1. Con la sentenza n. 10 del 2015 la Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità di un prelievo tributario gravante su produttori e distributori di greggio (cd. Robin tax), ha stabilito che gli effetti di tale declaratoria decorrono dal giorno successivo alla pubblicazione della pronuncia in gazzetta ufficiale. Essi, pertanto, non agiscono direttamente nei giudizi a quibus, ove la domanda proposta aveva ad oggetto, nella sostanza, l’istanza di rimborso del tributo corrisposto dai soggetti passivi, in applicazione di una norma reputata (evidentemente, con ragione) incostituzionale.
Benché la Corte abbia cura di precisare che i ricorrenti del processo principale comunque trarranno beneficio dalla cessazione di efficacia del tributo per gli anni a venire, è dunque piuttosto chiaro, proprio alla luce del petitum formulato in tale giudizio con riguardo ai pagamenti già eseguiti, che sia stato spezzato il nesso che rende l’incidente di legittimità costituzionale una fase pregiudiziale, finalizzata a decidere la controversia da cui esso ha tratto origine. L’utilità conseguita per mezzo della decisione della Corte, infatti, non solo non produce effetti giuridici nel giudizio a quo (se non, volendo, sul piano della regolazione delle spese processuali, il che è cosa decisamente modesta), ma pone sul medesimo piano coloro che hanno adito la giurisdizione per tutelare i propri diritti, e chi, invece, è rimasto inerte e usufruisce ora dei vantaggi connessi all’iniziativa altrui, esattamente nella medesima misura.
Ove la questione fosse stata risolta secondo abitudine (art. 30 l. n. 87 del 1953), viceversa, l’illegittimità costituzionale avrebbe precluso a chiunque, ed anzitutto ai rimettenti, l’applicazione della disposizione da essa colpita. Il processo principale si sarebbe concluso con l’accoglimento della domanda ed il rimborso dell’indebito, mentre, per il passato, a chi non avesse agito in giudizio sarebbe stato eventualmente opponibile il limite del rapporto esaurito (il termine di maturazione di esso è affare che qui non interessa, poiché si ragiona in astratto).
In tal modo, tuttavia, si sarebbe aperto un ragguardevole buco di bilancio, la cui copertura, secondo la Corte, avrebbe imposto manovre a danno dei più deboli, e a tutto vantaggio dei petrolieri. Ciò, nonostante questi ultimi, in violazione della legge, fossero verosimilmente riusciti a traslare sul consumatore il costo economico del tributo.
Ad altra sede va riservata un’analisi più profonda delle implicazioni recate dalla decisione della Corte. Qui basteranno alcuni spunti iniziali di riflessione.
2. Come è noto, il Costituente non aveva affatto le idee chiare su come avrebbe dovuto funzionare il processo costituzionale, ché, anzi, era quest’ultima nozione ad apparire a quei tempi assai vaga, se non quasi di scarna utilità. Tutto stava nel dar vita al giudice, e poi si sarebbe visto come la Corte avrebbe in concreto operato. L’art. 136 Cost. si limitò, in coerenza con tale impostazione, a prevedere che le leggi dichiarate incostituzionali cessano di “avere efficacia” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. L’efficacia di un atto normativo non necessariamente coincide con l’applicabilità: si può ben immaginare che la legge non regoli ulteriormente una fattispecie per l’innanzi, ma che continui a trovare applicazione per le ipotesi temporalmente manifestatesi quando, invece, essa era ancora “efficace”.
Tuttavia, fu la legge costituzionale n. 1 del 1948 ad imprimere al nostro controllo di costituzionalità un carattere incidentale, stabilendo che esso sorge nel corso di un giudizio, e, dunque al fine, anzitutto, di risolvere quest’ultimo, quando a ciò osta la sussistenza di una norma di legge che il giudice comune non ha il potere di disapplicare. A quel punto, fu abbastanza naturale concludere che l’art. 30 della legge n. 87 del 1953, con il quale si vieta l’”applicazione” delle disposizioni dichiarate incostituzionali, fosse il dovuto e necessario svolgimento del precetto costituzionale, e con esso facesse indissolubilmente corpo. Se, infatti, la questione di costituzionalità è proposta a partire da un giudizio, e allo scopo di definirlo, non avrebbe avuto senso privare proprio quest’ultimo degli effetti connessi all’eventuale accoglimento.
Su questo aspetto, pur con qualche distinguo, i costituzionalisti non hanno avuto grandi dubbi, ed il sistema ha funzionato in tal modo per almeno trent’anni.
Qui, al di là delle considerazioni in punto di diritto, è bene aggiungere che si va a toccare l’anima della giustizia costituzionale. È ampiamente conosciuta la dicotomia, che risale fino ad Hobbes, tra lex e iura. Ovvero, il diritto nella dimensione obiettiva di strumento per la conformazione del consorzio civile secondo i bisogni dell’imperante interesse pubblico (lex), oppure il diritto nella prospettiva soggettiva di garanzia dei diritti dell’individuo, a fronte della compressione imposta dal Potere (iura). La Corte costituzionale non sfugge all’alternanza di due concezioni della legalità che cooperano alla costruzione dell’ordinamento democratico; anzi, essa si trova spesso nella necessità di trovare un punto di equilibrio, che non ne sacrifichi alcuna definitivamente.
In quest’ottica, il giudizio costituzionale, pur potendosi sfociare in una pronuncia aventi effetti erga omnes (lex), resta pur sempre il mezzo con cui la persona reagisce a fronte di offese recate ai diritti dal legislatore (iura); anzi, in tali casi, l’unico mezzo attribuito dalla Costituzione ai fini dell’esercizio di quei diritti conculcati. È piuttosto evidente che ragionare sulla rilevanza e sugli effetti temporali delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale significa non soltanto affrontare un problema di mera “tecnica” giuridica, ma anche prendere posizione su quale sia ritenuto il giusto mix tra lex e iura compatibile con il nostro sistema costituzionale. Se la Corte si spinge troppo in là verso una direzione o verso quella opposta, qualche difficoltà può nascere.
Rescindere la dichiarazione di incostituzionalità dalla sfera propria del processo principale, in particolare, comporta, naturalmente a seconda delle circostanze, l’eventualità (a rischio di attrito con l’imperativo categorico kantiano!) di assegnare alle parti di quest’ultimo giudizio la funzione di strumento necessario a rimuovere, nell’interesse obiettivo dell’ordinamento, una disposizione illegittima, e non di fine verso cui indirizzare l’azione di tutela dei diritti propria del giudice costituzionale. Il processo a quo diviene per tale via una mera occasione da cogliere per porre, nell’interesse della collettività, un dubbio di costituzionalità, che altrimenti non sarebbe stato possibile affrontare. La Corte, perciò, dovrà prestare in futuro grande attenzione, affinché la novità di cui oggi si è dotata, per rispondere ad una fattispecie del tutto peculiare, non imbocchi una via troppo scoscesa.
3. Si diceva che per circa un trentennio non si è mai posto il problema di modulare gli effetti nel tempo delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale. Alla fine degli anni 80’ uscirono, invece, alcune decisioni della Corte che suscitarono scalpore. Con esse il giudice costituzionale, anziché limitarsi a pronunciare l’incostituzionalità di una legge ed affidarsi all’art. 30 della l. n. 87 del 1953 quanto agli effetti temporali di simile pronuncia, venne invece a specificarli, spesso nel dispositivo stesso.
Non mancò allora chi ritenne (M. D’Amico) che, a ben vedere, la Corte in tutte quelle occasioni si fosse limitata ad esplicitare in tal modo il limite dei rapporti esauriti, che avrebbe già dovuto ricavarsi dalle singole discipline di settore (si sarebbe trattato, in altri termini, solo di chiarire che gli effetti dell’incostituzionalità, come di consueto, non raggiungono la fattispecie che l’ordinamento non permette più di porre in discussione, ed alla quale la norma dichiarata incostituzionale non avrebbe pertanto comunque potuto applicarsi).
Ma, anche a ragionare diversamente come fecero i più, siamo in ogni caso ben lontani dalla portata della sentenza n. 10 del 2015.
In quei casi, la Corte si trovò a rilevare, infatti, ipotesi del tutto particolari di incostituzionalità sopravvenuta, ovvero maturata nel corso del tempo, e venuta a concretizzarsi solo in coincidenza con il giudizio costituzionale, ovvero con una sopravvenienza normativa, tale da indicare a rime obbligate una data certa di decorrenza degli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale.
Il principio di indipendenza dei Tribunali militari ha richiesto tempo per trovare completa attuazione, e “ciò che non può essere tollerato è la protrazione ulteriore dell’inerzia del legislatore” (sentenza n. 266 del 1988), sicché i provvedimenti di nomina dei magistrati militari non possono “ulteriormente” essere adottati, fermi gli atti posti in essere in precedenza (sentenza n. 266 del 1988). Per la stessa ragione, il principio di pubblicità dell’udienza innanzi alle Commissioni tributarie si impone dal giorno successivo alla sentenza della Corte, giacché “soltanto ora può considerarsi realmente verificata la sopravvenuta illegittimità costituzionale” (sentenza n. 50 del 1989). La riliquidazione della pensione dei magistrati ordinari decorre dal 1° gennaio 1988, posto che solo il 31 dicembre 1987 ha cessato di avere efficacia una norma che svolgeva in precedenza una funzione perequatrice, e non la rendeva pertanto costituzionalmente dovuta (sentenza n. 501 del 1988; per casi analoghi, sentenze nn. 124 del 1991 e 416 del 1992).
Non vi è dubbio che la Corte si trovò anche allora a valutare l’impatto che l’effetto retroattivo della incostituzionalità avrebbe potuto produrre, sia sulla funzionalità della giustizia con riguardo alle attività processuali già svoltesi (il caso dei magistrati militari e delle commissioni tributarie; l’intervento obbligatorio del PM nei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione: sentenza n. 416 del 1992), sia sul bilancio dello Stato, a fronte dell’obbligo di corrispondere arretrati per un lungo arco di tempo (le pensioni dei magistrati). Furono quindi esigenze concrete che incentivarono la fantasia della Corte, proprio come oggi si è temuto di dover imporre allo Stato una manovra aggiuntiva stimabile fino a 7 miliardi di euro circa, al fine di reperire la provvista necessaria a restituire il tributo indebito, ma già corrisposto.
Tuttavia, dal punto di vista tecnico, la soluzione fu rinvenuta, in modo più o meno plausibile, attraverso la figura dell’illegittimità costituzionale sopravvenuta. In tali ipotesi, specificare in dispositivo la data a partire dalla quale la norma cessa di avere applicazione significa in realtà adottare una doppia pronuncia sulla costituzionalità di essa: che è esplicitamente di accoglimento a partire da quella data, ed occultamente di rigetto con riguardo al periodo antecedente. Qui, persino la mancata produzione di effetti nel giudizio a quo, per quanto fin da allora severamente criticata da molti, trova una sua spiegazione logica: la Corte esclude che la disposizione sia incostituzionale, con riferimento al tempo in cui essa ha prodotto effetti sulla posizione giuridica delle parti. La dimensione della lex prevale sugli iura, ma non li cancella, posto che essi (magari grazie ad un’accorta finzione giuridica) non si erano in precedenza materializzati.
Non si può ignorare quanto lontana da questo terreno sia la sentenza n. 10 del 2015. Con essa la Corte non esita a ritenere incostituzionale la Robin tax fin da quando essa è sorta, e tollera che una tale illegittimità produca i suoi effetti, anche in danno delle parti del processo principale, in virtù della compensazione operato con gli interessi di bilancio presidiati dall’art. 81 Cost..
Anche qui bisogna prestare attenzione a non confondere i piani. Le esigenze connesse alla spesa pubblica spesso compaiono nella giurisprudenza costituzionale, per giustificare manovre, volte al reperimento di fondi, ai limiti della tollerabilità, ad esempio perché è di dubbia ragionevolezza l’indice di capacità contributiva (basti pensare al prelievo del 6 per mille sui depositi bancari, miracolosamente salvificato dalla sentenza n. 143 del 1995). Ma l’esito del bilanciamento è comunque diretto ad escludere l’incostituzionalità della manovra, e quindi si pone tutto all’interno del percorso logico con cui la Corte assolve alla funzione, che le è propria, di valutare se una certa legge ha valicato i limiti segnati dalla Costituzione. Nel nostro caso, viceversa, il bilanciamento agisce interamente all’esterno del giudizio di costituzionalità in senso proprio, poiché l’illegittimità si è in effetti verificata, ed è questione di limitarne gli effetti.
Naturalmente, mentre nessuno potrebbe contestare che il primo compito appartenga istituzionalmente alla Corte, si potrebbe invece dubitare che il secondo le competa, posto che non le è stato espressamente conferito, diversamente da quanto accade altrove. Se gli effetti della illegittimità costituzionale sono governati dall’art. 136 Cost. e dall’art. 30 della l. n. 87 del 1953, essi potrebbero venire decisi, caso per caso, dai giudici comuni in applicazione di tali regole, in quanto estranee al giudizio di costituzionalità e sottratte al monopolio della giurisdizione costituzionale. È un modo di ragionare, ma, secondo chi scrive, non certamente il migliore, se non altro per l’elevato grado diconflittualità che porta con sé, e che potrebbe persino indurre la Corte all’arma estrema del conflitto di attribuzione nei confronti del giudice comune dissenziente.
Resta allora per acquisita la novità: una norma incostituzionale ha prodotto effetti, e l’azione giudiziaria contro di essa è stata vana, non perché priva di fondamento, ma perché così la Corte ha ritenuto opportuno per salvaguardare la Costituzione nella sua integrità. Ma, in fondo, il recentissimo passato ha già offerto un precedente nella sostanza non così lontano dall’attuale decisione. Ancora ci si può domandare, infatti, per quale ragione l’incostituzionalità della legge elettorale acclarata dalla sentenza n. 1 del 2014 non abbia travolto il Parlamento in carica, benché il giudizio di convalida degli eletti non si fosse ancora concluso. In quell’occasione, la Corte ha richiamato il principio di continuità dello Stato, e ha aggiunto che elezioni già celebrate costituivano un fatto compiuto.
Formule differenti dall’incisione diretta sugli effetti temporali della decisione, che il ben più modesto caso della Robin tax non permetteva di recuperare. Tuttavia, il medesimo effetto: una retroattività normativamente sancita, ma compromessa dalla discrezionalità della giurisdizione costituzionale nel trovare la via per difendere la Costituzione “come un tutto unitario” (sentenza n. 10 del 2015).
4. In questo sta il tradizionale dilemma di chi si occupa di questi argomenti: quanto è auspicabile il potere nudo del giudice costituzionale di decidere quel che è bene, senza avvertire la cogenza di un processo le cui regole sono state scritte altrove? Esiste davvero un processo costituzionale, anche se esso può venir fatto e disfatto in base all’apprezzamento dell’organo chiamato a celebrarlo? Fino ad oggi sono dubbi che non hanno trovato risposta certa. Un po’ perché la Corte è tutt’altro che arbitraria quando si risolve per un certo verso, per quanto controvertibile, e magari, caso per caso, decisione per decisione, ci si accorge che in definitiva si è trovato il modo migliore di risolvere un problema; un po’, perché un giudice le cui sentenze sono sottratte ad alcuna forma di impugnazione, governa il “suo” processo con un certo grado di libertà.
Non è detto, tuttavia, che queste premesse siano sufficienti, a fronte dello sviluppo della dimensione internazionale dei diritti dell’uomo, ed in particolare dell’intervento di altri Corti, che non avvertono soggezione rispetto al primato attribuito dalla nostra Costituzione al giudice delle leggi.
Il caso oggi deciso attiene alla materia fiscale, e si mostra perciò scarsamente penetrabile dalla CEDU (tra le altre, Corte EDU, sentenza Ferrazzini contro Italia). Un domani, tuttavia, potrebbe trattarsi d’altro. Non più l’astuto petroliere che trasla sul consumatore il peso di un tributo, e poi ne pretende il rimborso; ma, ad esempio, il lavoratore cui sia stato illegittimamente negato un diritto patrimoniale, e che si trova innanzi al rifiuto di corrispondere gli arretrati, pena l’esplosione dell’equilibrio di bilancio. Certo, è ragionevole pensare che la Corte, in quest’ultimo caso, esiterebbe ad impiegare la tecnica di modulazione degli effetti temporali innestata oramai nel processo costituzionale. Tuttavia, se ciò dovesse accadere, potrebbe esservi un giudice a Strasburgo. È infatti lecito interrogarsi sulla conformità agli artt. 6 e 13 della Convenzione di un processo cui è precluso di soddisfare integralmente il bene della vita, nonostante sia riconosciuta la fondatezza della pretesa.
Quando è direttamente la legge ad incidere su una posizione giuridica, mentre gli atti secondari hanno natura meramente applicativa, pare ovvio che il solo strumento di tutela sia costituito dalla reazione contro l’atto legislativo, nelle forme disciplinate da ciascun ordinamento nazionale. Nella prospettiva della Corte europea, l’intervento della Corte costituzionale ha appunto una tale funzione, esso è cioè parte incidentale del procedimento giurisdizionale volto a valutare la fondatezza della domanda di giustizia. Verrebbe il dubbio che impedire a tale fase di conseguire gli effetti che le sono propri, per ragioni che non attengono alla posizione delle parti, privi di effettività il giudizio principale (art. 13) e lo renda, in definitiva, ingiusto (art. 6).
Si tratterebbe di un conflitto tra Corti di gravissima virulenza, poiché porrebbe in discussione la prerogativa del nostro giudice costituzionale di governare il proprio processo, ed interrogherebbe il giudice comune circa il dovere di prestare obbedienza all’uno o all’altro dei contendenti.
Anche per prevenire questa ipotesi, la Corte potrebbe in futuro valutare l’opportunità, ove intendesse tornare a limitare gli effetti temporali delle pronunce di accoglimento, di far salvo perlomeno il giudizio a quo, secondo il ben noto temperamento al modello di giustizia costituzionale a “legislazione negativa” (Kelsen). Né si dovrebbe temere di favorire indiscriminatamente chi ha agito in giudizio, rispetto a chi ha subito l’azione della norma senza reagire, ma sarebbe ancora in tempo per usufruire dei vantaggi derivanti dal successo dell’iniziativa altrui. Difatti, proprio la circostanza di avere, o no, radicato un processo è un elemento ragionevole di differenziazione, specie alla luce del carattere incidentale del nostro controllo di costituzionalità.
5. Resta un’ultima considerazione. Ancora una volta l’art. 81 Cost. è stato protagonista di una decisione costituzionale. Capita con sempre maggiore frequenza, da quando l’obbligo di assicurare l’equilibrio di bilancio ha ristrutturato profondamente la nostra società, fiaccando il Welfare, oscurando obiettivi di ridistribuzione della ricchezza, e persino annichilendo l’autonomia regionale verso un modello di mero decentramento amministrativo.
Nel nostro caso, la Corte ci rammenta che non vi sono valori costituzionali tiranni, e che la Costituzione si tiene tutta insieme, in costante equilibrio tra interessi talvolta divergenti. Resta il fatto che si è visto flettere il nesso incidentale proprio del controllo di costituzionalità, ed i diritti che erano stati azionati nel processo principale, proprio a fronte dell’esigenza di tenere in ordine i conti pubblici, piuttosto che innanzi a contrapposti diritti fondamentali. Vi è però uno spunto nella motivazione della sentenza n. 10 del 2015 che rassicura: la decisione risparmia alla collettività una manovra correttiva, la cui adozione comprometterebbe le condizioni dei meno abbienti, con “irrimediabile pregiudizio delle esigenze di solidarietà sociale” tutelate dagli artt. 2 e 3 della Costituzione. Dunque, non un mero calcolo contabile, ma lo scopo ultimo di salvaguardare chi è indifeso dinanzi alla crisi, e ha perso sovranità in ragione dell’impellente bisogno economico.
In questo passo la Corte ci rammenta di non aver affatto dimenticato il suo ruolo di custode dei diritti, e ci richiama a confrontare tutta la nostra teoria con l’evidenza dei fatti, per come si erano svolti nel caso di specie.
Proviamo però ora ad allontanarci dalla sentenza n. 10 del 2015, e a trarne spunto per porre un quesito che la trascende, e la risposta al quale certamente non è imputabile al giudice costituzionale, visto che quest’ultimo si è limitato realisticamente a prendere atto di come si è svolta la politica economica italiana perlomeno nell’ultimo decennio.
Per quale ragione la paventata manovra avrebbe dovuto abbattersi orizzontalmente, e con cieca indifferenza, sui più deboli, come se vi fosse un obbligo costituzionale di spartire con esattezza matematica il costo della sentenza, anziché, semmai, il contrario?
Certo, se si ragiona in chiave di redditi, non vi sarebbe stato modo alcuno di recuperare l’ingente somma dalle tasche di quella esigua minoranza di benestanti, che si mostra fedele al fisco. Ma, se dobbiamo dar retta a Piketty, l’Italia, in buona compagnia nel mondo occidentale, è il paese del capitale ferocemente accumulato in danno dei redditi da lavoro, con un’accelerazione che non ha fine dagli anni 80’ in avanti. È allora il caso di ricordare che trovare le risorse economiche di cui vive una democrazia non è l’opera di anonimi ragionieri mascherati dietro libri contabili, ma il frutto di decisioni politiche su chi deve pagare, e chi no. Ma forse il problema qui messo a nudo, e al quale non può certo essere la Corte a dare una risposta, è proprio questo: ridestare la Repubblica dal lungo, lungo sonno della politica.