Magistratura democratica
Europa

Le “visite intime” ai carcerati in 5 sentenze della CEDU

di Francesco Buffa
consigliere della Corte di cassazione

Sommario: 1. Premessa - 2. I principi generali affermati dalla CEDU in materia - 3. La sentenza Aliev c. Ucraina del 2003 - 4. La sentenza Nazarenko c. Lettonia del 2007 - 5. La sentenza Ciorap c. Moldavia del 2007 - 6. La sentenza Epners-Gefners c. Lettonia del 2012 - 7. La sentenza LesŁaw Wòjcik c. Polonia del 2021 - 8. Considerazioni conclusive

 

 

1. Premessa

Il tema della disciplina delle visite “coniugali” o “intime” ai carcerati, oggetto della recente, bella e coraggiosa pronuncia della nostra Corte costituzionale n. 10 del 2024 – già commentata in questa Rivista dall’insuperabile penna di Riccardo De Vito - (con la quale pronuncia, superando l’angusta prospettiva del proprio precedente n. 301 del 2012, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie) è stato esaminato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo in diverse occasioni. 

Tale giurisprudenza europea ha importanza enorme anche sul piano interno, atteso che la Corte costituzionale italiana, nel suo scrutinio di legittimità costituzionale, ha espressamente affermato che la disposizione censurata viola anche l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 8 CEDU. La sentenza costituzionale, in particolare, ricorda al par. 4.4.1. che “ormai una larga maggioranza di ordinamenti europei riconosce ai detenuti spazi più o meno ampi di espressione dell'affettività intramuraria, inclusa la sessualità. Si ricordano i parlatori familiari (parloirs familiaux) e le unità di vita familiare (unités de vie familiale), locali appositamente concepiti nei quali il codice penitenziario francese prevede che possano svolgersi visite di familiari adulti, di durata più o meno estesa, «senza sorveglianza continua et diretto»; con funzione analoga si segnalano le comunicaciones íntimas, disciplinate dal regolamento penitenziario spagnolo, e le visite di lunga durata (Langzeitbesuche), ammesse dalla legislazione penitenziaria di molti Länder tedeschi”.

Quanto alla giurisprudenza CEDU, la nostra Corte costituzionale ricorda, in particolare, che la Corte di Strasburgo, pur dichiarando che gli Stati non sono obbligati a riconoscere le visite coniugali, poiché godono al riguardo di un vasto margine di apprezzamento, e potendo il singolo ordinamento rifiutare l'accesso alle visite coniugali quando ciò sia giustificato da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine, ha sempre applicato in materia un proportionality test, al fine di verificare se la disciplina nazionale di volta in volta interessata rechi un «giusto equilibrio» tra gli interessi pubblici e privati coinvolti e preveda una restrizione carceraria in linea con il principio di proporzionalità.

 

2. I principi generali affermati dalla CEDU in materia

La Corte EDU ha sempre affermato con giurisprudenza costante che i detenuti continuano a godere di tutti i diritti e le libertà fondamentali garantiti dalla Convenzione, salvo il diritto alla libertà, laddove la detenzione legittimamente imposta rientra espressamente nell'ambito di applicazione dell'articolo 5 della Convenzione, essendo escluso che un detenuto perda tali diritti e libertà semplicemente a causa del suo status di detenuto a seguito di condanna (si veda Hirst c. Regno Unito (n. 2) [GC], n. 74025/01, §§ 69- 70, CEDU 2005-IX; Dickson c. Regno Unito [GC], no. 44362/04, GC, 4 December 2007, § 67; e Stummer c. Austria [GC], n° 37452/02, § 99, CEDU 2011).

La Corte ha in particolare affermato che una parte essenziale sia della vita privata che della riabilitazione dei detenuti che il loro contatto con il mondo esterno “deve essere mantenuto per quanto possibile, al fine di facilitare il loro reinserimento nella società una volta rilasciati, e questo è effettuato, ad esempio, fornendo strutture per visitare gli amici dei detenuti e consentendo la corrispondenza con loro e con altri” (X. c. Regno Unito, n. 9054/80). Nel contempo, secondo la Corte EDU si deve riconoscere che una certa misura di controllo dei contatti dei detenuti con il mondo esterno è necessaria e non è di per sé incompatibile con la Convenzione, e che tali misure possono includere limitazioni imposte al numero di visite familiari, supervisione su tali visite e, se giustificato dalla natura del reato e dalle caratteristiche individuali specifiche di un detenuto, l'assoggettamento del detenuto a un regime carcerario speciale o a speciali disposizioni (Messina c. Italia (n. 2), no. 25498/94, § 73-74, 28 settembre 2000; Khoroshenko c. Russia [GC], n. 41418/04, § 123, CEDU 2015, con ulteriori riferimenti; Van der Ven c. Paesi Bassi, no. 50901/99, § 68). 

Tali principi sono del tutto in linea con le Regole penitenziarie europee, raccomandazioni del Comitato dei Ministri agli Stati membri del Consiglio d'Europa riguardo agli standard minimi da applicare nelle carceri. La versione del 1987 delle Regole penitenziarie europee rilevava, come principio fondamentale, che “Gli scopi del trattamento delle persone detenute devono essere tali da salvaguardare la loro salute e il rispetto di sé e, per quanto lo consente la durata della pena, sviluppare il loro senso di responsabilità e incoraggiare quelle attitudini e competenze che le aiutino a ritornare nella società con le migliori possibilità di condurre una vita rispettosa della legge e autosufficiente dopo il loro rilascio”. L’ultima versione di tali Regole adottata nel 2006 sostituisce il principio ora detto con tre principi: “Regola 2: Le persone private della libertà conservano tutti i diritti che non sono legittimamente privati dalla decisione che le condanna o le mette in custodia cautelare. Regola 5: La vita in carcere si avvicina il più possibile agli aspetti positivi della vita in comunità. Regola 6: Ogni detenzione sarà gestita in modo da facilitare il reinserimento nella società libera delle persone private della libertà”.

Nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in materia di visite intime ai carcerati, vengono in considerazione gli articoli 8 e 12 della Convenzione.

L’art. 8 prevede che “1. Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (...) e della propria corrispondenza. 2. Non vi può essere ingerenza di un'autorità pubblica nell'esercizio di questo diritto solo nella misura in cui tale ingerenza è prevista dalla legge e costituisce una misura necessaria, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, la sicurezza pubblica, il benessere economico del Paese, la difesa dell'ordine e la prevenzione dei reati, la tutela della salute o della morale, ovvero la tutela dei diritti e delle libertà altrui”. L’art. 12 stabilisce che “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”.

La giurisprudenza CEDU si è specificamente espressa sul tema delle visite coniugali o intime in diverse pronunce, che si esamineranno nei seguenti paragrafi. Non sembrano invece propriamente pertinenti alcune delle pronunce CEDU richiamate dalla Corte costituzionale italiana, ed in particolare la sentenza Dickson c. Regno Unito, no. 44362/04, GC, 4 dicembre 2007 (che riguardava il diverso tema del rifiuto di accesso a pratiche di inseminazione artificiali, tema che invero poneva problemi affatto diversi, atteso da un lato che le visite coniugali possono dar luogo a preoccupazioni pragmatiche di sicurezza, mentre l’inseminazione artificiale no e, dall’altro lato, che l’ammissione delle visite coniugali per i detenuti potrebbe anzi essere considerata come un ostacolo alla necessità che le autorità forniscano strutture aggiuntive per l’inseminazione artificiale) e la sentenza ChocolàČ c. Slovacchia, n. 81292/17, 7 luglio 2022 (che riguardava il tema del tutto diverso del divieto per i detenuti di detenere materiale “per adulti”, perché ritenuto pericoloso per la moralità). Anche in tali pronunce si è posto il problema del contrasto tra la disciplina penitenziaria e quella convenzionale di cui all’art. 8, ma la similitudine con il tema in disamina può ben dirsi che finisce qui.

Occorre invece soffermarsi brevemente sui principi generali stabiliti dalla CEDU in materia di visite ai detenuti, principi contenuti nella sentenza resa nel caso Lavents c. Lettonia, n. 58442/ 00, 28 novembre 2002. 

La Corte ricorda che, sebbene ogni detenzione legittima comporti per sua natura una restrizione della vita privata e familiare della persona interessata, è tuttavia essenziale, per rispettare la vita familiare, che l'amministrazione penitenziaria e le altre autorità competenti aiutino il detenuto a mantenere i contatti con i suoi parenti stretti.

Nel caso di specie, ove alla moglie ed alla figlia del detenuto era stato precluso di fargli visita, la Corte ritiene che il divieto di visite familiari in questione costituisce un'ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto della sua vita familiare, garantito dall'articolo 8 § 1 della Convenzione. Tale ingerenza non viola la Convenzione, se è “prevista dalla legge”, persegue almeno uno scopo legittimo rispetto al comma 2 dell’articolo 8 e può essere considerata una misura “necessaria in una società democratica”. 

La Corte rileva che all'epoca dei fatti raccontati dal ricorrente, l'unico testo che disciplinava le visite familiari di una persona posta in custodia cautelare era un'ordinanza del Ministro dell'Interno, sostituita poi con una nuova ordinanza del Ministro della Giustizia. A questo proposito, la Corte rileva il contrasto con la Convenzione di un’ingerenza nell'esercizio dei diritti soggettivi di un individuo, basata esclusivamente su un decreto ministeriale, non essendo l’ingerenza “prevista dalla legge” ai sensi del secondo comma dell’articolo 8 (si veda anche la sentenza Kornakovs c. Lettonia, n. 61005/00, 15 giugno 2006).

In ogni caso, la Corte sottolinea che, nello specificare gli obblighi che gli Stati contraenti assumono ai sensi dell'articolo 8 per quanto riguarda le visite in carcere, è necessario tener conto delle esigenze normali e ragionevoli della reclusione e dell'entità del margine di apprezzamento riservato alle autorità nazionali quando regolamentano i contatti del detenuto con la sua famiglia (si vedano la sentenza Boyle e Rice c. Regno Unito del 27 aprile 1988, serie A n. 131, p. 29, § 74, e Dikme c. Turchia, n. 20869/92, § 117, CEDU 2000-VIII). D’altro canto, la Corte riconosce la grande importanza, per un detenuto, di poter mantenere legami personali ed affettivi con la sua famiglia, soprattutto dopo un periodo di detenzione prolungato (si veda Messina c. Italia (n. 2), § 61). Di conseguenza, se le restrizioni imposte alle visite familiari di un detenuto in custodia cautelare possono essere giustificate da una molteplicità di fattori –il rischio di collusione o di evasione, la protezione dei testimoni, la necessità di garantire il regolare svolgimento delle indagini–, e tuttavia le restrizioni devono basarsi su un bisogno sociale urgente e rimanere proporzionate agli obiettivi legittimi perseguiti. 

Le autorità nazionali competenti devono quindi dimostrare i loro sforzi per trovare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'indagine e i diritti del detenuto. In particolare, la durata del divieto di visite dei familiari e la sua portata sono fattori da prendere in considerazione ai fini della determinazione della proporzionalità di tale misura. In ogni caso, un divieto assoluto di visita può essere giustificato solo da circostanze eccezionali.

Nel caso di specie, la Corte, constatato che la moglie e la figlia del ricorrente non erano autorizzate a fargli visita durante periodi distinti, il più lungo dei quali di quasi un anno e sette mesi, ha ravvisato la violazione della Convenzione.

Interessante in materia anche la sentenza Moisejevs c. Lettonia, no 64846/01), 15 giugno 2006, nella quale il Governo deduceva l’inapplicabilità dell’art. 8 della Convenzione sostenendo che la relazione tra il ricorrente e la sua compagna non rientrava nell'ambito di applicazione dell'articolo 8.

La Corte ha ricordato che la nozione di “vita familiare”, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione, non è limitata alle famiglie fondate sul matrimonio ma può comprendere altri rapporti di fatto; tuttavia, per determinare se una relazione di fatto si qualifica come “vita familiare”, è necessario tenere conto di un certo numero di elementi, come ad esempio se i membri della coppia hanno convissuto e per quanto tempo, se hanno avuto figli insieme, naturalmente o in altro modo, ecc. (vedi X, Y e Z c. Regno Unito, sentenza del 22 aprile 1997, Reports 1997-II, pp. 629-630, § 36). La Corte riconosce che a volte può rivelarsi difficile applicare tutti questi criteri a un detenuto, soprattutto quando ha già trascorso diversi anni in prigione. Nel caso, però, la Corte ritiene di superare il problema, pur non conoscendo l'esatto grado di intensità del legame che univa la persona al detenuto, rilevando che in diverse occasioni il giudice nazionale aveva autorizzato la detta persona a visitare il detenuto, così riconoscendo che i loro rapporti fossero sufficientemente forti e seri da autorizzare il loro incontro per visite familiari.

 

3. La sentenza Aliev c. Ucraina del 2003

Il tema delle visite “intime” (“unfettered nest visits” o “unfettered nasty visits”, secondo altra lectio), tema più specifico rispetto a quello generale delle visite dei familiari ai detenuti, è stato esaminato invece direttamente dalla CEDU in altre occasioni. La prima pronuncia è stata Aliev c. Ucraina, no. 41220/98, 29 aprile 2003.

In tale sentenza, la Corte parte dall’affermazione di principio secondo la quale lo Stato deve garantire che una persona sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della sua dignità umana, che le modalità e le modalità di esecuzione della misura non la sottopongano a disagio o disagio superiori al livello inevitabile delle sofferenze inerenti alla detenzione e che, date le esigenze pratiche della detenzione, la sua salute e il suo benessere sono adeguatamente garantiti (vedi Kudła c. Polonia [GC], n. 30210/96, §§ 93-94); la sofferenza e l’umiliazione implicate dalla pena non devono mai andare oltre quell’inevitabile elemento di sofferenza o umiliazione connesso ad una determinata forma di trattamento o punizione legittima. 

Nel caso sottoposto al suo esame, si trattava delle visite della moglie del detenuto (ricorrente in causa), permesse ma solo alla presenza di un guardiano (autorizzato a interrompere la conversazione o a terminare la visita); nella specie, inoltre, al detenuto non era permesso parlare in lingua avara (una lingua delle montagne) durante le visite di sua moglie e lo stesso era tenuto in manette.

Quanto alla dedotta impossibilità di contatto intimo tra il ricorrente e sua moglie, la Corte ha ritenuto pacifico in fatto che le autorità penitenziarie avevano negato al ricorrente la possibilità di avere rapporti sessuali con la moglie durante le sue visite. In diritto, ha però osservato la Corte che, sebbene sia parte essenziale del diritto del detenuto al rispetto della vita familiare che le autorità penitenziarie lo assistano nel mantenere un contatto effettivo con i suoi familiari stretti, una certa misura di controllo dei contatti dei detenuti con il mondo esterno è necessaria e non è di per sé incompatibile con la Convenzione, sicché, pur prendendo atto con approvazione dei movimenti di riforma in diversi paesi europei volti a migliorare le condizioni carcerarie facilitando le visite coniugali, la Corte ha affermato che il rifiuto di tali visite fosse giustificato per la prevenzione di disordini e crimini ai sensi dell’art. 8, secondo comma, della Convenzione (v., ad esempio, E.L.H. e P.B.H. c. Regno Unito, n. 32094/96 e 32568/96, decisione della Commissione del 22 ottobre 1997, Decisions and Reports 91, p. 61).

Nelle circostanze del caso di specie, la Corte ha ritenuto quindi che la limitazione delle visite della moglie del ricorrente fosse proporzionata allo scopo legittimo perseguito, e che pertanto non vi fosse alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

 

4. La sentenza Nazarenko c. Lettonia del 2007

Nel caso Nazarenko c. Lettonia, no 76843/01,1 febbraio 2007, il ricorrente lamentava che il rifiuto del pubblico ministero competente di autorizzare la sua corrispondenza con la moglie, la natura troppo breve e rara dei suoi colloqui con lei e soprattutto l'impossibilità di beneficiare di visite coniugali "lunghe" avessero violato i suoi diritti ai sensi dell’art. 8 della Convenzione.

Nel caso, il Governo lettone aveva ricordato che, secondo il regolamento carcerario vigente, le persone poste in custodia cautelare beneficiano solo di visite "brevi", a differenza dei detenuti condannati che avevano diritto anche a visite “lunghe”, e che tale previsione non era stata impugnata dal ricorrente mediante ricorso alla Corte Costituzionale.

La Corte, “pur considerando con simpatia i movimenti di riforma di diversi paesi europei volti a migliorare le condizioni carcerarie facilitando le visite coniugali” (par. 74), ricorda che il rifiuto o la limitazione di tali visite deve per il momento ritenersi giustificato da motivi di mantenimento del pubblico ordinare e prevenire i reati ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, della Convenzione (si veda E.L.H. e P.B.H. c. Regno Unito, n. 32094/96 e 32568/96, decisione della Commissione del 22 ottobre 1997, Decisions and Reports (DR) 91, pag. 61, Kalashnikov c. Russia (dec.), n. 47095/99, CEDU 2001 XI, e Aliev c. Ucraina, n. 41220/98, § 188, 29 aprile 2003) e respinge il ricorso.

 

5. La sentenza Ciorap c. Moldavia del 2007

Un cambio di registro si evidenzia nella sentenza resa dalla Corte nel caso Ciorap c. Moldavia, no. 12066/02, 19 giugno 2007, ove la Corte, piuttosto che richiamare genericamente le esigenze di sicurezza quale ragioni idonee a limitare i diritti del detenuto, si spinge finalmente a verificare se in concreto le dette esigenze esistessero effettivamente, così censurando nel merito la valutazione delle autorità penitenziarie e degli stessi giudici nazionali.

Nella fattispecie, si lamentava un'ingerenza nei diritti del ricorrente ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, in ragione del rifiuto di consentire al detenuto incontri con la sua ragazza e sua sorella in una stanza separata, consentendoli solo in stanza con parete divisoria in vetro, con connessa impossibilità per il detenuto di incontrare i suoi visitatori in condizioni di riservatezza.

Nella sentenza, la Corte ha ritenuto il rifiuto delle visite quale ingerenza statuale nei diritti della persona ed ha valutato se l’ingerenza fosse “necessaria in una società democratica”, ossia fosse proporzionata in relazione alle circostanze. Premesso in proposito che il Governo aveva invocato ragioni di sicurezza per giustificare la necessità di separare il ricorrente dai suoi visitatori mediante una parete di vetro e che questa era stata anche la ragione del rigetto della doglianza del ricorrente da parte dei tribunali nazionali, la Corte ha però osservato che i tribunali nazionali non avevano fatto alcun tentativo di accertare la natura delle questioni di sicurezza specificamente nel caso del ricorrente, limitandosi genericamente a richiamare una astratta esigenza generale di preservare la sicurezza dei detenuti e dei visitatori. 

Nel caso, la Corte ha per converso notato che, anche in relazione al titolo del reato commesso ed in assenza di qualsiasi rischio di collusione, recidiva o fuga, si poteva ragionevolmente ritenere che consentire al richiedente di incontrare i suoi visitatori non avrebbe creato rischio alcuno per la sicurezza. La sentenza così conclude che, in assenza di qualsiasi necessità dimostrata di restrizioni di così ampia portata sui diritti del ricorrente, le autorità nazionali non sono riuscite a trovare un giusto equilibrio tra gli obiettivi invocati e i diritti del ricorrente ai sensi dell’articolo 8.

 

6. La sentenza Epners-Gefners c. Lettonia del 2012

Nel caso Epners-Gefners c. Lettonia, n° 37862/02, § 62, 29 maggio 2012, il ricorrente invocava il suo diritto a ricevere mentre era detenuto visite familiari a lungo termine, in particolare, da sua moglie e dal figlio appena nato. 

Il Governo aveva replicato che siffatto diritto non era protetto dall’art. 8 della Convenzione e che inoltre neppure esisteva una pratica comune tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa per quanto riguarda il diritto di ricevere visite a lungo termine per i detenuti; quanto alla legislazione nazionale, essa non consentiva ai detenuti di ricevere visite a lungo termine perché la detenzione, a differenza della reclusione, era una situazione più temporanea, che non doveva continuare per periodi di tempo prolungati e che era volto a prevenire la manipolazione delle prove nei procedimenti penali pendenti e a garantire un’indagine imparziale e un processo decisionale obiettivo; inoltre, al ricorrente non era stato, in pratica, impedito di esercitare il suo diritto alla vita familiare, mediante visite brevi.

La Corte ha quindi ricordato che la detenzione comporta limitazioni intrinseche alla vita privata e familiare del detenuto. Tuttavia, è parte essenziale del diritto del detenuto al rispetto della vita familiare che le autorità gli consentano o, se necessario, lo assistano a mantenere i contatti con i suoi familiari stretti; questo principio –ha sottolineato la Corte- si applica a fortiori ai detenuti non ancora condannati, che devono essere considerati innocenti in virtù dell'articolo 6 § 2 della Convenzione, a meno che e nella misura in cui le esigenze dell'indagine richiedano un approccio diverso.

Nel caso, però, la Corte esclude la violazione dell’art. 8 e ciò in quanto al ricorrente attuale non erano state negate visite a breve termine (anzi il ricorrente ha ricevuto due visite di breve durata da parte della moglie nell'arco di tre anni, ma le autorità nazionali non potevano essere ritenute responsabili per i lunghi periodi di tempo tra una visita e l'altra), né egli aveva chiesto visite a lunga durata termine mentre era in una prigione di custodia cautelare. 

 

7. La sentenza LesŁaw Wòjcik c. Polonia del 2021

L’ultimo caso esaminato dalla Corte è LesŁaw Wòjcik c. Polonia, n. 66424/09, deciso il 1 luglio 2021. Qui il ricorrente sosteneva che la limitazione del suo diritto a ricevere visite coniugali private in carcere era ingiustificata e sproporzionata, e che anzi essa aveva avuto un effetto distruttivo sulla sua vita familiare e aveva impedito a lui e alla moglie di avere altri figli. Il ricorrente sottolineava inoltre che mantenere i contatti con la famiglia attraverso visite supervisionate, telefonate e corrispondenza era diverso dal mantenere i legami familiari e matrimoniali. Quest'ultima cosa non era possibile in carcere, dove non era consentito alcun contatto fisico con la moglie durante le visite supervisionate e dove non erano consentite visite senza supervisione in una stanza separata. Infine, il ricorrente sosteneva che il fatto che, secondo la legge, le visite coniugali costituissero una ricompensa o una misura motivazionale da concedere a discrezione del direttore del carcere, rendeva praticamente impossibile ottenerle. Evidenziava a tale ultimo profilo una lunga serie di richieste, costantemente evase sempre allo stesso modo, con un timbro “respinto” e firma illeggibile, senza alcuna motivazione.

Il Governo aveva evidenziato da un lato l'impossibilità pratica di garantire visite coniugali illimitate a tutti i detenuti in Polonia, dove il numero di persone private della libertà era vicino al limite massimo legale (in termini di sovraffollamento), e dall’altro lato che l'attuale regolamentazione delle visite coniugali in carcere le disciplinava in termini di ricompensa o misura motivazionale (e non come diritto assoluto), ciò che consentiva peraltro di tener conto sia delle risorse limitate dello Stato sia dei bisogni personali dei detenuti, in vista del loro obiettivo finale di riabilitazione.

La Corte ha confermato che la Convenzione non impone agli Stati contraenti di prevedere le visite a lungo termine. Si tratta quindi di un ambito in cui gli Stati contraenti godono di un ampio margine di discrezionalità nel determinare le misure da adottare per garantire il rispetto della Convenzione, tenendo conto dei bisogni e delle risorse della comunità e dei singoli individui, valutando tra l’altro anche le ragioni di conservazione o di ordine e la prevenzione della criminalità.

La Corte ha rilevato che il diritto interno qualificava esplicitamente le visite coniugali come ricompense (nagrody), in termini di benefici o privilegi aggiuntivi che possono essere concessi come ricompensa per il buon comportamento di un detenuto eccezionale o come forma di motivazione volta a migliorare la situazione comportamento del detenuto; data la natura di privilegio, e non di diritto, l'accesso e il godimento di tali misure dipendono dalle circostanze molto specifiche del caso e dal comportamento individuale specifico della persona interessata, che dovrà essere necessariamente valutato caso per caso. 

Tale aspetto secondo la Corte non esclude in ogni caso la valutazione europea circa la proporzionalità della misura, sebbene si debba tener conto anche del fatto che la misura impugnata è un elemento di un sistema di privilegi per i detenuti con un intrinseco elemento di discrezionalità.

Nell’effettuare il test di proporzionalità, e cioè valutare se il rifiuto delle autorità di concedere alla ricorrente le visite coniugali in questione fosse arbitrario o manifestamente irragionevole, la Corte rileva che i motivi alla base della richiesta del ricorrente riguardavano sia la preservazione dei vincoli matrimoniali suoi e di sua moglie, sia l’esigenza connessa con il desiderio della coppia di avere un altro figlio, sia infine con la meritevolezza del beneficio in considerazione dello stadio avanzato della sua risocializzazione e al suo impegno eccezionale.

La Corte, però, nel controllo europeo della valutazione delle autorità nazionali, non ravvisa profili di violazione dell’art. 8, escludendo da un lato che vi fosse una privazione indiscriminata di una categoria di prigionieri dei diritti previsti dalla Convenzione o una restrizione totale o automatica a tutti i prigionieri condannati, e valorizzando, dall’altro lato, la documentazione relativa al comportamento del ricorrente in carcere e in particolare le numerose sanzioni disciplinari irrogategli, sicché i rifiuti in questione non potevano esser ritenuti arbitrari o manifestamente irragionevoli.

 

8. Considerazioni conclusive

All’esito dell’esame della giurisprudenza CEDU in materia, può dunque affermarsi che la Corte europea, nell’escludere che la Convenzione imponga agli Stati contraenti di prevedere le visite a lungo termine, non essendovi un european consensus in tema ed essendo la materia rimessa alla discrezionalità degli Stati, ha affermato la necessità della previsione per legge del divieto e di un bilanciamento tra l’interesse dell’autorità a vietare le visite intime e dall’altro lato i diritti dei detenuti convenzionalmente protetti, un bilanciamento che come di consueto è rimesso in prima battuta alle autorità nazionali in considerazione delle peculiarità dei vari ordinamenti e della loro prossimità al caso concreto, ma è comunque sottoposto al controllo europeo di proporzionalità dell’ingerenza statuale; un controllo, peraltro, come emerge dalla giurisprudenza su richiamata, finora dimostratosi -nonostante alcune affermazioni di principio- in concreto piuttosto timido (salvo solo il caso Ciorap) con specifico riferimento alle visite intime ai detenuti.

La pronuncia costituzionale italiana richiamata in premessa, pur evocando la CEDU ai fini del sindacato di costituzionalità ex art. 117 Cost., va ben oltre nella tutela dei diritti dei detenuti e, rimuovendo la norma dell’ordinamento penitenziario -imponente quell’invasivo ed odioso controllo visivo durante le visite- in quanto contrastante con la Costituzione (ed in particolare con gli articoli 3 e 27, terzo comma, oltre che 117, Cost.), finisce con il consentire le visite intime in linea generale (salvo che per i regimi detentivi speciali), riconduce in modo definitivo le visite in discorso ai diritti della persona (al di fuori in quanto tali da ogni logica premiale), affermando en passant che “è comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia -che dunque vigilerà solo all’esterno-, ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia”), ed infine prevedendo le sole eccezioni dettate da ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina o da ragioni giudiziarie. Un altro bell’esempio, dunque, del dialogo multilevel tra Corti, in vista della migliore protezione dei diritti della persona, come sul dirsi ut magis valeat

20/02/2024
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