività delle persone detenute e internate» e la disciplina «delle condizioni generali per il suo esercizio». Ed ancora la norma denunciata costituirebbe, con l'imporre sostanzialmente «la forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà», una ingiustificata ed aggiuntiva compressione della libertà personale. Né la norma sarebbe razionalmente giustificabile, ai sensi dell'art.13 della Costituzione, in quanto impone un divieto di incontri intimi assoluto ed indiscriminato, seppur non riferito a particolari esigenze di sicurezza. Il concorso di queste circostanze irrazionalmente afflittive, oltre che della posizione del detenuto anche di quelle dei familiari e delle persone a lui legate da relazioni stabili, per effetto di coniugio, unioni civili, convivenza, si risolverebbe nell'inflizione di un trattamento inumano e degradante con conseguente violazione, per effetto del richiamo della norma interposta dell'art. 117 primo comma della Costituzione, dell'art. 3 della Convenzione europea del 1950 nonché dell'articolo 8 nella misura in cui viene leso il diritto del detenuto al rispetto della propria vita personale e familiare.
Come già ricordato la stessa Corte era già stata chiamata nel 2012[10] a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 18 dell'ordinamento penitenziario. In quell'occasione vi era stata una dichiarazione di inammissibilità sotto il profilo della carenza di rilevanza della questione[11] ed anche sotto il più stringente aspetto che «l'eliminazione del profilo non basterebbe, comunque, di per sé, a realizzare l'obiettivo perseguito dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto», compiti che, implicando scelte di carattere discrezionale, rientrano nella esclusiva spettanza del legislatore.
Ciò posto, il primo punto che la sentenza del 2024 ha dovuto esaminare, in termini di pregiudizialità logico-giuridica refluenti sull'ammissibilità del ricorso, espressamente negata dall'Avvocatura dello Stato, è stato quello della sottrazione della materia evocata alla giurisdizione in quanto avente ad oggetto una disposizione legislativa vertente in materia riservata alla discrezionalità del legislatore. La sentenza ha, conformemente anche all'opinione scritta espressa dall'amicus curiae[12] adesiva alla tesi del remittente, rigettato per infondatezza l'eccezione per un triplice concorrente ordine di ragioni. In primo luogo, per il superamento della precedente indeterminatezza dell'oggetto del reclamo giurisdizionale del detenuto, in virtù della doviziosa descrizione della concreta fattispecie e dei motivi della sua indecidibilità se non per effetto della delibazione della legittimità dell'articolo 18 citato. In secondo luogo, a causa del mutamento sopravvenuto del quadro legislativo conseguente alla già ricordata legislazione in materia minorile, che lascia aperto il varco alla discriminazione nella disciplina dell'affettività carceraria tra detenuti minori (ed ospitati in istituti ad essi dedicati) e maggiori d'età. Ed infine, si è debitamente messo in rilievo come la sentenza del 2012 avesse, comunque, sottolineato che la questione allora sollevata evocasse «una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale»: e la constatazione presente è quella che, nonostante il non breve tempo trascorso dal 2012, la situazione normativa, per quanto attiene ai detenuti maggiorenni, sia rimasta pregiudizievolmente inalterata. E ciò, benché altre sensibili novità legislative siano venute in essere quali l'introduzione dell'art. 1 comma 38 della legge 76 del 2016 secondo cui «i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge previsti dall'ordinamento penitenziario» e del comma 20 del medesimo articolo che estende anche alla parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso i medesimi diritti attribuiti al coniugio per ciò che attiene ai colloqui penitenziari. La diretta conseguenza di questi innesti normativi, di fronte all'immodificazione, generata dall'inerzia legislativa, del trattamento riservato ai detenuti adulti in punto di tutela dell'aspirazione all'affettività in ambito carcerario è stata evidentemente quella, da un canto, dell'ampliamento dell'area dei soggetti verso i quali rivolgere tale esigenza da parte del detenuto, e, d'altro canto e specularmente, dell' aumento del numero di persone libere che, per ricaduta delle limitazioni imposte dal regime carcerario alla persona detenuta a loro cara, ne soffrono individualmente gli effetti, finendo per diventare a propria volta vittime secondarie del diniego di rapporti affettivi intimi, anche di carattere sessuale, con le prevedibili ricadute negative sulla stabilità del rapporto. Per concludere i riferimenti alla propria giurisprudenza come formatasi con la sentenza 301 del 2012,la pronuncia odierna ricorda, in perfetta sintonia con essa, che non varrebbe a risolvere il problema discusso in forma strutturale, piuttosto che rapsodica e casuale, il ricorso ai permessi premio i quali, «stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi resta(no) di fatto preclus(i) a larga parte della popolazione carceraria», come dimostra la vasta quota, puntualmente richiamata, di persone detenute cui è negato per motivi svariati, soggettivi ed oggettivi, l'accesso al beneficio.
Battuta in breccia con esiti del tutto impeccabili sul piano della robustezza delle fondazioni logiche e giuridiche la strada del superamento degli scogli in astratto ostativi all'esame del merito della questione la sentenza appunta ad esso il proprio approfondito esame secondo un criterio di progressività sequenziale delle ragioni decisorie. È, pertanto, notevolmente facilitata l'opera di chi si appresti alla lettura critica della sentenza in quanto può procedere attraverso l'illustrazione delle premesse, tutte dotate del necessario puntello di diritto positivo (in particolare di stampo costituzionale), le quali impongono in via rigorosamente deduttiva le conseguenze cui la Corte costituzionale è, infine, approdata.
La base che regge l'intero edificio del pensiero della Corte costituzionale viene indiscutibilmente individuata nella tutela che, con riguardo alle relazioni affettive nelle formazioni sociali in cui si esprimono, trova pienezza di riconoscimento nell'articolo 2 della Costituzione. Esso, a propria volta, non può tollerare che lo stato detentivo-pur in astratto legittimato ad incidere sui termini e sulle modalità di esercizio della libertà di espressione affettiva in quanto appartenente all'inviolabile sfera dei diritti della personalità, già acutamente studiati nel terzo quartile dello scorso secolo[13] -non può del tutto annullare la libertà in parola «con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società». Non appare in alcun modo difficile identificare in questo profondo preambolo di principio -un'autentica riedizione in forma giurisdizionale, e quindi viva e palpitante, del precetto dell'articolo 2 della Costituzione - il viatico che indirizza le successive scansioni della “ratio decidendi”, le quali meglio si prestano ad essere definite come corollari del principio stesso e non autonome determinazioni decisorie. Ed infatti, ciò che conta nell'economia della pronuncia e quale messaggio istituzionale è la contrarietà all'intero ordinamento costituzionale ed all'assetto sistematico che ne risulta dell'incondizionata ed irragionevole compressione in regime detentivo della libertà di perseguire quelle relazioni affettive che si svolgano all'interno delle formazioni sociali note all'ordinamento. Formazioni sia in sé considerate sia in quanto epigone di un trattamento di tutela di grado ed intensità corrispondenti al livello di protezione di cui esse devono godere per il fatto stesso di essere state elevate al rango di enti muniti del riconoscimento normativo e del correlato apparato disciplinare. La Corte si affretta prudentemente a chiarire che, mentre non è in discussione la libertà affettiva anche durante lo stato detentivo, ben può darsi- in una logica di bilanciamento rispetto alle esigenze retributive collegate all'inflizione della sanzione penale, si potrebbe dire - la questione avente ad oggetto «l'individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona» (punto 3.1 terzo capoverso del “Considerato in diritto”). Non a caso si è appena utilizzato l'avverbio “prudentemente” a proposito del passaggio in parola: la sentenza si è mostrata del tutto conscia del pericolo che le sue parole avrebbero potuto produrre quelli che la giurisprudenza di common law denomina “floodgates”, ossia gli effetti alluvionali ed incontrollati delle proprie decisioni, sfuggenti al perimetro della loro origine e finalità, e per questo necessitanti una saggia attività di auto-contenimento realizzabile grazie alla previa delimitazione dell'area di ricaduta. Aver instaurato un rapporto di continenza tra il generale principio impositivo del rispetto della libertà affettiva e le peculiarità del circuito penitenziario rafforza la credibilità dell'affermazione basilare anche agli occhi dei cultori di visioni opprimenti della condizione del detenuto e stabilisce un congruo sistema di argini applicativi: sistema che, come si vedrà più avanti, esibisce la propria massima estensione nella parte finale della sentenza, dalla chiara portata prescrittiva e dal sapore provvedimentale.
Non sembra arbitraria l'affermazione che anche il più accurato e capillare dei commenti alla sentenza costituzionale 10 del 2024 non tradirebbe il proprio obiettivo se circoscrivesse alla parte appena riportata l'indagine, limitandosi semplicemente ad enunciare le ragioni divisate per ritenere violati i numerosi parametri di costituzionalità dedotti nell'ordinanza di rimessione. A questo conciso metodo espositivo si preferisce, pertanto, attenersi.
È nell'esistenza del controllo visivo che la Corte costituzionale, unendo senso giuridico e sensibilità umana, ravvisa l'insormontabile ostacolo alla concreta possibilità di espressione affettiva, anche di natura sessuale, da parte del detenuto. Già in ciò risiede il vizio dell'art. 18, che, nella sua formulazione letterale, non ammette deroghe e per ciò stesso si espone all'ovvia censura di incostituzionalità. L'intrusione nella sfera intima del detenuto che finora ha costituito adempimento di un dovere imposto in via primaria al personale di custodia, risolvendosi in circostanza inibitoria della libertà affettiva, è in sé ostativa al recupero della sua legittimità in via generale, fatte salve le numerose eccezioni che la sentenza non ha mancato, ancora una volta con lodevole prudenza, di porre in risalto. D'altro canto, si sottolinea, il controllo visivo si riverbera intuitivamente anche su chi sia legato da relazioni affettive con i detenuti, finendo con il venir, pur incolpevole, colpita per inevitabile paradosso logico dalla medesima misura restrittiva del detenuto. Effetto, questo, che seriamente rischia di compromettere la durata, ad esempio, del matrimonio, che, se “bianco”, ricade legislativamente tra le cause di scioglimento o cessazione dei suoi effetti ai sensi dell'art. 1 primo comma n.2 lettera f) della legge 1 dicembre 1970 n.898. Anche i riflessi sul piano dell'adempimento degli obblighi internazionali di origine convenzionale vengono adeguatamente menzionati dalla sentenza costituzionale cui non sfugge che le regole penitenziarie europee, adottate in data 11 gennaio 2006 con raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, racchiudono un'applicazione del minimo mezzo allorché stabiliscono che «le visite devono essere svolte con modalità tali da consentire ai detenuti di mantenere e sviluppare le relazioni, nello specifico familiari “in as normal a manner as possible”» (ultimo capoverso del punto 4). E la normalità delle relazioni, si arguisce immediatamente dal ragionamento, presuppone che esse si svolgano riservatamente, come è proprio dei rapporti familiari (non solo sessuali), e, quindi, lontano dagli sguardi altrui (seppur puntati per dovere funzionale). Ed anche la Corte europea dei diritti umani incoraggia un equo bilanciamento (“fair balance”) tra esigenze, pubblicistiche e privatistiche, nel riconoscere il diritto a visite intramurarie atte all'esplicazione dell'affettività[14].
Una triplice affermazione chiude il recinto delle ulteriori statuizioni di principio.
La prima è che l'impossibilità di esprimere una normale affettività da parte del detenuto reca un vulnere alla persona nell'ambito familiare e nelle relazioni in cui si svolge la sua personalità, con ciò, peraltro, anche pregiudicando la realizzazione della funzione rieducativa della pena scolpita nell'articolo 27 della Costituzione.
La seconda consiste nella netta enunciazione secondo cui «L'intimità degli affetti non può essere sacrificata dall'esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all'obiettivo della risocializzazione».
La terza suona nel senso che per negare l'affettività occorre verificare in concreto la necessità della misura restrittiva a fini di ordine pubblico e di prevenzione dei reati.
C'è un filo ideale che riconduce ad unità le tre proposizioni, solo apparentemente capaci di reggersi indipendentemente l'una dall'altra. Il cemento che le unifica si alimenta del coordinamento, mai negato dalla sentenza, tra la dimensione pubblicistico-retributiva-sanzionatoria, con il correlato fine general-preventivo, e quella privatistico-intimistica che non può tollerare una visione così totalizzante dello stato detentivo da concepire l'idea che esso debba travolgere l'intera personalità umana lasciando solo sopravvivere quelle esigenze che assicurano la mera sopravvivenza biologica con disprezzo pregiudiziale di ogni altra faccia del prisma dell'essere umano. Proprio questa insistita, responsabile ricerca di uno spesso impervio coordinamento ideale più ancora che pratico lascia intendere il travaglio e lo scrupolo che ha portato all'emanazione di una sentenza che rompe schemi accreditati ed accettati di estraneazione della persona detenuta dal circuito dell'umanità con l'ovvio e prevedibile risultato di far sì che il detenuto introietti, accettandolo come ordinaria condizione esistenziale, tale stato e si ponga all'esterno dei confini della socialità e della convivenza fondata su regole condivise ed osservate. O, peggio, può avvenire, e drammaticamente avviene, che la avvertita lontananza dal diffuso modo di sentire ed agire determini un sentimento profondo ed invincibile di disprezzo della vita che si reputa indegna di continuare ad essere vissuta. Scrupolo e cautela, pur dovuti, non hanno impedito alla Corte costituzionale di aggiungere alla norma dell'articolo 18 dell'ordinamento penitenziario quelle fondamentali frazioni precettive senza le quali il disallineamento rispetto ad una pluralità di previsioni costituzionali sarebbe risultato troppo manifesto per continuare ad essere accettato. Ma nel momento stesso in cui la Corte costituzionale ha accolto il guanto di sfida lanciatole per colmare le lacune lasciate aperte da un legislatore pigro, distratto o timoroso, essa non ha potuto né voluto dimenticare che un Giudice che interviene sulla permanenza in vita di atti promananti dal Parlamento che rappresenta il popolo italiano giammai può esonerarsi dalla prefigurazione degli effetti che, secondo un criterio di ragionevole prevedibilità, possono discendere dalla propria statuizione, caducatoria o additiva, o entrambe, che sia. È stato così coscienziosamente aperto un secondo registro della sentenza, quello delle eccezioni e delle prescrizioni: queste ultime, in particolare, appaiono compatibili con la natura - in questo caso propizia - di una sentenza - provvedimento, così definibile per l'incisivo grado di prescrittività. In sintesi, appartengono al campo delle eccezioni alla dichiarazione dell'illegittimità costituzionale dell'articolo 18 ripetutamente citato, nella parte in cui non prevede he la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona con lei stabilmente convivente senza il controllo a vista del personale di custodia, le circostanze seguenti: il comportamento in carcere della persona detenuta, la ricorrenza di ragioni di sicurezza, la sussistenza di esigenze del mantenimento dell'ordine e della disciplina, impedimenti di carattere giudiziario riferibili alla persona detenuta se riveste la qualità di imputato. È minuzioso, negli ovvi limiti della previsione astratta, l'elenco delle circostanze ostative alla fruizione di incontri e colloqui intimi al riparo dalla vista del personale di custodia: esse rispondono tutte al prima menzionato equilibrio tra piatti della bilancia che interpretano ragioni, funzioni ed obiettivi di matrice diversa. Si tratta di un meritorio atteggiamento della Corte costituzionale. A tale meditata declinazione sarebbe vano opporre l'elevato grado di imponderabilità dei concreti fatti della vita cui può applicarsi una fattispecie legale astratta normativamente disciplinata. È il destino universale, a-storico ed a-spaziale, di ogni legge. Ed in un certo senso la sentenza in questione va collocata in questa categoria di atti giuridici: ma essa era necessaria ed a lungo attesa a cagione, come non per la prima volta è accaduto, dell'inerzia legislativa il cui protrarsi non avrebbe potuto che ulteriormente ridondare a scapito di diritti fondamentali.
Discorso parzialmente diverso può forse condursi con riguardo alla configurazione di possibili termini e modalità di fruizione dei colloqui ed incontri da svolgersi in conformità con l'assetto costituzionale con precisione ricostruito ed interpretato dalla sentenza. Si è qui di fronte ad un flusso descrittivo di modelli applicativi della pronuncia di illegittimità costituzionale che in linea generale sarebbero ancora una volta dovuti appartenere al regno del legislatore, come già anticipato dalla sentenza 301 del 2012. Ma tale improrogabile ufficio non è stato assolto e lo spazio non poteva ancora permanere inoccupato, almeno finché il legislatore cui residua impregiudicata la facoltà di dettare una compiuta disciplina, non intervenga. Vi è, tuttavia, da aggiungere che un certo numero di previsioni racchiuse nella parte finale della sentenza tocca aspetti rientranti nel dominio organizzativo dell'amministrazione penitenziaria, come, ad esempio, quello riguardante «la creazione all'interno degli istituti penitenziari - laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria - di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata». La puntualità dei suggerimenti, che rivelano un'attitudine (necessariamente, date le circostanze) “amministrativa” della sentenza è ben lungi dall'accreditarne un ingeneroso giudizio di sovrabbondanza dispositiva e, men che mai, dall'offuscarne il merito storico. Ovvero, quello di aver infranto un altro tetto di cristallo che ha finora impedito alla persona detenuta di tornare a veder le stelle, seppur nello spazialmente angusto orizzonte dello sporadico esercizio del diritto all'affettività senza il quale la vita in carcere è solo disperata sofferenza, inesigibile da qualsiasi essere umano.
3. Il conforto di un'omogenea concezione dei diritti della persona detenuta nella giurisprudenza della Supreme Court del Regno Unito: una breve analisi
La UK Supreme Court ha, agli inizi del mese di febbraio del 2024, pubblicato una decisione[15] che si è occupata delle ipotesi legittimanti la revoca di licenze a detenuti che versino in un particolare regime detentivo. Il caso riguardava il ricorso di ultima istanza proposto da un cittadino nord-irlandese sottoposto al regime detentivo in esecuzione di due cumulative sentenze di condanna alla reclusione, ciascuna per un periodo di 12 mesi. Le disposizioni in vigore[16] classificano i condannati in diverse categorie, cui corrispondono differenti regimi riguardanti la concessione di licenze premio e la loro eventuale revoca. Nel caso di specie il ricorrente era stato collocato nella categoria DCS (determinate custodial sentence), ossia dei condannati ad una pena detentiva predeterminata nella durata. Altri condannati vengono ricondotti alle categorie ICS (indeterminate custodial sentences) e ECS (extended custodial sentences), che rispettivamente designano condanne a tempo inizialmente indeterminato, ma determinabile ex post in base alle concrete circostanze, ovvero di considerevole durata. L’appartenenza all'una o alle altre due categorie comporta importanti riflessi nell'ipotesi di revoca della licenza che, solo nel primo caso (DCS), viene contemplata ove essa risulti necessaria ai fini della tutela della collettività dal rischio di un danno derivante dal mantenimento della licenza, mentre negli altri due è richiesto al medesimo fine che sussista il rischio di un grave danno alla collettività.
Al ricorrente era stata concessa la licenza, con riferimento alla prima delle due condanne, dopo l'espiazione della parte di pena prevista dalla legge. La licenza avrebbe avuto la durata di un anno, al cui spirare il condannato avrebbe dovuto scontare la parte di pena riferita alla seconda sentenza. Circa 7 mesi dopo l'inizio della licenza il ricorrente era stato nuovamente arrestato in flagranza di reato (per guida senza patente, uso non autorizzato di un veicolo altrui, possesso di sostanze stupefacenti ed altro). Sulla base di tale circostanza l'autorità competente (Offender Recall Unit), operante all'interno del dipartimento di giustizia, utilizzò le proprie prerogative disponendo - dopo aver emendato un proprio precedente ordine che conteneva un errore di fatto - la revoca della licenza e la restituzione del condannato allo stato detentivo con riguardo ancora alla prima delle sentenze da eseguire. E ciò sulla base del pericolo per la collettività che il mantenimento della condizione di libertà avrebbe causato. Il (nuovamente) detenuto usufruì della facoltà di impugnare in sede giurisdizionale il provvedimento (di natura amministrativa) di revoca della licenza sotto il principale profilo dell'irragionevole discriminazione, ai fini della revoca della licenza, tra i condannati a pene detentive determinate nella durata e quelli appartenenti alle altre due categorie prima menzionate. Solo per questi ultimi, infatti, la normativa prevede una forma incrementale di rischio per la collettività (“serious harm”, ossia un serio pregiudizio) nella prospettiva della revoca della licenza e ad onta della natura maggiormente grave dei reati alla base delle condanne; per chi, come il ricorrente, abbia riportato una condanna a pena detentiva predeterminata nella durata, al contrario, ai fini della revoca è sufficiente il pericolo del semplice pregiudizio per la collettività (“harm” non qualificato). La vicenda, conclusasi negativamente per il ricorrente nei due precedenti gradi di giudizio (rispettivamente svoltisi davanti la High Court e la Court of Appeal dell'Irlanda del Nord), è così giunta davanti la Supreme Court del Regno Unito, avente giurisdizione anche sull'Irlanda del Nord. Il giudizio si è concentrato sostanzialmente su una questione che nell'esperienza italiana si ascriverebbe al novero di quelle di legittimità costituzionale di una norma di legge o avente efficacia di legge, quella, citata del Criminal Justice Order del 2008, che disciplina diversamente, a seconda delle categorie di condannati, le cause determinative della revoca della licenza. La Supreme Court, agendo da Corte Suprema anche in ordine alla legittimità delle leggi del Regno Unito, ha rigettato il ricorso sotto l'assorbente profilo, coerente con un proprio recente precedente[17], della non irragionevole distinzione operata normativamente tra le diverse categorie di condannati con speciale riguardo alla circostanza che quella di appartenenza del ricorrente generalmente non presenta rischi di grave pregiudizio, ciò che giustifica la mancata previsione di siffatto requisito in caso di revoca della licenza. Per altro verso è stata giudicata perfettamente ragionevole l'attribuzione ad un'autorità amministrativa della competenza ad apprezzare in concreto la ricorrenza di condizioni capaci di condurre alla revoca della licenza.
Nella prospettiva di questo saggio la rilevanza del caso non va attribuita alla sua definizione giurisprudenziale, per quanto essa ponga in luce la multiforme funzione della Supreme Court britannica e la sua capacità di adattamento a rivestire, a seconda dei casi, i panni del giudice di ultima istanza (di legittimità e, ove le circostanze lo suggeriscano, anche di merito), anche sul versante della stretta costituzionalità, intesa come conformità degli atti normativi, anche secondari, al complesso dei principi informatori dell'intero sistema giuridico. Si tratta di principi che, a partire dalla “rule of law”, si raffigurano come rappresentativi della costituzione materiale, oggi sublimata, almeno parzialmente, in via formale dalla presenza del Constitutional Reform Act del 2005[18]. Sotto altro e più pertinente punto di osservazione si coglie l'importanza del caso. Esso va collocato, per almeno una duplice ragione tra quelli che meglio illustrano l'attenzione riservata anche in altri ordinamenti, in chiave decongestionante delle carceri, alle misure alternative alla detenzione. In primo luogo, è da considerare che un sistema efficiente di amministrazione della condanna e di controllo della sua esecuzione anche durante i periodi intermedi di espiazione, pur non potendo ovviamente prevenire la recidivazione di fatti penalmente rilevanti, è, comunque, in grado di intervenire prontamente ed efficacemente per ripristinare lo stato di custodia allorquando venga tradito il presupposto fiduciario su cui si fondano le misure premiali o attenuative. È, cioè, evidente che in ogni area geografica. l'intero sistema statale, nella complessa articolazione dei poteri, è chiamato in unità di intenti a governare il fenomeno della permanenza in carcere dosandola in considerazione delle proprie capacità recettive e della contemporanea possibilità di adibire strumenti alternativi. Il secondo aspetto, di non minor influenza nel peculiare microcosmo su cui si scrive, cui vale la pena assegnare la dovuta enfasi è quello della irrinunciabilità della tutela giurisdizionale dei diritti delle persone private della libertà in ogni momento e con riguardo a qualunque elemento di durata della relativa condizione. Non può rimanere nell'ombra la ragione di fondo: la verifica rigorosa e completa della assoluta conformità al nutrito sistema delle fonti del diritto del trattamento che a costoro deve sempre essere garantito secondo principi giuridici ed umanitari.
[1] G. Fiandaca, Considerazioni su rieducazione e riparazione, in Sistemapenale.it del 25 ottobre 2023.
[2] Si veda, M. Palma, Note e riflessioni sui suicidi in carcere, in questa Rivista online, 5 settembre 2022, https://www.questionegiustizia.it/articolo/note-e-riflessioni-sui-suicidi-in-carcere
[3] A. Terzi, R. De Vito, Il lavoro in carcere: premio o castigo? Riflessioni a partire dal riconoscimento della NASpI, in questa Rivista on line, 5 febbraio 2024, https://www.questionegiustizia.it/articolo/lavoro-carcere
[4] Corte d'Appello di Catanzaro 125/2023 e Cass. sez. lavoro 396/2024, oggetto di commento nell'articolo citato nella nota precedente.
[5] Si veda la bella testimonianza di L. Breggia, Lo specchio delle storie, in questa Rivista on line, 19 febbraio 2024, https://www.questionegiustizia.it/articolo/lo-specchio-delle-storie
[6] Le, talvolta sofferte, sempre limpide, pagine di E. Fassone, Fine pena: ora, Palermo, 2015, servono a convincersene.
[7] È già apparsa su questa Rivista on line del 5 febbraio 2024 la nota di R. De Vito, Frammenti di un nuovo discorso amoroso: la Corte costituzionale n.10 del 2024 e l'affettività in carcere, https://www.questionegiustizia.it/articolo/corte-cost-affettivita In essa si sottolinea che la pronuncia costituisce uno spartiacque, affermando il valore relazionale del principio di risocializzazione ed il senso del limite che i diritti inviolabili impongono alla signoria della pretesa punitiva. In particolare, si accredita alla sentenza il pregio di essere entrata in rotta di collisione «con il principio per cui la pena debba essere, oltre che privazione della libertà personale, incapacitazione dell'essere umano, amputazione del suo corpo e dei suoi desideri». La sentenza è stata commentata anche da A. Ruggeri, Finalmente riconosciuto il diritto alla libera espressione dell’affettività dei detenuti (a prima lettura di Corte cost. n. 10 del 2024), in Consulta Online, I, 2024, https://giurcost.org/post/ANTONIO%20RUGGERI/23653; I. Giugni, Diritto all’affettività delle persone detenute: la Corte costituzionale apre ai colloqui intimi in carcere, in Sistema Penale, 2 febbraio 2024, https://www.sistemapenale.it/it/scheda/giugni-diritto-allaffettivita-delle-persone-detenute-la-corte-costituzionale-apre-ai-colloqui-intimi-in-carcere; A. Pugiotto, Amore dietro le sbarre: la Costituzione bussa ai cancelli della prigione, in l’Unità, 30 gennaio 2024.
[8] Tra il 1999 ed il 2000 il regista Davide Ferrario ha diretto un progetto cinematografico intitolato Fine amore mai, dedicato al rischio della recisione dei legami affettivi causato dalla detenzione.
[9] Si veda l'articolo di A. Coppola, Anche l'affetto si impara. Giovani detenuti a lezione, in La lettura. Il corriere della sera del 18 febbraio 2024.
[10] Corte costituzionale n. 301 del 2012.
[11] Il remittente non aveva specificato l'oggetto del reclamo proposto contro il provvedimento dell'amministrazione penitenziaria, né aveva indicato quale fosse il regime carcerario applicato o se esistesse la possibilità che il detenuto fruisse di permessi premio che avrebbero reso irrilevante la questione.
[12] L'associazione Antigone che la sentenza definisce «attiva nella promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario».
[13] A. De Cupis, I diritti della personalità, 2°ed., Giuffrè, Milano, 1982.
[14] Corte Edu, Lesaw Wòjcik c. Polonia, ric. 66424/09, 1° luglio 2021. Per una puntuale illustrazione degli orientamenti della giurisprudenza convenzionale europea v. F. Buffa, Le “visite intime” ai carcerati in 5 sentenze della Cedu, in questa Rivista on line, 20 febbraio 2024, https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-visite-intime-ai-carcerati-in-5-sentenze-della-cedu
[15] In the matter of an application by Stephen Hilland for Judicial Review (Northern Ireland) (2024) UKSC 4.
[16] Criminal Justice (Northern Ireland) Order 2008.
[17] R (Stott) v Secretary of State for Justice (2018) UKSC 59.
[18] Sulla portata e sul significato di questo atto del Parlamento in relazione all'assetto delle fonti si può vedere G. Criscuoli e M. Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, seconda edizione, Giuffrè, Milano, 2021, p. 381 ss.